La ribellione dei Boxer, frutto del rigetto cinese di tutto quello che suonava come occidentale, ha le sue lontane origini almeno due secoli prima, con l’avvento della dinastia straniera Qīng cháo, di etnia manciù. Questi erano un popolo nomade, di stirpe mongola, che stazionava a settentrione della Grande Muraglia.
Nel XVII secolo, in piena crisi della un tempo fiorente dinastia Míng cháo, che aveva condotto all’apogeo il Celeste Impero e, per poco, aveva quasi cambiato la storia mondiale con i viaggi di Zheng He (che puoi approfondire in questo articolo), i manciù presero Pechino e iniziarono a governare il paese.
Ci misero alcuni decenni per conquistare anche il sud e stabilizzare la dinastia, ma vennero sempre visti come degli usurpatori stranieri dalla maggior parte della popolazione cinese, di etnia han. Questo fatto portò a numerose rivolte durante il loro dominio, cosa che rese ancora più esplosiva e problematica la situazione all’epoca dei Boxer.
All’alba del XIX secolo gli imperatori qing dovettero vedersela anche con gli occidentali. Fino a quel momento il colosso cinese era visto solo come un serbatoio di oggetti esotici per le sempre più sofisticate e annoiate aristocrazie europee, che nel ‘700 erano diventate pazze per le “cineserie”, ovvero tutto ciò che rimandava al Celeste Impero. Ormai, però, potenze come la Francia e la Gran Bretagna avevano la tecnologia e le colonie (in India e nel Pacifico) che avvicinavano i loro interessi a quelli del gigante addormentato.
I manciù, per quanto sovrani stranieri in terra han, condividevano l’opinione spocchiosa dei loro riottosi sudditi verso tutti gli stranieri. Emblematico è quanto avvenne durante le Guerre Napoleoniche, quando il governo britannico tentò di forgiare un’alleanza con la Cina, inviando una flotta ad Hong Kong con doni per l’imperatore, inclusi esempi delle ultime tecnologie e arti europee.
Dopo breve tempo l’ambasciata inglese ricevette una lettera da Pechino che spiegava che la Cina non era così impressionata dagli sviluppi raggiunti dall’Europa, ma che il re George III era benvenuto nel rendere omaggio come vassallo alla corte cinese. Inutile dire che il governo di Sua Maestà, con l’onore offeso, rinunciò a qualsiasi tentativo di migliorare le relazioni con il regime qing.
Eppure i sino-manciù non sapevano, dall’alto del loro borioso isolamento, quanto quelle innovazioni mettessero a rischio la pace, la stabilità e l’indipendenza del Celeste Impero. Poteva sembrare, a prima vista, che il colosso cinese fosse invincibile, con le sue immani dimensioni, il suo virtualmente infinito bacino di uomini, le sue ricchezze favolose e le grandi città. Eppure i britannici avevano già dimostrato in India che nulla era loro impossibile quando c’era da espandere zone di influenza e di commercio e all’alba del XIX secolo sgretolarono la superbia cinese.
Il primo tassello del domino cadde nel 1793, quando il governo imperiale stabilì che la Cina non aveva bisogno dei manufatti europei e perciò i mercanti cinesi potevano accettare in pagamento delle loro merci soltanto lingotti d’argento. La grande domanda europea sui prodotti quali la seta, il tè e la ceramica tradizionale poteva essere soddisfatta solo con ingenti esborsi di tale prezioso metallo, cosa che, alla fine del 1830, fece preoccupare grandemente i governi di Francia e Gran Bretagna.
Questi cercarono formule commerciali alternative con la Cina, tra cui spuntò l’oppio prodotto in grandi quantità in India, il cui utilizzo si diffuse a macchia d’olio nel paese e diventò ben presto una piaga per la popolazione e un elemento di forte instabilità per il governo, che lo bandì nel 1838.
La perdita di questo immenso indotto portò la Gran Bretagna a dichiarare guerra alla Cina, che sconfisse a mani basse grazie alla superiorità della sua flotta militare – la celeberrima Royal Navy – e i suoi piccoli eserciti dotati di tattiche moderne, fucili e artiglieria di ultima generazione, con cui travolse le grandi e indisciplinate masse dell’esercito qing. Questo conflitto, che potete approfondire in quest’altro articolo, mise a nudo i piedi d’argilla del colosso cinese.
La dinastia manciù, ormai sempre più screditata e incapace di tener lontana l’arroganza e la prepotenza occidentale, dovette subire anche gli effetti della devastante ribellione dei Taiping, che scoppiò tra la prima e la seconda guerra dell’oppio con la Gran Bretagna, a metà del secolo. Il paese, con trenta milioni di morti tra massacri di civili, battaglie e carestie, ne uscì scosso e stremato, incapace quindi di frenare le ulteriori pretese occidentali di aprire i suoi porti e i mercati alle grandi potenze coloniali.
Nel 1860, represse le ribellioni interne e accolte le pretese europee, la Cina iniziò un lento e contrastato processo di modernizzazione in campo militare, ostacolato dall’ostilità dell’aristocrazia e dalla volatilità delle decisioni della corte, gestita dall’imperatrice Cixi. Questa donna, madre dell’imperatore bambino Tongzhi e zia dell’imperatore Guangxu, s’impadronì del governo qing e fu di fatto leader occulto della Cina per 47 anni, fino alla morte nel 1908.
Alla fine del secolo questi sforzi di apertura mediata furono umiliati perfino dalla nascente stella dell’Impero del Sol Levante. Il Giappone, infatti, aveva fatto passi da gigante nella modernizzazione del paese e puntava a ritagliarsi un posto tra le grandi potenze coloniali, puntando alla Corea e alla Manciuria (zona in cui entrerà in conflitto con la Russia zarista meno di un decennio dopo).
Tra il 1894 e il 1895 la flotta nipponica sbaragliò quella cinese e i suoi eserciti occuparono la Corea e parte della Manciuria, compresa la strategica base di Port Arthur. La vittoria fu così netta e le condizioni del trattato di pace di Shimonoseki così dure che fecero infuriare la nobiltà e gli studenti cinesi, cosa che andò a rafforzare il sostegno al movimento dei Boxer. La sconfitta per mano del Giappone fu inoltre particolarmente umiliante, perché questa era considerata una nazione tradizionalmente tributaria della Cina.
Vista la debolezza ormai conclamata del governo qing anche russi e tedeschi si aggiunsero agli inglesi e giapponesi, pretendendo concessioni territoriali, zone di influenza, miniere e appalti per la costruzione delle ferrovie. L’imposizione di trattati ineguali, dove gli europei residenti e/o operanti nel paese di mezzo fossero esentati dal rispettare anche le più elementari regole di etichetta cinesi, compresi i diritti di essere giudicati per eventuali crimini dai loro tribunali nazionali, portò la situazione al punto di ebollizione.
A questo bisogna aggiungere l’atteggiamento dei missionari cristiani, cattolici e protestanti, che cercavano di distruggere le millenarie tradizioni culturali e le credenze di stampo buddista o confuciano per convertire la popolazione. Questa fu la goccia che fece traboccare il vaso e accese la miccia della sollevazione conservatrice e xenofoba dei Boxer.
Questi erano formati da disparate organizzazioni cinesi popolari che si unirono sotto il nome di Yihequan – traducibile nel mistico e confuico “Pugno della giustizia e della concordia” – e in seguito Yihetuan, ovvero “Gruppo della giustizia e della concordia”. A questi primi nuclei di insorti si fusero molte scuole di arti marziali, che diedero un po’ di disciplina e addestramento a queste milizie che assommavano contadini, artigiani, piccoli commercianti e funzionari, ex soldati o briganti di strada e tantissime altre categorie sempre più abbandonate dal sistema statuale al collasso.
I disordini antioccidentali iniziarono nel 1899, ma la guerra vera e propria contro le truppe occidentali cominciò nel giugno 1900, in seguito all’assedio delle ambasciate straniere a Pechino. Prima nelle campagne e poi nelle città i missionari cristiani, i cinesi convertiti e i dipendenti delle aziende europee che lavoravano sulle ferrovie, nei cantieri e nella miniere, furono scacciati o uccisi.
Il governo della reggente Cixi da un lato condannava formalmente i ribelli, dall’altro li sosteneva in segreto mediante l’apertura dei suoi arsenali e il supporto di alcuni reparti dello stesso esercito imperiale. Nel frattempo alle violenze fisiche si unirono quelle contro i materiali: ogni oggetto o edificio di origine europea veniva fatto a pezzi o bruciato.
I boxer si batterono da principio, oltre che per la salvaguardia delle tradizioni nazionali contro l’inquinamento straniero, anche in difesa dei contadini contro le angherie dell’amministrazione imperiale e dei grandi signori cinesi, ma i governanti di Pechino riuscirono pian piano a incanalare solo contro gli stranieri tutto il loro odio.
Fu in questo clima di paura che i sacerdoti locali e gli ambasciatori richiesero l’intervento militare dei rispettivi paesi per difendere le ambasciate e le missioni religiose e commerciali sperse per la Cina. Ben presto andò a formarsi l’Alleanza delle Otto Nazioni, che univa Gran Bretagna, Francia, Russia, Italia, Stati Uniti, Austria-Ungheria, Giappone e Germania. Questi inviarono navi da guerra, fanti di marina, soldati e artiglieria. Questi primi contingenti, seppur dimostrativi, incattivirono ancor di più l’opinione pubblica e l’atteggiamento della corte imperiale, che si vide sempre più invasa dalle potenze occidentali.
La situazione infatti giunse al punto di rottura il 19 giugno 1900, quando il governo imperiale ordinò alle legazioni che i diplomatici e tutti gli altri stranieri avrebbero dovuto abbandonare Pechino sotto la scorta dell’esercito cinese entro 24 ore, pena la guerra. La mattina successiva fu trucidato il plenipotenziario tedesco barone Klemens Freiherr von Ketteler, ucciso per le strade di Pechino da un capitano dell’esercito manciù. Gli altri diplomatici temevano che sarebbero stati uccisi anch’essi e così non rispettarono l’ordine di abbandonare Pechino. Il 21 giugno l’imperatrice Cixi dichiarò guerra a tutte e otto le potenze straniere, schierandosi al fianco dei Boxer.
L’assedio delle legazioni diplomatiche fu l’evento più drammatico del conflitto, quando l’esercito regolare cinese e i ribelli assediarono il quartiere delle legazioni per 55 giorni, dal giugno all’agosto del 1900. Qui si erano rifugiati 473 civili stranieri, 451 soldati occidentali e oltre 3.000 cinesi convertiti al cristianesimo.
A questa dichiarazione di guerra Germania, Austria, Francia, Italia, Gran Bretagna, Russia, Stati Uniti e Giappone risposero inviando un corpo di spedizione di circa 20.000 uomini, che occupò Tientsin e marciò in aiuto degli assediati.
“Quando vi troverete faccia a faccia con il nemico, sappiate batterlo. Nessuna grazia! Nessun prigioniero! Tenete in pugno chi vi capita sotto le mani. Mille anni fa, gli unni di Attila si sono fatti un nome che con potenza è entrato nella storia e nella leggenda. Allo stesso modo voi dovete imporre in Cina, per mille anni, il nome «tedesco», di modo che mai più in avvenire un cinese osi anche solo guardare di traverso un tedesco”
Dal discorso del kaiser Wilhelm II di Germania alle truppe in partenza da Brema
Il governo manciù, sempre più scollegato dalle province, non fu seguito dai suoi governatori nel resto del paese, cosa che rese più facile la reazione europea, che circoscrisse la zona di operazioni alla sola capitale e i suoi dintorni. In un clima di “si salvi chi può” ogni funzionario decise di proteggere i suoi territori a modo suo e, complice la poca simpatia degli han verso i qing, per la maggior parte si tennero fuori dai giochi con il pretesto di voler mantenere la pace e la sicurezza tra i sudditi.
Mentre parte del corpo di spedizione ripulivano le sacche di resistenza intorno alla capitale, massacrando i civili quando i Boxer riuscivano a eclissarsi, il corpo di liberazione, al comando del generale inglese Gaselee, marciava su Pechino incontrando una debole resistenza. Il 13 agosto le truppe delle otto nazioni si trovavano sotto le mura della capitale e l’indomani giapponesi, americani, francesi, russi e inglesi, suddivisi in quattro colonne, lanciarono l’attacco finale, preceduto dal fuoco di tutte le artiglierie.
Il giorno dopo le loro truppe presero la città, costringendo l’imperatrice vedova Cixi, l’imperatore e i più alti ufficiali a fuggire dal Palazzo Imperiale per rifugiarsi a Xi’an, da dove inviarono un plenipotenziario per le trattative di pace.
Pechino non fu rasa al suolo, ma le efferatezze non mancarono. Un numero sconosciuto, ma sicuramente elevatissimo tra ribelli, soldati imperiali e civili cinesi furono uccisi dalle truppe occidentali durante gli scontri, nei quali i soldati tedeschi si distinsero per brutalità, assieme ai russi e alle truppe indiane dell’Impero britannico. Il saccheggio di Pechino, con il suo codazzo di uccisioni, durò ancora per molti mesi, mentre ciascun contingente accusava gli altri di rapacità e sosteneva, per proprio conto, di avere le mani pulite. Questo pietoso scaricabarile venne concluso dal feldmaresciallo Alfred von Waldersee, comandante del contingente tedesco, con poche e lapidarie parole “Ogni nazionalità dà la palma all’altra nell’arte del saccheggio, ma in realtà ognuna e tutte vi s’immersero a fondo”.
Subito dopo la liberazione degli assediati, le forze internazionali procedettero alla spartizione della capitale, in uno stile che verrà rispolverato con Berlino alla fine del Secondo Conflitto Mondiale. I comandanti dell’Alleanza delle Otto Nazioni furono responsabili del saccheggio di molti manufatti storici di origine cinese, come quelli che si trovavano nel Palazzo d’Estate, e istigarono l’incendio di molti importanti edifici cinesi nel tentativo di sbaragliare i ribelli.
Nel settembre 1901 l’imperatrice Cixi fu costretta a firmare il Protocollo dei Boxer, che impose alla Cina una pesante indennità di guerra, che venne prelevata direttamente alle dogane cinesi, ormai controllate dagli occidentali. Il quartiere delle legazioni, al centro della capitale, venne ingrandito e vietato ai residenti cinesi. Le truppe straniere mantennero il controllo permanente della zona, a cui si aggiunse il presidio di dodici punti sulle vie di accesso a Pechino dal mare.
La Cina subiva l’ennesima umiliazione politica, diplomatica e militare, che condusse la sempre più debole e instabile dinastia qing alla fine. Cixi e l’imperatore Guangxu morirono entrambi nel 1908, lasciando l’autorità centrale in crisi e senza effettivo controllo del paese. Pu Yi, il figlio maggiore del principe Zaifeng, di soli due anni, fu nominato successore, lasciando a Zaifeng la reggenza.
La rivolta di Wuchang nel 1911 portò alla proclamazione della Repubblica di Cina, ponendo fine al Celeste Impero e al dominio manciù sul paese. Gli accordi tra i ribelli e i monarchici portarono all’abdicazione dell’imperatore bambino Pu Yi nel 1912 e alla nomina di Yuan alla presidenza della repubblica. Si concluse così la storia millenaria del Celeste Impero, aprendo le porte ad un secolo di rivoluzionari cambiamenti che hanno portato la Cina a ricoprire nuovamente un ruolo di primo piano negli attuali assetti mondiali.
Alberto Massaiu
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