Avevo coltivato la speranza di pubblicare questo articolo una settimana fa, ma alla fine ho optato per godermi pienamente una tre giorni sul lago di Como, lasciando a questo weekend la seconda tappa del mio viaggio verso il sud della Nuova Zelanda. Dalla mia partenza, giusto cinque giorni prima, avevo percorso ben 1.200 chilometri e me ne mancavano ancora quasi 500 prima di raggiungere Wellington, tappa a metà della mia esperienza kiwi, da dove avrei preso il traghetto per la selvaggia isola meridionale. Ecco il resoconto di quei giorni alla scoperta dell’anima maori del paese.
Karangahake e Waitomo Caves, isola settentrionale. 8 febbraio 2014, piena estate.
“Lasciate le bollenti acque sotterranee di Coromandel ci siamo diretti verso gli immensi complessi di grotte sotterranee di Waitomo. Sulla strada abbiamo esplorato una vecchia miniera d’oro abbandonata a Karangahake. Come in America durante le febbrili corse all’oro nella California o in Alaska nel XIX secolo, molte di queste antiche città minerarie un tempo caotiche e piene di una vita spartana, dura ma anche molto vivace, sono ora ridotte a silenti città morte.
Nel caso di Karangahake questa situazione è vividamente sottolineata dalla foreste pluviale, che si è rimpossessata, dopo alcuni decenni di abbandono, degli antichi edifici e lavori realizzati dall’uomo. Vedere i tracciati dei vecchi vagoni, le muraglie per difendersi dalle incursioni dei maori, gli edifici diroccati e i tunnel scavati dalla dinamite e dal piccone, tutti letteralmente invasi dalla vegetazione, ti fa capire quanto noi esseri umani siamo piccoli e trascurabili insetti di fronte all’ancestrale e possente spirito della natura.
Il lavoro e il passaggio di tante vite umane, coi loro sogni di ricchezza e le loro miserie terrene sono stati divorati dalle palme, dagli alberi e dalla bassa boscaglia. Il fiume ha rotto gli argini artificiali e ora scorre nuovamente libero e tumultuoso sopra vecchi ponti di legno sospesi su rocce aguzze e spuma bianca. Nere bocche si aprono sui fianchi delle montagne verdi, levando il grido silenzioso di migliaia di anime che hanno oramai abbandonato questo luogo, dimenticate e senza nome.
Il paesaggio è affascinante e allo stesso modo un po’ triste, qua la mente si può facilmente abbandonare a speculazioni sulla precarietà della vita e sulla supremazia finale della natura, che noi spesso dimentichiamo nelle nostre grandi e orgogliose città. Ma il monito rimane, alla fine la vincitrice sarà lei, la Madre di tutte le cose viventi, non i nostri edifici di vetro e cemento. Alla fine siamo giunti a Waitomo. Quest’ultima non è una città, bensì una serie di alcuni edifici e attività nati intorno all’attrazione turistica locale, ovvero la possibilità di fare rafting nell’oscurità delle viscere della terra.
Rafting in questo specifico caso significa gettarsi, con il solo ausilio di una muta subacquea, caschetto con torcia incorporata e una camera d’aria per galleggiante, nelle gelide (6-8 gradi circa) acque che si avventurano per chilometri e chilometri dentro gli oscuri antri delle grotte che si dipanano sotto queste rocce antichissime, un luogo sacro per i maori che vi vivevano un tempo, i quali credevano fossero una sorta di accesso ad un’altro mondo. E’ stata un’esperienza adrenalinica, per quanto gelida, con tanto di balzi da piccole cascate, marce nell’oscurità e vista su di un cielo stellato creato dai piccoli insetti fosforescenti tipo lucciole che abitano sulle pareti delle caverne. Il loro gioco di luci sembra proprio l’effetto di una notte benedetta dalla mancanza di nuvole o illuminazione artificiale, con gli astri nitidi sopra di sé.
Ad un certo punto abbiamo anche spento le nostre torce e ci siamo fatti guidare, nel buio più assoluto, dalla luminosa galassia creata da questi insetti, fino alla luce esterna. Semplicemente spettacolare!”
Hobbiton e Rotorua, isola settentrionale. 9 febbraio 2014, piena estate.
“Il 9 febbraio è stato un giorno particolarmente bello per almeno due motivi. Il primo è il tempo, in quanto abbiamo potuto godere della prima vera giornata di sole, calda e piacevole, dopo la tanta acqua delle giornate precedenti. Il secondo motivo riguarda le attività spettacolari che abbiamo fatto, ovvero la visita la set del Signore degli Anelli e de Lo Hobbit riguardante la Contea e la cena maori in nottata a Rotorua.
Potrei scrivere fiumi e fiumi di elogi sulla bellezza di Hobbiton, con i suoi quarantatré buchi – case – hobbit, con tanto di giardino curato e oggetti di uso quotidiano all’esterno, in scala perfetta. Una piccola carriola delle stesse dimensioni che potrebbe avere un giocattolo fatto per dei bambini, o una zappa, oppure una botte di birra. Facendo attenzione si potevano notare tutti quei micro dettagli – come perfino i vestiti stesi all’esterno delle case di taglia hobbit, ovviamente! – che hanno reso il lavoro di Peter Jackson un capolavoro di sceneggiatura, fotografia e costumi.
Dentro gli spioncini delle finestre si possono intravedere, leggermente ingrigiti da un leggero strato di polvere, libri accatastati, pentolame, candele e abiti appoggiati su poltroncine o seggiole che sembrano usciti dalla fiaba di Pollicino. Si può passeggiare fuori da Casa Baggins, col suo cartello “No admittance, except on party business” resa famosa dal primo film della saga, oppure curiosare all’esterno della dimora di Sam, il giardiniere e fedele compagno di Frodo durante il lungo viaggio verso Mordor.
Se si ha sete si può perfino andare al Drago Verde e bere della birra o del sidro, rigorosamente “Made in the Shire”, rilassandosi davanti al fuoco, su comode poltrone in formato umano gentilmente predisposte per i forestieri di un’altra razza. Ho scoperto che la produzione ha impiegato nove mesi per predisporre tutto il set, che poi si vede in pellicola per solo una piccolissima parte del film. Ma questa è la differenza tra un filmetto con poche pretese e un vero capolavoro, ovvero la passione del dettaglio e la precisione in ogni aspetto al di là dell’effettiva utilizzazione. Chapeau a Sir Peter Jackson!
Dopo questa ubriacatura nerd – ci sta gente che viene qua travestita da mago, da hobbit o da guerriero, e cerca di non andarsene a fine giornata! – ci siamo diretti a Rotorua, capitale della cultura maori in Nuova Zelanda. I maori duri e puri sono solo una piccolissima parte della popolazione neozelandese, in quanto molti si sono mischiati ai bianchi o hanno abbandonato le vecchie tradizioni, ma in questa città la percentuale di coloro che rispettano la “vecchia via” – così la chiamano orgogliosamente da queste parti – sono in una concentrazione alquanto elevata. Oltretutto una piccola compagnia composta da amici e famiglie maori ha ricostruito un villaggio tradizionale seguendo le vecchie consuetudini – non ci vivono naturalmente, è solo roba per turisti, ma le guide ci hanno assicurato che è molto fedele e ben fatta – nel quale organizzano percorsi tematici che spiegano le antiche tradizioni del loro popolo.
Si può vedere – o partecipare – ad una Haka, la tradizionale danza di guerra maori, oppure sentire leggende e fiabe in lingua, o imparare le regole di etichetta. Il tutto si è aperto con la scelta di un capo della tribù all’interno del proprio gruppo – nel nostro caso un ragazzo canadese -, che doveva incontrare, dopo aver fronteggiato una danza bellica e una sfida simbolica di alcuni guerrieri, il capo villaggio. Questi avrebbe lasciato per terra un tralcio di una pianta tradizionale, che come il nostro ramo d’ulivo serve ad indicare le nostre intenzioni. Prenderlo in mano significa accettare l’ospitalità della tribù e la cosa ci ha garantito l’accesso all’interno dell’accampamento fortificato.
Ultima cosa alquanto divertente, alla conclusione del rito i due capi – il nostro e il loro – dovevano concludere il tutto con il saluto maori, l’Hongi, ovvero il toccarsi la punta dei rispettivi nasi. Il capo villaggio ci ha scherzato sopra dicendo al ragazzo canadese di non provare a baciarlo o ci avrebbero fatto passare dei guai. Le cerimonie sono molto formali, legate ad una tradizione ancestrale e molto attenta all’etichetta e alle offese. Immagino che le faide non fossero una cosa rara nella società tribale maori e in questo sono molto simili ai sardi e a tutti i popoli legati a tradizioni antiche e orgogliose. Le donne non accolgono gli stranieri se non dopo la formale accettazione da parte dei guerrieri della tribù, e solo allora si può iniziare la socializzazione.
Siamo stati condotti nella Whare Nui, la grande casa, ovvero la dimora principale del villaggio che unisce le funzioni di palazzo di governo e di cattedrale. Luogo sacro, non è permesso al suo interno né il mangiare, né il bere, e nei grandi pali che gli fanno da piloni principali di sostegno sono intagliate le genealogie delle varie famiglie della tribù. Ho scoperto così il significato dei complessi tatuaggi maori: questi non sono infatti messi a casaccio, e neanche indicano l’individualità della persona, ma al contrario ne sottolineano la sua origine ancestrale. Immagino quindi che gli appartenenti alla stessa famiglia abbiano tatuaggi simili, che si aggiornano nella parte finale ad ogni generazione che passa – che aggiunge un altro piccolo tassello al tatuaggio complessivo -.
Se quindi si avesse una qualche abilità nella loro lettura si potrebbe facilmente risalire alle origini di un maori interpretando unicamente i suoi tatuaggi. Alla fine siamo stati inviatati a partecipare all’Hangi, ovvero il banchetto tradizionale, preparato con carne e verdure cucinate in grandi buche sottoterra, dove il cibo viene ricoperto con coperte e pietre arroventate. In teoria questo dovrebbe portare ad un pasto alquanto affumicato, ma secondo me in questo caso specifico hanno predisposto per noi il tutto in modo che risultasse più che altro cotto al vapore. Probabilmente il gusto tradizionale non risulta troppo appetibile alla maggior parte dei turisti, perciò si sono adattati. A me è piaciuto particolarmente, anche perché risultava una interessante alternativa ai sandwich, agli hamburger e al fish and chips. Insomma, ho passato splendida giornata con un gustoso finale.”
Con Rotorua mi godetti un altro assaggio – in tutti i sensi – della cultura maori, dopo aver visitato uno dei loro luoghi più sacri a Cape Reinga. Non mi rimaneva che proseguire il viaggio a meridione, scendendo verso il lago Taupo e il Tongariro National Park, dove mi sarei lanciato nella scalata della vette dei monti Tongariro e Ngauruhoe – il Monte Fato del Signore degli Anelli – in una faticosa ma esaltante avventura chiamata Tongariro Crossing.
Alberto Massaiu
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