La storia delle forze armate britanniche e delle loro gesta è una delle più avvincenti che possano esistere. Uno Stato piccolo come quello inglese si è lanciato nella conquista di continenti, isole e regni mille volte più grandi di lui, con eserciti la cui consistenza numerica aveva quasi del ridicolo in confronto alle spropositate forze nemiche, riportando insperate e travolgenti vittorie.
Tra il XVII e il XIX secolo, che fosse in Germania o in Canada contro i francesi, in India contro moghul e maharatti, in Oceania contro olandesi e maori, nei Caraibi con corsari e spagnoli, le giubbe rosse hanno sempre dato spettacolari prove di sé, creando quello che alla fine del XIX secolo era il dominio più grande, più florido e più potente che mai nessuno aveva visto.
Ma come nacque questa gloriosa epopea? La madre fu di sicuro la Guerra Civile inglese tra realisti e repubblicani; il padre fu invece Oliver Cromwell.
Un uomo duro, sia nelle scelte politiche sia nella fede. Ferreo puritano, avverso alla monarchia, superbo generale, regicida e tiranno, instaurò l’unica repubblica che si vide mai in Inghilterra e la dominò con il pugno di ferro dell’esercito che lui stesso aveva plasmato e comandato negli anni della Guerra Civile contro Carlo I Stuart, Re d’Inghilterra.
Cromwell, vista la durata del conflitto con il sovrano, iniziò una ristrutturazione tra le file dei suoi uomini. Fondamentalmente seguì in via parallela le innovazioni che al di là della Manica avevano introdotto gli olandesi, ma con alcuni elementi in più. Istituì un apparato militare permanente, con uomini altamente motivati, ben pagati e assoggettati ad una severa e incrollabile disciplina. I saccheggi, tipici dei soldati mercenari del 600’, erano banditi, gli uomini dovevano essere leali fino alla morte e dotati di spirito di sacrificio e abnegazione.
Ma un arma in più gli accomunava: questi ultimi erano infatti uniti dalla comune fede puritana, che li animava di sacro furore quando combattevano contro uomini di altre confessioni religiose, più o meno come i crociati lo erano stati contro i musulmani nel XII secolo.
La New Model Army, ovvero la forza militare composta da questi soldati, aveva una divisa uniforme: cappello civile e giubbe rosso sangue, da qui il nomignolo che diverrà famoso in tutti i continenti.
La sua prima prova fu la battaglia campale di Naseby, nel 1645, dove annientò la fanteria realista e ricacciò indietro i valenti cavalieri aristocratici con la sua straordinaria disciplina. Nel 1653 entrò nel Parlamento per permettere a Cromwell di prendere il potere, proclamandosi Lord Protettore dell’Inghilterra (di fatto un dittatore) e instaurando uno stato forgiato sulla Fede puritana e sull’esercito molto politicizzato.
Ma la vera grande esibizione in ambito internazionale la New Model Army la diede nel 1658, nella Battaglia delle Dune, contro l’esercito spagnolo delle Fiandre.
In parte questo scontro fu dettato da questioni interne: Carlo II Stuart, figlio del sovrano deposto e decapitato qualche anno prima, si era rifugiato con alcuni fedeli alla corte spagnola e architettava da anni la ripresa del suo trono. Cromwell, dal canto suo, progettava invece di schiacciare le ultime sacche realiste in patria e ottenere un possesso stabile nel continente da dove iniziare una crociata anticattolica.
Perciò, quando le ostilità sempre latenti tra Spagna e Francia si riaccesero, il Lord Protettore fu ben felice di mettere a disposizione di Luigi XIV 3.000 giubbe rosse e la flotta britannica per occupare la roccaforte di Dunkerque.
La battaglia che si svolse quel 13 giugno nella spiaggia sulla strada per la cittadina vide un grande schieramento iberico (8.000 fanti e 5.000 cavalieri più 2.000 realisti inglesi) piazzarsi su robuste posizioni difensive, che il Visconte di Turenna, con i suoi 6.000 fanti e 9.000 cavalieri, si doveva impegnare a scardinare.
La parte più forte della disposizione tattica nemica era una duna piuttosto ripida e alta circa 45 metri, presidiata da un robusto Tercio di veterani spagnoli e da alcuni realisti. Fu davanti a loro che venne posizionato il contingente di giubbe rosse che, alla vista degli odiati nemici, non rimasero nei ranghi ma avanzarono verso la duna.
Appena giunsero a portata di tiro vennero bersagliati dalla fucileria avversaria e quando qualcuno venne colpito scattò nei puritani un sacro fuoco vendicativo, che li portò a caricare senza ordini la posizione nemica.
Salendo anche carponi sul ripido declivio le giubbe rosse assaltarono i nemici praticamente da soli, scaricarono i loro moschetti sugli spagnoli e poi entrarono in mischia usando picche, pugnali, spade e fucili utilizzati come clave, rompendo con il loro impeto il quadrato e ricacciandolo giù dalla duna.
A questo punto vennero attaccati da tutte le forze disponibili: una carica di cavalleria del duca di York, figlio di Carlo II, venne respinta; una seconda manovra coadiuvata di fanti e cavalieri portò ad una dura mischia, vinta di nuovo dalle giubbe rosse con l’arrivo di qualche rinforzo francese.
Per quando spagnoli e realisti ci mettessero sangue e impegno, l’aggressività dei britannici risultò decisiva. Infine un attacco generale in tutti gli altri settori portò al collasso l’intero esercito iberico, che si dovette dare alla fuga tallonato dalla superiore cavalleria francese, che portò alla disfatta.
Alla fine risultarono 1.000 morti e 5.000 prigionieri per i cattolici, 400 per gli anglo-francesi, soprattutto giubbe rosse.
A detta del Visconte di Turenna, questi ultimi erano stati superbi “Gli inglesi hanno una reputazione che niente può eguagliare in questo esercito”, ma anche gli spagnoli ebbero per loro parole di rude elogio “Venivano su come animali selvaggi…”. Fu il battesimo del fuoco internazionale di questi inossidabili soldati.
L’Inghilterra ha sempre avuto l’incredibile fortuna di poter contare, come ulteriore e suprema aggiunta alla difesa della sua integrità territoriale, il mare.
La massa d’acqua salata che la separa dalla Francia, detto Stretto della Manica, le ha permesso di dilazionare gli attacchi nemici e di evitare grandi offensive di terra. Infatti sono veramente poche le volte che una potenza straniera abbia compiuto con successo una sua invasione, e in tutte è servito l’ausilio di potenti flotte militari. Esempi sono lo sbarco di Cesare e poi di Claudio in epoca romana, le incursioni che porteranno agli insediamenti sassoni dal V secolo, le scorrerie vichinghe nel IX e infine, la meglio riuscita vista la fondamentale portata storica, la conquista normanna del 1066.
Da quei tempi lontani il popolo inglese aveva imparato che non sarebbe servito un grosso esercito per difendere la madrepatria, ma una potente ed efficiente flotta, che dal tempo della Regina Elisabetta I iniziò a dettare legge nello scacchiere strategico locale prima, e negli oceani poi.
Nel 1588, l’ultima grande minaccia d’invasione fino all’epoca di Napoleone, venne mossa al regno inglese dall’allora grande superpotenza mondiale, la Spagna di Filippo II. La cosiddetta Invincibile Armada, composta da migliaia di veterani iberici e da oltre cento galeoni da battaglia, venne superata e sbaragliata dai più piccoli ma moderni vascelli a vela britannici, che portarono al ridimensionamento della forza navale asburgica e lanciarono l’Inghilterra in quel ruolo di dominatrice dei mari che solo gli olandesi si arrischiarono a sfidare nei due secoli successivi.
All’epoca di Cromwell solo la Repubblica delle Province Unite poteva insidiare il primato della marina inglese, perciò le frontiere rimasero sicure e le armate della repubblica dovettero vedersela con avversari molto inferiori, come i nemici di sempre irlandesi e scozzesi, che non potevano offrire una resistenza organizzata e vennero schiacciati più volte.
Unica grossa minaccia, fino al XVIII secolo, furono i tentativi di restaurazione assolutista e cattolica degli ultimi Stuart, contrapposti alla dinastia degli Orange, i nuovi sovrani d’Inghilterra una volta caduta la repubblica e il breve interregno Stuart terminato con la Rivoluzione Gloriosa del 1688.
Tralasceremo la battaglia di Blenheim, combattuta nel 1704 presso il Danubio, dove le giubbe rosse combatterono sotto gli ordini del grande John Churchill, duca di Marlborough, e di Eugenio di Savoia, per due ordini di ragioni: primo, l’armata che venne schierata contro i francesi del Maresciallo Tallard era composita e la componente inglese era solo un quinto del totale e, per quanto combatté bene, non si distinse in modo eclatante; secondo, la vittoria, per quanto importantissima dal punto di vista storico ,dato che bloccò le mire espansionistiche del Re Luigi XIV, fu frutto della geniale abilità di questo comandante più che dell’intrinseca superiorità delle forze britanniche. Inoltre va contato il grande contributo dell’altro grandissimo generale del tempo, Eugenio di Savoia, che portarono all’insperato risultato finale.
A noi invece interessano tre scontri che, per portata storica e conseguenze, sono fondamentale nell’epica della giubba rossa del XVIII secolo: Culloden, Plassey e Assaye.
A Culloden un armata realista agli ordini del Duca di Cumberland, composta da 8.000 fanti, 900 dragoni e 13 cannoni, si scontrò con l’armata giacobita (fedele a Carlo Edoardo Stuart) composta da 5.000 fanti scozzesi, i famosissimi e irruenti highlander.
Gli highlander erano l’ultimo vero e proprio esercito medievale d’Europa, infatti, in quel 16 aprile del 1746, erano armati con vecchi moschetti che vennero abbandonati quasi subito in favore delle pesanti spade e degli scudi tondi tipici del folclore scozzese. Questi uomini infatti puntavano tutto sulla loro forza d’urto e sul terrore che avrebbe scatenato una carica “barbarica” con urla e suoni di cornamusa.
Purtroppo per loro, quello che si trovarono davanti fu l’efficienza e la disciplina di alcuni dei reparti di fanteria migliori del mondo. Disposti su due linee, i britannici riversarono uno spietato fuoco sugli scozzesi che, gettati via i moschetti dopo la prima scarica, avevano messo mano alle spade ed erano balzati in avanti per non sottostare al duro pedaggio inflitto dalla superiore artiglieria inglese.
Nonostante i grossi varchi aperti dalla fucileria britannica i guerrieri dei clan si avventarono con coraggio sulla prima linea nemica, scompaginandola e sfondandola in diversi punti. Ma in quell’esatto momento si ritrovarono davanti una seconda linea di fantaccini che, con i moschetti spianati, li bersagliò con spietate raffiche sparate da pochi passi.
Emblematico è l’esempio del reggimento Sempill, che disposto su tre file, la prima inginocchiata e le altre due in piedi, aspettò con fermezza fino a che gli highlander non furono ad un solo metro dalle loro baionette prima di aprire il tiro.
Inutile dire che questo fu troppo anche per i duri montanari scozzesi che, decimati dai cannoni, stanchi per la corsa in campo aperto e per lo scontro con la prima linea, si videro ora esposti ad un volume di fuoco impossibile da sopportare. I clan andarono in rotta o vennero massacrati sul posto.
Oltre 1.000 highlander rimasero sul campo, mentre un migliaio venne fatto prigioniero, annientando ogni speranza di casa Stuart di tornare a regnare su Londra.
All’inizio la forza, il coraggio e il valore degli scozzesi fu ricambiato con estrema durezza dagli inglesi, mediante la repressione crudele e spietata che fece guadagnare al duca di Cumberland l’odio sempiterno in Scozia, ma più tardi, e soprattutto nelle guerre britanniche del XIX secolo, i reparti scozzesi come i Black Watch o i Cameron’s Highlander si fecero una nomea imperitura nella storia dell’esercito di Sua Maestà, proteggendo i suoi interessi contro Napoleone prima e in ogni parte del globo poi.
L’altra battaglia epica, visto l’incredibile azzardo e il coraggio dimostrato da Robert Clive, che con 3.000 fanti (solo 1.000 giubbe rosse inglesi e gli altri sepoy indiani) e 8 cannoni, andò incontro e vinse contro l’armata indo-francese comandata dal Nababbo del Bengala Suraj-ud-Daula, composta da 50.000 fanti, 15.000 cavalieri e 53 cannoni.
La vicenda è emblema della spregiudicatezza con la quale i comandanti inglesi, spesso senza direttive precise e inseguendo obiettivi a prima vista folli e irraggiungibili, abbiano trionfato su forze immensamente superiori numericamente ma minate da contrasti interni o da arretratezza e impreparazione militare, regalando alla Compagnia delle Indie prima e alla corona britannica poi l’immenso impero che alla fine del XIX secolo si estendeva sulla maggior parte del mondo.
Il Nababbo Suraj-ud-Daula, appoggiato dai francesi, aveva iniziato una politica avversa agli inglesi nel Bengala. Nel 1756 aveva attaccato l’avamposto della Compagnia nella regione, Calcutta, catturando oltre 100 soldati che morirono quasi tutti nelle sue sovraffollate prigioni, chiamate il “Buco Nero di Calcutta”.
Per lavare l’onta e recuperare il controllo della città la Compagnia incaricò il colonnello Robert Clive, che con 3.000 uomini riprese Calcutta il 2 gennaio 1757. A questo punto iniziarono trattative di pace, che entrambi i contendenti protrassero e condussero in un clima di reciproca sfiducia fino all’estate, quando ripresero le ostilità.
Ma Clive non era rimasto con le mani in mano, accorgendosi infatti che nella corte del Nababbo non tutti erano così ostili alle lusinghe della Compagnia. Mir Jaffar, zio di Suraj, iniziò a trattare per passare in campo inglese, in cambio del loro sostegno alla successione sul trono del Bengala.
In giugno Suraj mosse su Calcutta con sessantamila effettivi, deciso a riprenderla come aveva fatto l’anno prima. Clive, nonostante avesse una buona base nella fortezza di Fort William, decise di passare all’offensiva, nonostante fosse venti volte inferiore di numero.
La mattina del 23 giugno gli artiglieri francesi del sovrano indiano aprirono il fuoco sui britannici, ma fecero pochi danni perché questi ultimi si erano arroccati in un boschetto. In più una forte pioggia monsonica si era abbattuta sui contendenti, bagnando la polvere dei francesi ma non quella degli inglesi, che Clive aveva fatto proteggere con teli impermeabili. Zittita l’artiglieria del Nababbo il fuoco dei pezzi della Compagnia iniziò ad infliggere pesanti perdite alle compatte linee indiane, disposte in un immenso semicerchio intorno allo sparuto gruppo inglese.
Il Nababbo ordinò allora al suo miglior generale, Mir Mudin Khan, di attaccare frontalmente i nemici, ma sul terreno scoperto le sue truppe armate in maniera medievale vennero annientate dal tiro dei moschetti e dai cannoni di Clive. Quando Mir Mudin cadde le sue truppe si ritirarono in disordine, demoralizzando le altre rimaste ferme.
Mir Jaffar, che comandava una buona parte delle forze del nipote, decise che la fortuna era a favore dei britannici e ritirò i suoi uomini dalla battaglia, provocando il tracollo del resto dell’armata indiana e alla fuga di Suraj-ud-Daula con al seguito solo 2.000 cavalieri. A questo punto Clive ordinò ai suoi di avanzare, spazzando via la resistenza dei reparti superstiti e degli artiglieri francesi, facendogli ottenere una vittoria decisiva.
Se Plassey era stata la prima tappa di un avventura coloniale che avrebbe regalato il dominio dell’India all’Impero di Londra, Assaye servì a cementare tale supremazia.
Nel 1799, l’unico grande avversario rimasto nel subcontinente indiano era la Confederazione dei Maharatti, un popolo di guerrieri fiero e bellicoso, che allestì una potente armata per respingere le forze inglesi comandante dal giovane generale Arthur Wellesley, futuro vincitore di Napoleone e duca di Wellington.
I maharatti misero in campo una immensa schiera di 100.000 uomini, con un’ottima artiglieria. La loro forza risiedeva però in poco più di 15.000 fanti addestrati all’europea e comandati da ufficiali francesi, tedeschi e olandesi, mentre per il resto non si poteva fare affidamento sui contingenti feudali e tribali che componevano l’armata. Il comando era stato affidato ad un generale hannoveriano, Pohlmann, che era l’ultimo della lunga schiera di militari europei che avevano fatto fortuna in India, tanto da andare in battaglia sopra la groppa di un elefante agghindato in maniera esotica e con divise da gran galà settecentesche.
Wellesley invece era giovane e alle prime prove sul campo, ma metterà subito in mostra le grandi abilità e il sangue freddo che gli permetteranno di prevalere perfino su Napoleone.
Questi aveva ai suoi diretti ordini una forza di 5.000 uomini, per la maggior parte fanti scozzesi e indiani con alcuni reparti di cavalleggeri inglesi e locali. Ad un certo punto, quando intercettò l’armata nemica presso il villaggio di Assaye, avrebbe potuto aspettare il ricongiungimento con una seconda colonna inglese di 6.000 effettivi, ma decise di non aspettare oltre e mosse verso Pohlmann.
Una volta trovato un guado nelle turbinose e fangose acque del fiume che delimitava il campo di battaglia, dispose i reggimenti su due file e dopo uno scambio di cannonate che si concluse con la supremazia maharatta, lanciò gli highlander e i sepoy all’assalto.
Poco più di 3.000 fanti in giubba rossa marciarono nella terra di nessuno, sopportando con ferrea disciplina il fuoco dei cannoni prima e la raffica della fanteria indiana poi, subendo dure perdite ma avanzando inesorabili, poi, a soli quaranta passi dal nemico, aprirono il fuoco.
La cadenza di tiro degli highlander e dei sepoy, frutto della severa disciplina delle giubbe rosse, surclassò di gran lunga il tanto vantato addestramento all’europea della fanteria maharatta, che vide un numero inferiore di uomini sopravvivere a tutto quello che gli avevano tirato addosso e che ora si stava ferocemente vendicando. Quando infine gli ufficiali scozzesi ordinarono di caricare con le baionette inastate il coraggio degli avversari evaporò come neve al sole. Al suono di cornamuse e grida di guerra in gaelico un feroce massacro venne a compiersi nella piana assolata di Assaye, mentre i fantaccini britannici sgomberavano la pianura dalla fanteria nemica prima e, disposti a quadrato, ricacciavano la cavalleria maharatta poi, concludendo la giornata prendendo anche il villaggio omonimo dove si erano arroccati per l’ultima difesa i resti dell’armata indiana, oramai allo sbando.
La vittoria era stata un’altra volta decisiva. Con la presa di qualche fortezza locale e alcuni altri scontri minori l’Inghilterra poté estendere il suo dominio in tutta l’India, e fino alla Rivolta dei Sepoy del 1857 nessuno metterà più in pericolo le sue prerogative nell’area.
Abbiamo visto la nascita e l’affermazione della giubba rossa in Inghilterra, in Europa e nelle colonie. Ma cosa distingueva questi uomini, che, così pochi, prevalevano su armate tanto grandi e molto spesso efficienti? Di sicuro va contato il valore dei comandanti che li guidavano, che fossero Cromwell, Churchill, Clive, Wolfe, Wellington o, più avanti, Wolseley. Ma non fu solo questo. Il fante britannico, la giubba rossa, era avvantaggiata da almeno tre caratteristiche che le permisero di prevalere su tutti gli altri: la disciplina e l’addestramento sono le prime due, tanto proverbiali da qualificare sempre questa unità in ogni epoca e in ogni scontro importante; la terza era lo spirito di corpo, il sentirsi legato al proprio reggimento, le proprie bandiere e i proprio compagni.
Il disonore di perdere le insegne in battaglia era il peggio che potesse immaginare un soldato inglese, e questo concetto veniva inculcato in maniera così permeante che ogni uomo che militava a lungo nell’esercito lo faceva proprio ed era pronto a morire per questo. L’attaccamento al reggimento era persino maggiore rispetto a quello verso il Re e la patria, concetti troppo astratti e, soprattutto il secondo, troppo lontani per i britannici, sia da un punto di vista temporale (il concetto di patria diverrà incisivo solo dopo la Rivoluzione Francese), ma soprattutto da un punto di vista sociale, vista la varietà etnica delle truppe britanniche (inglesi, irlandesi, gallesi, scozzesi, indiani, americani).
Inoltre, e questo si noterà nei combattimenti contro le truppe napoleoniche, gli inglesi avevano elaborato una modalità di combattimento molto più efficace di tutti gli altri. Infatti, al contrario di ogni altro esercito europeo, che si rifaceva al modello di schieramento o francese (a colonne d’assalto) o prussiano (fanti disposti con una profondità di quattro linee), i britannici avevano elaborato un dispiegamento tattico molto più flessibile e adatto in genere a potenziare al massimo la capacità di fuoco dei suoi eserciti, numericamente più esigui delle controparti continentali: due sole linee di profondità.
Questo dispiegamento permetteva di offrire meno bersaglio all’artiglieria e allo stesso tempo portava a far sparare tutte le truppe contemporaneamente, rispetto al numero minore di moschetti attivabili nella disposizione “alla prussiana” e ancor meno nella colonna francese, dove solo chi stava alla testa poteva sparare e il resto serviva solo a fare numero e incutere timore a truppe non troppo addestrate.
Gli effetti della nutrita fucileria delle giubbe rosse sulle pesanti formazioni napoleoniche che avevano annientato gli eserciti di tutta Europa si vedranno in Spagna dal 1808 al 1812, nelle battaglie di Talavera e Salamanca, ma soprattutto nella grande e decisiva tenzone a Waterloo, dove per tutto il giorno, in una battaglia tra le più sanguinose dell’epoca napoleonica, i reggimenti inglesi respinsero il meglio della Grande Armee, compresa l’invitta Guardia Imperiale, infrangendo così i sogni di rinascita di Napoleone.
L’epopea militare britannica, con le sue gloriose e folcloristiche truppe, proseguì per tutto il secolo XIX, arricchendosi di fatti d’arme in ogni parte del globo: India, Canada, Africa. Fu proprio nel Continente Nero che, negli ultimi decenni del secolo, quest’unità vide il suo canto del cigno in tre grandi guerre: nella guerra Anglo-Zulu, nella repressione della rivolta jihadista in Sudan e infine nel conflitto anglo-boero, dove le divise rosse vennero sostituite con il color kaki per la prima volta.
Le particolarità da evidenziare in queste campagne coloniali sono diversi. Riguardo alla prima, si vide un esercito baldanzoso e borioso affrontare le forze del regno Zulu, uno stato militarizzato e indipendente del Sudafrica, che nonostante l’arretratezza tecnologica (erano armati di lance e scudi di pelle) seppe dare del filo da torcere agli inglesi, riuscendo perfino a sconfiggerli in campo aperto a Isandlwana, dove 20.000 guerrieri intercettarono 2.000 britannici infliggendoli 1.300 caduti. La risposta di Londra non si fece attendere e dopo una dura campagna, inaugurata con l’eroica resistenza di un centinaio di giubbe rosse contrapposte a 4.000 zulu a Rorke’s Drift, l’armata di Lord Chelmsford entrò nella capitale nemica Ulundi e conquistò la regione nel 1879.
Situazione molto simile si poté riscontrare anche nella campagna sudanese combattuta in modo irregolare tra il 1885 e il 1898. In questa guerra, caratterizzata dal fanatismo religioso dei ribelli mahadisti (seguaci del Mahadi, ovvero il Messia), le giubbe rosse si videro davanti un esercito solo leggermente più evoluto in ambito tecnologico-militare: infatti se gli zulu erano appena entrati nell’era dei metalli con le lance di ferro, i sudanesi erano più o meno fermi al medioevo o al massimo alla prima era delle armi da fuoco, con archibugi che in Europa si usavano nel XVI secolo e prevalenza di armature, lance e spade.
Vista però la loro notevole forza d’urto e l’esiguità delle truppe inglesi rispetto alle enormi orde musulmane, i comandanti britannici misero a punto la strategia usata con successo nell’ultima fase di guerra in Sudafrica, ovvero i quadrati.
La formazione a quadrato, con i fanti che erigono una barriera di lame con le baionette e allo stesso tempo possono mantenere un alto volume di fuoco con i nuovi fucili a ripetizione Martini-Henry, era praticata fin dal settecento per contrastare le cariche di cavalleria, ora venne usata contro questi popoli che avevano nell’attacco in massa la loro tattica di base.
Ai lati del quadrato, nei punti più fragili, venivano disposte le truppe scelte con cannoni e mitragliatrici, che aprivano spaventosi varchi nelle compatte schiere di truppe in ordine chiuso, garantendo in genere la vittoria anche a singoli reggimenti britannici che si scontravano con forze soverchianti.
In tal modo le forze di sua Maestà riuscirono a ristabilire per l’inizio del XX secolo un nuovo e ferreo controllo del Sudan, garantendo il collegamento tra il loro protettorato egiziano e l’entroterra orientale dell’Africa.
L’ultima vera fatica della giubba rossa, che infatti vide anche materialmente sostituito lo storico colore vermiglio delle divise con il più pratico e meno vistoso kaki, fu la guerra anglo-boera, combattuta in luoghi vicini allo Zululand a fine secolo.
Qui i boeri, discendenti dei coloni olandesi che avevano per primi abitato Città del Capo, opposero una strenua e feroce resistenza all’assimilazione imperiale britannica. Fieri delle loro prerogative e della loro indipendenza, non accettarono l’annessione alla colonia sudafricana e si apprestarono ad una strategia di guerriglia che diede molto filo da torcere agli inglesi.
Le classiche disposizioni tattiche di un armata convenzionale come quella britannica non potevano sperare di prevalere su un nemico mobile e rapido negli attacchi come quello boero. Infatti i coloni erano tutt’altro che docili e impreparati al combattimento: vivendo a stretto contatto con i bellicosi zulu, erano tutti esperti cavalieri e ancora migliori tiratori. Agivano come dei moderni commando e attaccavano dove meno lo si aspettava, con azioni fulminee e letali. In una serie di scontri seppero umiliare e decimare le truppe britanniche lanciate all’assalto in ordine chiuso, come si faceva da secoli tra eserciti professionali.
Per piegare la loro resistenza gli inglesi dovettero adattare le loro tattiche, abbandonando l’uso delle tanto care uniformi rosse, troppo vistose (offrivano un troppo facile bersaglio) e adottando attacchi in ordine sparso, con tiratori addestrati al tiro di precisione e molte unità di fanteria a cavallo, che divenne rapida come gli avversari.
Solo così, e con l’invio di ulteriori rinforzi e l’uso di una dura strategia basata anche sulla deportazione delle popolazioni locali, il governo della repubblica boera capitolò e si arrese a inizio secolo, consegnando anche quel lembo di terra al dominio della Regina Vittoria.
L’ultima battaglia della giubba rossa si era conclusa, infatti le guerre mondiali avrebbero azzerato già dopo i primi mesi di guerra quelle particolarità che la resero grande. La guerra dei professionisti finiva, per far posto a quella dei popoli interi!
Alberto Massaiu
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