La guerra del Peloponneso è stata il primo vero conflitto “mondiale” della storia umana. Con i suoi trent’anni di scontri, tregue, cambi di alleanze, rivolte, battaglie ed eccidi di civili ha molto in comune con le guerre della prima metà del XX secolo.
Il contrasto tra ideologia democratica e imperialista di Atene e oligarchica e conservatrice di Sparta ricorda le divisioni ideologiche tra gli opposti schieramenti della Prima e della Seconda Guerra Mondiale. Persino singoli eventi, come l’invasione fallita della Sicilia (che può rimandare alla catastrofe di Gallipoli o a quella di Stalingrado) o l’assedio di Atene che resisteva grazie al suo porto e alla superiorità sul mare (come i britannici contro Hitler che aveva conquistato la Francia) possono essere letti in chiave moderna.
Ma quali sono le ragioni di un conflitto che, per la prima volta, mise i greci tutti contro tutti, in una guerra fratricida che insanguinò il mondo classico che si era salvato – più o meno unito – dalle ripetute invasioni persiane del 490 e del 480 a.C.?
Giusto cinquant’anni prima Sparta e Atene, l’una dotata del più potente esercito terrestre della Grecia e l’altra della migliore marina, avevano ridimensionato la superpotenza mondiale dell’epoca, la Persia. Ancora oggi i nomi di Maratona, Termopoli, Platea e Salamina richiamano alla memoria lo scontro tra autocrazia orientale e libertà occidentale (puoi leggere il mio articolo sull’argomento qui).
Ad ogni modo, soprattutto nel conflitto del 480, Sparta e Atene si erano poste alla guida delle póleis elleniche, conducendole ad un’insperata vittoria sulla macchina da guerra del Re dei Re persiano, Serse. Quella guerra aveva unito i greci, ma aveva evidenziato anche i loro punti di forza e debolezza: la potenza lacedemone era fortemente militarista e conservatrice, aveva una divisione per caste ferrea e solo in pochissimi – gli spartiati – godevano di pieni diritti politici; Atene, al contrario, era una società raffinata, multiculturale e orientata ai traffici commerciali. Entrambe avevano gustato il sapore della vittoria e del potere che ne derivava e, ora che il pericolo persiano si era allontanato, si iniziavano a confrontare nella prima Guerra Fredda della storia umana.
Tutte e due le polis avevano stretto patti di alleanza con altri centri più o meno piccoli, creando nel tempo delle reti di alleanze che si trasformarono in schieramenti contrapposti. Come Stati Uniti e Unione Sovietica più di duemila anni dopo, Sparta e Atene non vennero alle armi direttamente, ma all’inizio fecero cozzare tra loro le città minori, sostenendole in piccoli conflitti locali e al massimo protestando con i rispettivi ambasciatori.
Le prove generali della Guerra del Peloponneso iniziarono intorno al 460, appena vent’anni dopo la vittoria contro i persiani. Atene aveva creato la Lega di Delo per unire varie póleis marittime per prevenire una nuova invasione. Era la NATO dell’epoca e ne condivideva molte caratteristiche: a capo indiscusso dell’alleanza stava una sola città, Atene, mentre le altre fornivano contingenti minori di uomini e navi oppure solo denaro, che serviva a finanziare il potenziamento della flotta militare ateniese. Dal 478, anno di fondazione, fino al 454, la cassa comune della lega venne posta nell’isola sacra di Delo, dentro un tempio. In quell’anno, viste le stringenti necessità belliche e pubbliche di Atene, il tesoro venne trasferito sull’acropoli e divenne una vera e propria tassa di città suddite a quello che stava diventando l’impero ateniese.
Pericle, capo supremo della sempre più florida e orgogliosa metropoli, aveva creato una sofisticata democrazia che con l’America attuale condivide la volontà di potenza, la ricerca di nuovi mercati commerciali, l’imposizione della democrazia nelle città alleate e un forte apparato militare navale. Tutti ricordano l’Atene d’oro di Pericle, faro di cultura e bellezza – tutte cose verissime -, ma dimentica con che cosa queste venissero finanziate e il malcontento generale che, pian piano, iniziò a covare sotto le ceneri tra gli alleati.
Ad ogni modo negli anni ’50 del V secolo a.C. Atene era indubbiamente il centro del mondo greco, in uno stato di grazia tale da portarla all’egemonia sull’Egeo, all’alleanza con Argo e la Tessaglia che gli garantivano anche un buon esercito terrestre e perfino a tentare di strappare l’intero Egitto alla Persia, per consegnarlo nelle mani di una dinastia autoctona amica – o meglio dire vassalla – di Atene.
La città aveva ancora un solo punto debole: il suo cuore, l’acropoli, era distante dai suoi porti commerciali e militari del Pireo e del Falero. Con una geniale scelta strategica gli ateniesi decisero di innalzare delle mura – chiamate makrá téiche – lunghe sei chilometri. Un possente bastione in pietra a nord e uno a sud proteggevano una strada militare interna che garantiva il collegamento di Atene al suo polmone vitale: il mare. Con la costruzione delle lunghe mura Atene diveniva simile ad un’isola fortificata, nel senso che non poteva essere catturata da un esercito solo terrestre visto che con le dotazioni degli eserciti dell’antica Grecia era pressoché impossibile espugnare una città fortificata, se non inducendola alla resa con un lungo assedio.
Sparta, al contrario, era alle prese con una pesante crisi interna dovuta alla rivolta dei messeni, un popolo del Peloponneso sconfitto da tempo e posto in condizione di schiavitù dagli spartani. Questo stato di cose, che metteva la città dell’Attica in netto predominio, mutò dopo la sconfitta nell’avventura egiziana e una serie di rivolte dovute alla sempre più netta trasformazione della Lega di Delo in un impero.
Nel 447 Atene perse il predominio sulla Beozia per mano di Tebe, alleata di Sparta, che cacciò i regimi democratici da vari centri della regione. La Tessaglia le rimase alleata, ma tiepidamente, e di sicuro non sarebbe scesa più in guerra al suo fianco. In più l’intera isola Eubea, tradizionale amica di Atena, si rivoltò e dovette essere inviato esercito e flotta per pacificarla.
La goccia che fece traboccare il vaso fu però l’interessamento ateniese sui traffici marittimi con le colonie della Magna Grecia, l’attuale sud Italia, cosa che andava a cozzare con gli interessi di Corinto, potente alleata di Sparta. Corinto convocò nel 432 l’intera Lega del Peloponneso, antagonista di quella di Delo come il Patto di Varsavia lo fu del Patto Atlantico, per richiedere provvedimenti decisivi contro l’arroganza e la superbia di Atene.
In pratica Atene stava mettendo il becco tra Corcira – l’attuale Corfù – ed Epidamno – l’attuale Durazzo, in Albania -, cercando di favorire in entrambi dei governi democratici. L’area però era considerata da Corinto come sua zona d’influenza, anche perché Corcira era una sua vecchia colonia. A complicare le cose la potente capitale dell’Attica stava assediando Potidea, altra colonia di Corinto sulla penisola calcidica e impediva ai cittadini di Megara, polis strategica tra l’Attica e il Peloponneso, di commerciare con le città-stato della Lega di Delo, puntando a creare un embargo commerciale che la strozzasse economicamente, facendola cadere sotto la sua influenza.
Si giunse ad un ultimatum: Atene doveva smettere con la sua politica aggressiva e lasciare in pace gli interessi di Corinto e di Megara. Perikles, che aveva in pugno l’assemblea della sua città, convinse gli ateniesi a rigettare orgogliosamente le minacce di Sparta e dei suoi alleati e fu la guerra.
Perikles aveva un piano ben preciso. La fanteria di Sparta era notoriamente la migliore della Grecia e la seconda in ordine di disciplina era quella di Tebe. Unite assieme creavano una falange oplitica virtualmente invincibile, perciò sarebbe stato folle tentare di opporsi a loro in campo aperto. Partendo da questo presupposto, sapendo di poter contare di una città fortificata inespugnabile grazie alle lunghe mura e di una ricchezza economica basata sui commerci e la flotta militare, l’idea vincente sarebbe stata una guerra di logoramento.
Atene avrebbe accolto tutta la popolazione dell’Attica dentro i suoi bastioni e avrebbe lasciato agli spartani un territorio che, ulivi a parte, non era particolarmente florido. Mentre questi si sarebbero potuti accanire solo contro le casupole di contadini abbandonate, la marina da guerra ateniese avrebbe attaccato con contingenti di opliti e fanteria leggera le coste del Peloponneso, bruciando i campi coltivati su cui si basava la molto più povera economia spartana.
Insomma, entro qualche anno gli alleati peloponnesiaci si sarebbero trovati con eserciti frustrati, un territorio devastato e risorse finanziarie ridotte a zero, dovendo chiedere un’ignominiosa pace.
Fu in questo modo che, nel 431 a.C., Atene e Sparta fecero sprofondare l’intera Grecia in guerra.
L’inizio fu uno strepitoso successo della strategia ad ampio respiro di Perikles: Archidamos II, uno dei due re di Sparta, cercò di attirare le truppe ateniesi fuori dalle mura saccheggiando campi e villaggi abbandonati, poi trattò con Siracusa e perfino con il vecchio nemico persiano per disporre di navi da opporre a quelle ateniesi. Mentre i suoi tentativi venivano frustrati ripetutamente Perikles guidava una flotta di 150 triremi intorno al Peloponneso, devastando ogni città non sufficientemente presidiata e prendendo Egina, un isoletta dirimpettaia e antagonista di Atene, che venne colonizzata con cittadini fedeli.
Sembrava fatta, ma la natura ci mise lo zampino: la polis non era fatta per contenere al suo interno l’intera popolazione dell’Attica. Le precarie condizioni igieniche di quell’assedio prolungato furono il ricettacolo perfetto per un epidemia di peste emorragica – o forse tifo – che tra il 430 e il 429 flagellò Atene, causando la morte di 1/3 dell’intera popolazione cittadina, compreso Perikles.
Con la perdita del grande leader la situazione degenerò. La fazione democratica passò sotto la guida di Kleon, fautore di una politica aggressiva e intransigente contro la fazione interna favorevole alla pace – guidata dall’aristocratico Nikias – e contro gli alleati riottosi. L’esempio più drammatico fu l’assedio di Mitilene, ricca città marinara facente parte della Lega di Delo che aveva manifestato la volontà di sottrarsi all’alleanza.
Kleon, per dare un esempio durissimo a tutti coloro che potevano anche solo supporre di abbandonare la lega, inviò flotta ed esercito ad espugnare la cittadina e, una volta presa, convinse l’assemblea a decretare una sentenza atroce: soppressione di tutti i cittadini maschi e la riduzione in schiavitù di donne e bambini. Era troppo e la mattina successiva la decisione fu almeno in parte rivista, con la condanna a morte di “soli” 1.000 cittadini di Mitilene, considerati i fautori della rivolta, la distruzione delle mura e la consegna della flotta.
La democrazia di Atene si stava trasformando sempre più in una feroce tirannia, cosa che venne confermata dai disordini di Corcira, città che solo pochi anni prima aveva fatto degenerare la situazione politica dell’Ellade fino al conflitto.
La polis sita nella moderna isola di Corfù era una colonia di Corinto ma da tempo aveva un governo democratico filoateniese. Con la guerra vi erano stati dei cambiamenti politici e il partito oligarchico, salito al potere, dichiarò la neutralità della città e proclamò di voler evitare spargimenti di sangue tra i suoi cittadini.
Atene inviò una piccola flotta che venne allontanata da una potente squadra spartano-corinzia, ma appena questa si allontanò soddisfatta arrivarono i rinforzi ateniesi che diedero via libera agli esponenti del partito democratico di Corcira, che iniziarono una spietata caccia all’uomo degli oligarchi filospartani.
“Imperava la morte, con i suoi volti infiniti: e come di norma accade in circostanze simili, si raggiunse e superò di molto ogni argine d’orrore. Il padre accoltellava il figlio: dagli altari si svellevano i supplici e lì sul posto si crivellavano di colpi. Alcuni furono murati e soppressi nel tempio di Dioniso.(…) Dunque, al seguito delle sommosse civili, l’immoralità imperava nel mondo greco, rivestendo le forme più disparate. La semplicità limpida della vita che è il terreno più fertile per uno spirito nobile, schernita, s’estinse. Dilagò e s’impose nei personali rapporti, in profondo, un’abitudine circospetta al tradimento. Non valeva il sincero impegno verbale a distendere i cuori, né il terrore di violare un giuramento. Ognuno, quando aveva dalla sua la forza, vagliando volta per volta il proprio stato, certo che nessuna garanzia di sicurezza era degna di fiducia, con fredda meticolosità si disponeva piuttosto a munirsi in tempo d’adeguata difesa che concepire, sereno, d’aprir l’animo suo agli altri. Ed erano gli intelletti più rudi a conquistare di norma, il successo. Attanagliati dalla paura che il loro breve ingegno soccombesse all’acume dei propri antagonisti, alla loro destrezza di parola, nell’ansia d’esser trafitti prima d’avvedersene, dalla loro insidiosa mobilità inventiva, si slanciavano all’azione, con disperato fervore. I loro avversari invece, colmi di sdegnoso sprezzo, certi di prevenire ogni mossa nemica con una percezione istintiva, ritenevano superflua ogni concreta tutela fondata sulla forza fisica, e così scoperti perivano, fitti di numero”
Tucidide, La Guerra del Peloponneso, III, 83-85
Negli anni successivi la guerra proseguì con alti e bassi, con battaglie, scontri e massacri che si estesero anche al mondo greco delle colonie, come in Sicilia e nell’Italia meridionale, dove le póleis si schierarono per Atene o per Sparta.
Nel 425 gli ateniesi conquistarono Pilo nel Peloponneso e iniziarono a fortificarla per creare una base avanzata per le incursioni in Messenia, terra sempre riottosa al dominio spartano. Gli spartani decisero di effettuare una prova di forza e dare scacco a quell’operazione nemica assediando la guarnigione ateniese. Per bloccare Pilo inviarono un contingente scelto di opliti spartani nell’isola di Sfacteria e attaccarono senza successo il contingente ateniese, comandato da Demosthenes.
Le fortificazioni ben studiate e lo spazio angusto, oltre che l’utilizzo di truppe leggere di supporto, favorì gli ateniesi, che si ritrovarono vittoriosi e con la possibilità di assediare a loro volta il contingente di spartiati a Sfacteria.
Arrivò per giunta Kleon con i rinforzi e subito, mantenendo fede al suo carattere aggressivo, assaltò Sfacteria, pregustando una vittoria contro le invincibili truppe spartane. Alla testa di truppe fresche occupò prima la spiaggia dell’isola e costrinse gli spartiati a ritirarsi all’interno e poi, dopo un duro assedio, li indusse ad arrendersi e a consegnarsi prigionieri, fatto mai accaduto prima nella storia di Sparta. Lo shock sul mondo greco fu impressionante, un mito era caduto contro truppe leggere come arcieri e peltasti armati di giavellotto.
Questo successo in terra peloponnesiaca, unito ad ulteriori conquiste di basi e città, costrinse gli spartani a tenere nella regione una parte importante delle loro forze, riducendo la loro capacità di invadere l’Attica o di sostenere alleati lontani.
Ma la marea, che sembrava tornata in favore degli ateniesi, cambiò nei due anni successivi: nel 424 Brasidas, generale spartano dotato di buon intuito strategico, decise di partire per la Tracia in modo da attaccare le ricche basi ateniesi della regione e restituire pan per focaccia ad Atene. All’inizio questi ultimi, credendo che gli spartani non avessero la loro visione generale, sottostimarono la sua iniziativa e si dedicarono ad affrontare Tebe per il predominio sulla Beozia.
Fieri della vittoria contro gli spartani a Sfacteria pensarono di bissarla con un confronto in campo aperto contro i tebani, ma vennero duramente sconfitti a causa della superiorità numerica nemica in truppe leggere e cavalleria. Allo stesso tempo Brasidas aveva approfittato della poca attenzione ateniese per cogliere successi su successi tra Macedonia – dove si era alleato con il sovrano locale, Perdikkas – e Tracia, assediando e catturando l’importantissima piazzaforte di Anfipoli, che gli regalò la supremazia nella regione.
Nel 422 fu Kleon a muovere a nord, con l’obiettivo dichiarato di spazzar via Brasidas e riprendere Anfipoli. Riuscì a far cambiare partito a Perdikkas di Macedonia e ottenne il sostegno del re dei traci. Brasidas, ben conscio che l’unione degli alleati lo avrebbe posto in grave inferiorità numerica, assaltò con rapidità gli ateniesi, che si sfaldarono. Fu uno scontro caotico dalla mischia uscì una netta vittoria spartana, ma anche la morte di entrambi i comandanti, Brasidas e Kleon.
Scomparsi i più grandi protagonisti del conflitto Sparta e Atene si accorsero che la guerra stava dissanguando le loro casse e falcidiando la rispettiva gioventù. Per questo motivo si giunse alla Pace di Nikias, che prese il nome dall’aristocratico ateniese che era fautore di un accomodamento generale. Venne stabilito che i belligeranti avrebbero restituito i territori occupati nel corso del conflitto, entrambe le parti avrebbero restituito i prigionieri, i santuari comuni sarebbero stati riaperti (e quello di Apollon a Delfi avrebbe recuperato l’indipendenza) e che tali accordi avrebbero avuto una validità di cinquant’anni.
In verità, la tanto pomposa pace fu più che altro una tregua temporanea per rifiatare, riarmarsi e individuare nuovi leader per dare di nuovo la parola alle armi. Il più grande e controverso tra loro emerse ad Atene nella figura di Alkibiades. Questi era di nobilissime origini, facente parte della famiglia degli Alcmeonidi che vantavano statisti del rango di Kleisthenes e di Perikles.
Alkibiades aveva ereditato il carisma, la capacità oratoria e l’intuito militare da Perikles, ma non la moderazione e la saggezza e fu perciò causa dei peggiori disastri della sua città. Con infuocati discorsi fece sua l’assemblea e sabotò la pace in ogni modo.
Il punto di svolta della guerra si verificò in Sicilia. Anch’essa era divisa tra alleati e simpatizzanti di Atene o di Sparta. La più potente polis era Siracusa, dotata di un esercito, una flotta e un’economia di primo piano. Alkibiades propose agli ateniesi di muovere guerra contro quest’ultima, impadronirsi delle ricchezze della Magna Grecia per finanziare il confronto finale con Sparta.
I preparativi ricordano molto la campagna alleata di Gallipoli, dove i britannici tentarono di tagliar fuori l’impero ottomano dal primo conflitto mondiale conquistando audacemente i Dardanelli e la capitale Costantinopoli, investendo ampie risorse della marina e della fanteria australiana e neozelandese. Il risultato, come andremo a vedere assieme, fu in entrambi i casi un disastro.
Atene schierò per l’impresa siciliana 134 triremi con un equipaggio di 25.000 uomini e 6.400 truppe da sbarco. Il comando fu affidato ad Alkibiades, a Nikias e a Lamachos. La flotta doveva partire nel giugno del 415 a.C. ma nella notte tra il 6 e il 7 di quel mese avvenne lo scandalo della mutilazione delle erme.
Le erme erano delle statue particolari con teste scolpite su pilastrini quadrangolari, sui quali a volte erano rappresentati anche i genitali maschili. Legate al culto della fertilità, la loro dissacrazione fu vista da molti come un segno premonitore di sventura per la spedizione imminente. Il peggio fu che divise i comandanti e ne indebolì il prestigio: Nikias fu sconvolto dal fatto perché era terribilmente superstizioso e religioso, ai limiti del bigottismo e della creduloneria; Alkibiades, vero ispiratore e leader della spedizione, ma conosciuto per il suo cinismo e per le bravate goliardiche, fu da molti individuato come l’ispiratore della mutilazione.
Alkibiades, a fronte del grave atto di accusa, chiese di farsi giudicare subito da un tribunale, in modo da eliminare ogni ostacolo alla partenza della spedizione. L’assemblea però decise di rinviare il dibattimento, consentendo a quest’ultimo di partire.
Da che mondo e mondo in guerra è meglio avere un solo comandante supremo, ma Atene in questo dimostrò poca attenzione. Lamachos, Alkibiades e Nikias avevano ognuno una strategia, chi più aggressiva chi più attendista. In più Alkibiades fu raggiunto dalla notizia che il processo sulle erme che si stava svolgendo ad Atene in sua assenza stava volgendo tutto suo sfavore, rischiando di trasformarsi in una condanna all’esilio o peggio a morte. Per questa ragione abbandonò l’esercito e la sua città natale e si rifugiò dai nemici spartani.
La combinazione del tradimento del nipote di Perikles e la proverbiale prudenza di Nikias condannarono fin da principio l’impresa già di per sé ambiziosa e piena di rischi. Mentre l’alcmeonide si prodigava per svelare i dettagli strategici, le ambizioni e i caratteri dei capi ateniesi alla mortale nemica peloponnesiaca, incitando ad inviare navi, generali e uomini in Sicilia, Nikias e Lamachos tentavano di stringere in una morsa Siracusa.
All’inizio, soprattutto grazie alla perizia di Lamachos e all’inesperienza sul campo dei coscritti siracusani, le cose andarono bene e ben presto parve che gli ateniesi avrebbero prevalso, aggiudicandosi la città più prospera del mondo greco dopo Atene stessa. Eppure tutto cambiò quando questi cadde durante una sortita degli assediati e Nikias, totalmente inadatto ad audaci tattiche offensive, perse l’occasione favorevole. Il suo perdere tempo e l’atteggiamento titubante diedero modo ai siracusani di riprendersi dagli scontri perduti, fare esperienza e preparare la riscossa.
In più Sparta inviò infine Ghylippos, comandante esperto che seppe forgiare le truppe, rinforzate da alcuni veterani spartani, corinzi e peloponnesiaci. Questo cambio di rotta condusse ad una vittoria sul campo dei siracusani, che alleggerirono l’assedio. Atene, allora, decise di inviare un ulteriore contingente di soldati e navi agli ordini di Demosthenes, in modo da aiutare l’inetto Nikias e cogliere la vittoria decisiva.
Questa fase ha un parallelo con la titanica battaglia di Kursk, dove i tedeschi tentarono di cambiare le sorti della guerra impiegando il meglio delle loro divisioni corazzate e la fanteria d’élite per spezzare la macchina bellica sovietica. Un grande azzardo, un giocare il tutto per tutto che costò loro – nonostante la vittoria tattica a caro prezzo – l’iniziativa sul fronte orientale, condannandoli a mantenere la difensiva per il resto della guerra, perdendo pezzo per pezzo tutto quello che avevano conquistato.
Con altre 73 triremi da guerra, 5.000 opliti scelti e 3.000 truppe leggere Demosthenes forzò Nikias all’assalto finale. Eppure l’assalto notturno, dopo un iniziale successo, finì di nuovo in stallo grazie ai veterani di Ghylippos che seppero infondere sufficiente desiderio di resistenza nelle truppe siracusane.
Quest’ultimo insuccesso fiaccò il morale degli ateniesi, a cui si sommò anche un’epidemia che decimò gli assedianti, che pensarono infine di ritirarsi prima di subire una totale disfatta. La partenza era ormai pronta quando, il 27 agosto del 413 a.C., si verificò un’eclissi di luna che suscitò il panico tra le truppe e Nikias, consultandosi con i suoi auguri, ritenne opportuno attendere il nuovo ciclo lunare non avendo visto la luna tornare limpida dopo il fenomeno. Quest’attesa permise a Siracusa di radunare rinforzi sia sul mare che sulla terra, cosa che porterà alla vittoria navale degli assediati e alla resa, dopo una mal guidata ritirata, oltre 7.000 uomini. Demosthenes e Nikias vennero uno ucciso in battaglia e l’altro giustiziato e i prigionieri morirono di fame o di stenti oppure vennero utilizzati come schiavi. Fu una catastrofe senza precedenti per Atene, ce la portò al limite del collasso politico, sociale e militare.
A questo fatto, già di per se gravissimo, si aggiunse il perfido consiglio di Alkibiades che consigliò agli spartani l’occupazione della fortezza di Decelea, in Attica, che tagliò fuori Atene dai suoi rifornimenti di grano locali e soprattutto dal vitale argento estratto nelle miniere del Laurio, fondamentale per armare eserciti e flotte. Fu il colpo più basso mosso dall’acrimonioso esule alla sua città natale.
La debolezza della polis attica fu fiutata, come da un branco di lupi su un grande cervo ferito, dalle città della Lega di Delo, che proposero a Sparta una pace separata, l’uscita dall’alleanza e una sollevazione contro Atene. Persino il satrapo persiano dell’Asia Minore propose finanziamenti e supporto militare per schiacciare l’orgogliosa signora dell’Egeo.
Ma Atene aveva un ultimo asso da giocare. Da uomo saggio e previdente quale era, Perikles aveva fatto depositare nel Partenone un tesoro di 1.000 talenti – cifra astronomica per l’epoca, che equivale a circa 23 milioni di euro attuali – che si sarebbe dovuto utilizzare solo per gravissime emergenze. L’assemblea decise che il momento era arrivato e con quel denaro poté armare una nuova flotta, che doveva contrastare la sempre più numerosa marina nemica.
Le cose stavano girando male anche per Alkibiades, che al tradimento verso Atene stava aggiungendo anche quello contro Sparta, trattando in segreto con il satrapo Tissaphernes per far prolungare la guerra e non danneggiare troppo Atene, in modo da non trasformare la città lacedemone nella nuova superpotenza ellenica. Questo doppio gioco, infine scoperto, lo obbligò a fuggire sotto la protezione dei persiani e a riallacciare i contatti con la sua città natale tradita, proponendo finanziamenti e un cambio di sostegno del potente impero fondato da Cyrus il Grande se fosse stato riammesso ad Atene.
Ci furono conflitti interni nella città tra le fazioni oligarchiche, che volevano la pace e i democratici intransigenti, che credevano ancora nella possibilità di una vittoria finale. Dalla parte di questi ultimi cospirò anche il deterioramento dei rapporti tra spartani e Tissaphernes – con buona probabilità istigato da Alkibiades, che in quanto a capacità oratorie e di intrigo non aveva eguali -, che peggiorò la qualità della loro flotta e delle loro finanze, “dopate” dall’oro persiano ma mai state floride.
Pochi mesi dopo il governo democratico venne pienamente restaurato e si preparò a riaccogliere Alkibiades, il quale, tuttavia, preferì procrastinare il suo rientro in città solo dopo aver ottenuto un trionfo militare. Ora che era di nuovo alla guida della flotta la campagna che promosse nel 411-410 fu un pieno successo: tre chiare vittorie navali contro gli spartani e i siracusani permisero ad Atene di riottenere la superiorità sul mare e riconquistare molte città ribelli, forzandole a rientrare nella lega.
Gli spartani, demoralizzati, chiesero di intavolare trattative di pace, ma l’orgoglio degli ateniesi era tornato dopo lo smacco siciliano e questi chiesero una resa incondizionata che le avrebbe riconsegnato intatto il potente impero che deteneva all’inizio del conflitto. Perciò gli spartani chiesero, promettendo alla Persia la cessione dell’intera Ionia al loro dominio – un tradimento grave alla causa greca –, nuovo denaro per armare una flotta e reclutare rematori e marinai esperti da opporre ai veterani ateniesi. Il comando fu preso da Lysandros, protagonista della fine del conflitto.
Questi, futuro astro nascente spartano, seppe approfittare della poca esperienza di un comandante di Alkibiades per infliggere una sconfitta alla sua flotta presso Nozio. Questi, ben consapevole della leggerezza di aver lasciato ben 80 triremi nelle mani di un inetto e temendo un ennesimo processo, fuggì di nuovo, indebolendo per l’ennesima volta, in un momento delicato e decisivo, la leadership ateniese.
L’assemblea destituì tutti i comandanti che avevano fino a quel momento condotto delle buone operazioni difensive e offensive e li sostituì con dieci strategoi tra cui spiccava Perikles il giovane, figlio illegittimo del grande leader ateniese. Abbiamo già visto che in guerra è importante che a decidere sia un uomo solo e non dei comandanti con pari grado e che esercitano il comando a rotazione, ma si vede che Atene non aveva voluto imparare proprio nulla dall’esperienza siciliana.
Si arrivò così al 406, quando il successore di Lysandros, Kallikratidas, con un’imponente forza di 140 navi da guerra mise alle strette la flotta ateniese così mal guidata, minacciando di schiacciarla a Mitilene. Nella città attica scoppiò il caos nato dal terrore della fine. Con un ultimo guizzo di spirito patriottico fu deciso di giocarsi il tutto per tutto: vennero fuse le statue d’oro e fu garantita la libertà e i pieni diritti agli schiavi e ai meteci che avessero servito nella flotta. Nel giro di un mese vennero così equipaggiate oltre 100 triremi, inviate con celerità in soccorso degli assediati a Mitilene.
Kallikratidas, sicuro della vittoria, lasciò un pugno di navi a proseguire l’assedio e mosse con il grosso della flotta verso i rinforzi nemici, puntando alla gloria eterna. Spinti dall’intelligenza e dallo spirito che si accende nei momenti di disperazione, gli ateniesi elaborarono un’efficace tattica che mise a mal partito gli spartani. Alla fine della giornata erano andate a fondo solo 25 navi attiche contro le 70 lacedemoni e anche il generale nemico era caduto, regalando una boccata di insperato ossigeno agli ateniesi.
La vittoria poteva essere risolutiva ma i contrasti politici e l’esasperazione degli animi vanificarono il vantaggio acquisito: difatti gli strategoi vittoriosi vennero accusati di non aver prestato soccorso ai naufraghi e, giudicati davanti al tribunale popolare, vennero condannati a morte. Per trovare un altro caso di suicidio politico-militare simile bisognerà aspettare fino al 454 d.C., anno in cui Valentinianus III assassinerà di sua mano il proprio magister militum Flavius Aetius durante il crepuscolo dell’Impero Romano d’Occidente.
Eppure, nonostante anche questo gravissimo sviluppo, le cose potevano finire ancora bene per Atene. La pesante sconfitta aveva riacceso a Sparta le voci di chi chiedeva una pace di compromesso con Atene. Dopo aspre discussioni il governo spartano offrì alla nemica la resa del forte di Decelea, il ritiro dall’Attica ed il ripristino dello status quo ante bellum. Assurdamente, l’assemblea ateniese rifiutò, speranzosa di una vittoria finale completa sul campo.
A questo punto anche Sparta decise di giocarsi il tutto per tutto, richiamò Lysandros, ottenne il sostegno del nuovo satrapo persiano Cyrus e mise in mare un’ultima flotta. Un vero armageddon si stava per profilare all’orizzonte.
Rafforzata la marina da guerra e consolidate le sue posizioni in Ionia, l’ammiraglio spartano intraprese una campagna di sistematica conquista delle città e delle isole alleate di Atene. Per sviare l’avversario volse la prua verso Atene, simulò un attacco ad Egina e a Salamina e proseguì fino alla città di Lampsaco, nell’Ellesponto, che cadde nelle sue mani. In questo modo, fu troncata la principale via di rifornimento per Atene e gli ateniesi non poterono far altro che inviare la loro intera flotta di 180 triremi nei pressi del fiume Egospotami, il più vicino possibile a Lampsaco, in modo da controllare le mosse dell’avversario.
Stupidamente i comandanti ateniesi, visto che Lysandros pareva poco propenso ad attaccare, fecero sbarcare i marinai per riposare e procurarsi del cibo di cui c’era carenza. Secondo Xenophon, futuro eroe della marcia dei 10.000 che trascrisse nella sua Kyrou Anabasis, l’ultima orgogliosa flotta di Atene uscì in mare aperto, come era solita fare, mentre Lysandros restava nelle sue posizioni. Quando gli ateniesi tornarono al campo e si dispersero in cerca di cibo, allora il comandante lacedemone, senza colpo ferire, catturò le navi spiaggiate e fece prigionieri gran parte dei marinai.
Fu la catastrofe ultima, da cui Atene non si poteva più riprendere, né in termini materiali né in termini psicologici. Su quasi 200 navi all’orgogliosa potenza marinara rimanevano appena nove triremi. Lysandros era diventato il padrone dell’Egeo e conquistò, praticamente senza incontrare resistenza, la gran parte delle isole e delle città che erano state alleate di Atene e sostituì i governi democratici con regimi di tipo oligarchico.
A questo punto le lunghe mura non servivano più a niente perché Sparta poteva assediare Atene per terra e per mare, interrompendo i suoi rifornimenti in via definitiva. Dopo quasi un anno di assedio, nel marzo del 404 a.C., un’Atene stremata e timorosa di rappresaglie decise di arrendersi. Alcuni alleati di Sparta, rancorosi e inaspriti dal lunghissimo e sanguinoso conflitto, proposero la distruzione della polis, l’uccisione dei suoi cittadini maschi e la schiavitù per donne, vecchi e bambini. Lysandros, conscio del prestigio della nemica sconfitta, fu più clemente: gli ateniesi vennero obbligati a consegnare la flotta tranne 12 triremi, dovettero sciogliere la Lega Delio-Attica, abbattere le Lunghe Mura, accettare al Pireo una guarnigione spartana e allineare la propria politica estera e interna – venne abolita la democrazia e stabilità l’oligarchia con il governo dei Trenta Tiranni – a quella della città lacedemone. Era l’umiliante fine del sogno egemonico di Atene.
La guerra del Peloponneso cambiò il volto della Grecia antica: Atene, che dalle guerre persiane aveva visto crescere enormemente il proprio potere, dovette sopportare alla fine dello scontro con Sparta un gravissimo crollo in favore della forza egemone del Peloponneso. Tutta la Grecia interessata dalla guerra risentì fortemente del lungo periodo di devastazione, sia dal punto di vista della perdita di vite umane sia da quello economico e, proprio per questo motivo, il conflitto viene considerato da molti storici come evento finale del secolo d’oro della civiltà ellenica.
In ultimo contribuì a creare quella convulsa fase di mancanza di leadership politica che aprì le porte a Philippos il Macedone e a suo figlio Alexandros, i soli che, da sovrani di un popolo considerato semi-barbaro dagli elleni, seppero unire con le loro falangi quello che Atene e Sparta non avevano saputo fare.
Alberto Massaiu
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