Chi, almeno una volta, non ha sentito l’espressione “La polveriera dei Balcani?”. Letto su di una rivista, visto su un documentario alla televisione oppure studiato a scuola, in quella parte di programma relativa alle cause della Prima Guerra Mondiale, è una delle nozioni storiche più famose famose.
L’assassino dell’arciduca d’Austria Francesco Ferdinando e della moglie Sofia, avvenuto a Sarajevo quel giorno fatale del 28 giugno 1914, è considerato come il casus belli della Grande Guerra, che fagocitò le vite di oltre venti milioni di persone, tra militari e civili.
Gavrilo Princip, il diciannovenne bosniaco che aveva esploso i due colpi di rivoltella, non ebbe, forse per sua fortuna, il tempo per constatare quello che le sue azioni avevano scatenato, perché perì in prigione di tubercolosi giusto quattro anni dopo.
Oppure no, il dramma di tutte quelle morti non lo avrebbe distolto dal suo sogno di una grande Serbia che avrebbe inglobato al suo interno tutti i popoli slavi, soppiantando il gioco asburgico che li dominava. Difatti, dalle ceneri dell’Impero Austro-Ungarico nacque il Regno di Jugoslavia, uno Stato che univa serbi, croati, sloveni, bosniaci, macedoni e montenegrini, che operò costantemente nel tentativo di azzerare le differenze etniche, culturali e religiose in favore della nascita di una nuova identità.
Un po’ come fece il Piemonte quando creò il Regno d’Italia, anche la Serbia (unico stato indipendente regionale prima del conflitto mondiale) estese il suo sistema amministrativo al resto dei territori strappati agli Asburgo e cercò di creare un’entità unitaria attraverso la scuola unificata (elessero a lingua nazionale il serbo-croato), una potente ed estesa burocrazia, il servizio militare e una stampa irreggimentata, abbandonando localismi e particolarismi retrivi e conflittuali.
Eppure, nonostante questa azione durata vent’anni, più altri cinquanta sotto la dittatura comunista del maresciallo Tito, nel 1991 nei Balcani scoppiarono una serie ininterrotta di conflitti che perdurarono fino al 2001 (e forse, in maniera meno palese, ancora oggi), con una recrudescenza di nazionalismo, xenofobia e religiosità fanatica che hanno portato alla morte oltre 140.000 persone e a più di 4 milioni di sfollati.
Voglio riportare un dato interessante: fino all’ultimo decennio del XX secolo il fanatismo religioso era quasi inesistente tra i paesi balcanici. Sarajevo era la città che dava l’esempio (come Beirut prima di diventare campo di battaglia tra israeliani, siriani ed Hezbollah) di una perfetta multiculturalità. La capitale della Bosnia aveva musulmani, ortodossi, cattolici e non credenti che vivevano, studiavano, lavoravano e pregavano nel rispetto reciproco. La moschea, la chiesa e la grande biblioteca nazionale, orgoglio dell’intera Yugoslavia, stavano l’una accanto alle altre, senza che nessuno si sentisse offeso o minacciato.
Tutto questo cambiò in brevissimo tempo e ora, dopo anni di guerra civile, l’appartenenza ad un’etnia o ad una fazione religiosa ti qualifica come un marchio a fuoco agli occhi dei “nemici”. Non molti lo sanno ma la Bosnia Erzegovina è l’unico Stato la cui costituzione è stata dettata da accordi di pace (di Dayton) e scritta da altri (nello specifico gli Stati Uniti).
Il risultato è il classico pasticcio diplomatico all’americana, dove il paese è stato nettamente spaccato in due entità: la Federazione croato-musulmana della Bosnia ed Erzegovina e la Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina. Le due entità sono costrette ad una difficile coabitazione all’interno dello Stato bosniaco, che ha una presidenza collegiale di tre (un serbo, un croato e un musulmano) dove ogni otto mesi uno di loro ruota, alternandosi agli altri nella carica di presidente come primus inter pares.
Ognuna della due entità, praticamente statali, ha un suo parlamento locale, a cui si aggiunge un parlamento “nazionale”. Insomma, un vero ginepraio che si mantiene in piedi solo perché i serbi, che con la guerra e la pulizia etnica sognavano di mangiarsi la Bosnia, sono stati piegati dai bombardamenti a tappeto della coalizione a guida americana e dall’altrettanto disastrosa avventura in Kosovo.
Ma dove nasce tutto questo odio, talmente forte da scorrere sotto la superficie della storia per anni, pronto ad esplodere quando meno ce lo aspettiamo, come la nube piroclastica di un vulcano addormentato?
Va detto che i serbi, popolo più forte e agguerrito dell’area, hanno dietro di loro una storia di lotta, credo religioso militante e leggende che risalgono almeno al IX secolo d.C.
Fu in quel periodo che questi si convertirono al cristianesimo ortodosso, grazie al lavoro di Cirillo e Metodio, che tradussero la Bibbia nella lingua degli slavi meridionali e inventarono un alfabeto (quello cirillico) che si adattasse a questi ultimi. I due, santificati in seguito per aver portato la parola di Cristo tra i pagani, divennero famosi con il titolo di “Apostoli degli Slavi”.
Divisi in clan e tribù, i serbi vennero a cadere nell’orbita del potere e della civiltà greco-romana di Bisanzio, di cui divennero a volta sudditi a volta alleati. Il più potente Stato serbo fu quello di Rascia, che pian piano unificò gli altri signori fino a diventare un vero e proprio regno.
Ma fu l’indebolimento dell’Impero Romano d’Oriente a permettere ai serbi di ritagliarsi autonomia e prestigio. La dinastia dei Nemanjić ebbe l’opportunità di espandersi, assumendo gli usi e i costumi della Corte di Costantinopoli, a cui assommò un crescente potere militare ed economico, che culminò con l’auto-proclamazione ad Impero, ad imitazione del sempre più debole Stato bizantino.
Nel XIV secolo, vero periodo d’oro della storia serba, Stefan Dušan invade e occupa la Macedonia, l’Epiro, la Tessaglia fino all’Attica, rendendo la Bulgaria uno Stato vassallo, proclamandosi “Imperatore e autocrate dei serbi, dei greci, dei bulgari e degli albanesi”.
Il grande sovrano redige un Codice di leggi sul modello di quello di Giustiniano con oltre 200 articoli, che vanno dal diritto pubblico e privato a quello ecclesiastico; amplia e ristruttura le antiche vie romane e ne apre di nuove per incentivare il commercio; crea un Patriarcato serbo indipendente da quello di Costantinopoli, una Corte, un esercito e una burocrazia accentrata che prendevano spunto dal decadente dominio di Costantinopoli. Il suo sogno, mai avveratosi, era la conquista della grande capitale imperiale per farne il centro del suo Stato.
Tutto questo sfumò con il suo erede, anch’egli di nome Stefan, ma soprannominato “il debole”, in quanto si fece sfuggire le redini del paese, che cadde prima in mano all’anarchia dei nobili, poi nelle più temibili e organizzate mire dei turchi.
Le guerre tra bizantini, bulgari, serbi e latini avevano fiaccato i cristiani d’oriente e i sovrani ottomani ebbero gioco facile nell’entrare nei Balcani. Nel 1354, dopo un violento terremoto che distrusse la città di Gallipoli, i turchi si impossessarono del loro primo piede a terra europeo.
Nel giro di quarant’anni sottomisero la Tracia, la Bulgaria, la Macedonia e la Tessaglia e infine la Serbia, a cui inflissero una pesante e storica sconfitta a Kossovo, nel 1389, che vide la decapitazione dell’élite militare e politica del paese, con la morte in battaglia di quasi tutti i nobili serbi.
Ricordiamo questo scontro, perché è rimasto ancorato nella memoria collettiva di questa nazione, diventando un vero e proprio mito, con poemi cavallereschi e sacri legati ai cavalieri della fede ortodossa caduti in difesa del Cristianesimo.
Queste suggestioni, incredibilmente forti e tenaci, sopravvissero anche al laico comunismo di Tito, rinascendo forti e potenti nella Guerra di Bosnia, dove le milizie serbe, aizzate da importanti membri del clero ortodosso, giustificarono la loro violenza contro i bosniaci musulmani (memento della dominazione e colonizzazione turca) come rivincita storica per quella lontana sconfitta.
Le truppe regolari e paramilitari usarono spesso, come segno di riconoscimento tra loro, il sollevare la mano destra in segno di vittoria con le prime tre dita alzate, segno della Trinità cristiana (padre, figlio e spirito santo).
Se i serbi avevano le loro pretese, anche i greci e i bulgari hanno avuto le loro. Entrambi paesi ortodossi, la Grecia si riallacciava alla gloria dell’Impero Bizantino e tra la fine dell’ottocento fino alla fine del regime dei Colonnelli (1974) coltivò sempre il sogno della restaurazione del nocciolo duro di quell’antico Stato.
Il concetto di Megali Idea, ovvero la creazione di una “Grande Grecia” che avesse come capitale Costantinopoli e si estendesse su entrambe le sponde del Mare Egeo, occupando regioni abitate da significative presenze greche (Asia Minore, Bitinia, Ponto, Cipro, Dodecaneso, Tracia orientale), si infranse nel 1923, dopo la disastrosa guerra greco-turca, che vide l’espulsione dalla Turchia di oltre un milione di greci (e lo sterminio di molti altri) nel cosiddetto “scambio di popolazioni” che stabilì gli attuali confini tra i due Stati, greco e turco.
“Vi sono due centri dell’Ellenismo. Atene è la capitale del regno. Costantinopoli è la grande capitale, la Città, il sogno e la speranza di tutti i Greci”
Michael Llewellyn Smith
L’Enōsis, invece, ovvero il desiderio di unione con Cipro, naufragò assieme alla dittatura dei colonnelli, con l’invasione turca della parte nord dell’isola (1974) e la sua spartizione in due entità distinte (come le due Coree o i due Vietnam) una greca e una turca, in una situazione che perdura ancora oggi.
La Bulgaria ha avuto anch’essa le sue pretese storiche. Memore dei grandi imperi bulgari medievali, che risalivano ad un millennio prima, questo popolo fin dalla sua indipendenza (1878) puntò alla creazione di una “Grande Bulgaria” grazie al sostegno della Russia zarista, che sognava di soppiantare l’egemonia turca e austriaca nei Balcani con la propria.
Unendo la comune fede ortodossa e l’origine slava, oltre che le aspirazioni geopolitiche russe di impossessarsi degli Stretti dei Dardanelli e far così entrare la flotta zarista nel Mediterraneo, iniziarono tutta una serie di conflitti, manovre diplomatiche e commerciali che mettevano da una parte inglesi, francesi e asburgici a difesa dell’integrità del “Malato d’Europa”, ovvero l’Impero Ottomano, dall’altro la Russia che cercava di farlo collassare definitivamente, sostenendo bulgari e serbi nelle loro pretese di allargamento nei Balcani.
Le Guerre Balcaniche furono l’amaro frutto di queste manovre. Tra il 1912 e il 1913 la Grecia, il Montenegro, la Serbia, la Bulgaria, la Romania e l’Impero Ottomano si scontrarono per decidere il futuro della regione. Furono un vero e proprio preludio (poco conosciuto) alla Prima Guerra Mondiale, dove si videro le prime trincee, le mitragliatrici e i reticolati, i grandi cannoni da campagna, le prime persecuzioni della popolazione civile, uccisa o costretta a sfollare per riequilibrare etnicamente i territori conquistati dalle fazioni in lotta. Insomma il Nazionalismo esasperato al suo primo grande test.
Questo connubio di revanscismo storico, nazionalismo, religiosità, irredentismo era rimasto sedato per tutti i secoli delle dominazioni imperiali (austriaca a nord – su sloveni, croati, serbi e bosniaci – e turca a sud – su greci, bulgari, albanesi, macedoni, rumeni), che avevano sapientemente giocato sulla carta della tolleranza da un lato e sul divide et impera (mettendo le minoranza etniche in contrapposizione) dall’altra.
Emblematico è il caso serbo, dove gli Asburgo nel XVIII secolo presidiarono parti della Croazia e della Bosnia con battaglieri clan serbo-ortodossi, creando enclave militari che sono perdurate fino al 1991, creando i presupposti per le pretese territoriali serbe su quei paesi, incancrenendo ancor di più la guerra e gli eccidi nella regione.
Stesso dicasi per gli albanesi convertiti all’Islam (alla fine del Medioevo erano stati i fieri paladini del Cristianesimo, sotto la guida di Giorgio Castriota, detto Skanderbeg), che vennero utilizzati dall’Impero Ottomano fino al 1912 come gendarmi e militari a difesa dei suoi domini europei contro le pretese serbe, bulgare e greche.
Anche questo ha avuto il suo triste epilogo con i fatti del Kosovo, sacro per i serbi (ricordate la battaglia del 1389?) ma ormai popolato in maggioranza da albanesi, con il tentativo di pulizia etnica compiuto dai primi tra il 1997 e il 1998 e bloccato dall’intervento ONU, che ha portato il paese ad una precaria, caotica e contestata indipendenza nel 2008 (ancora ora metà dei paesi mondiali, tra cui Russia, Cina e ovviamente Serbia, non la riconoscono).
Insomma i Balcani sono un chiaro esempio di come ancora oggi, molto vicino a noi, esistono realtà politiche, storiche e socio-culturali non ancora stabilizzate e, soprattutto, basti veramente poco per far esplodere nuovamente la scintilla dello scontro tra i popoli.
L’unica via per preservare la pace non risiede nel Parlamento di Bruxelles o nella Banca Centrale Europea, ma nello sviluppo della cultura, del pensiero critico e della consapevolezza all’interno di ogni cittadino, che lo allontani da facili manipolazioni di massa, prime tra tutte quelle dell’attuale sistema politico mondiale che fa della paura della crisi economica o del terrorismo la stampella per reggere un corpo marcio e in decadimento.
Alberto Massaiu
Leave a reply