“Se imparerai i principi della scherma fino a raggiungere il livello in cui puoi facilmente vincere un avversario, avrai la consapevolezza di poter battere con altrettanta facilità ogni avversario al mondo: sconfiggere un avversario è la stessa cosa che batterne migliaia o decine di migliaia. L’heiho di un comandante consiste nel prendere importanti decisioni in base a minimi particolari, come costruire una grande statua del Buddha partendo da un piccolo modello. Il principio dell’heiho è «conosciuta una cosa se ne conoscono diecimila»”
Miyamoto Musashi
Miyamoto Musashi è lo spadaccino più famoso della storia del Giappone. Sostenne il primo duello mortale ad appena 13 anni e a 16 sopravvisse, nonostante facesse parte della fazione perdente, alla più importante battaglia della sua epoca a Sekigahara, dove Tokugawa Ieyasu sconfisse le forze dell’ovest e divenne il signore più potente del paese.
Da quel momento girovagò in lungo e in largo come un rōnin – samurai senza padrone -, affinando l’arte della spada sfidando e sconfiggendo i migliori guerrieri in oltre sessanta duelli. Verso i trent’anni si ritirò da questo loop di scontri continui perché giudicò di non avere più avversari degni e si dedicò allo studio di altre discipline come la composizione poetica, la scrittura, il disegno, la filosofia zen e la strategia militare, oltre che a fondare una scuola di scherma che alla sua morte contava centinaia di allievi.
La sua opera principale e frutto di un’intera vita di studio, allenamento e riflessione, è il Go rin no sho o libro dei cinque anelli, che affronta temi prettamente tecnici relativi all’addestramento e all’arte della spada, uniti alla sua personale visione del mondo. Moltissime le massime e straordinaria la lungimiranza e la modernità del pensiero di questo guerriero-filosofo.
“Passo dopo passo coprirai la distanza di mille miglia, percorrendo la Via, accumulando senza impazienza nel cuore e nello spirito le esperienze della pratica continua che è alla portata di tutti e in più la conoscenza ricavata dalla tua personale esperienza. Armati di pazienza considerando che è dovere del bushi intraprendere questa strada per vincere oggi il se stesso di ieri, vincere domani contro uomini più deboli e in seguito vincere contro un avversario più forte […] Senza permettere allo spirito la minima deviazione e alla mente la più piccola divagazione”
Miyamoto Musashi
La cosa che mi ha colpito è la profondità della sua visione delle cose che si abbina ad un altrettanto grande pragmatismo. Questa miscela di cultura e di praticità è il perfetto connubio, a mio parere, dell’uomo di successo che è anche capace di insegnare agli altri e soprattutto di plasmare la storia in maniera duratura.
Alessandro Magno, ad esempio, ci ha lasciato con un impresa titanica ma la giovane età e forse anche il troppo rapido successo gli ha dato alla testa. Al contrario del padre Filippo, uomo di grande ambizione ma anche pragmatico, vero fondatore della potenza macedone, Alessandro conquistò il mondo di allora, ma lo mandò in mille pezzi appena smise di respirare.
Mi servo di questo esempio per riallacciarmi alla storia giapponese e ai tre grandi uomini che tentarono – i primi due – di unificare il paese, mentre fu il terzo, una sorta di Filippo del Sol Levante, a gettare le basi per uno stabile dominio che perdurò fino al XIX secolo.
Questi tre uomini vissero durante il Sengoku jidai, traducibile come il periodo degli Stati belligeranti, epoca che andò dalla fine dell’ultimo, debole shogunato Ashikaga nel 1478 fino alla restaurazione di un potente e solido shogunato con Tokugawa Ieyasu, nel 1603.
Per quanto l’intero paese fosse nominalmente guidato dall’imperatore a Kyoto, questi era – e lo rimase fino alla restaurazione Meiji – solo una figura di rappresentanza, sacra e inviolabile ma senza potere politico o militare. Il vero padrone del paese era lo shōgun, il più potente daimyō – pressappoco come i nostri grandi signori feudali medievali – del paese, capace di assoggettare con le sue armate e un sapiente gioco di alleanze e giochi diplomatici tutti gli altri nobili.
Furono poche le famiglie che riuscirono nell’impresa e gli ultimi, del clan Ashikaga, avevano fondato uno predominio debole, molto contrastato dagli altri aristocratici che ogni volta si ribellavano e facevano scoppiare una guerra dietro l’altra, dilaniando il paese. Fu Oda Nobunaga il primo uomo a tentare l’impresa di riunificare la nazione e per iniziare pose termine al traballante dominio di questa famiglia nel 1573.
Nobunaga era un piccolo signore feudale che si fece strada con grande perizia militare, abilità politica, strategia e audaci colpi di mano. La sua stella sorse nel 1560 quando vinse la battaglia di Okehazama con appena 3.000 uomini, sconfiggendo forze otto volte superiori. Dopo quello scontro il suo nome passò di bocca in bocca per il paese e questi iniziò a delineare il suo sogno di potere.
Conquistò il castello Inabayama e lo ribattezzò Gifu, ispirandosi al leggendario monte Qi, dove si diceva fosse partita la conquista della Cina da parte della dinastia Zhou. Si fece inoltre forgiare un sigillo con la scritta tenka fubu, che in giapponese significa “Una sola insegna militare sotto il cielo”, dichiarazione pubblica dell’intento di unificare la nazione con la spada.
Gli anni successivi li passò in guerra annientando i nemici senza pietà. Un chiaro esempio della sua condotta fu l’attacco al monastero buddhista Tendai Enryaku-ji, sul monte Hiei, nel 1571. Qui si addestravano monaci guerrieri che non si piegavano al suo volere e minacciavano la sua base di potere, perciò il luogo sacro fu completamente raso al suolo e tra 20.000 e 30.000 uomini, donne e bambini furono uccisi durante la campagna militare.
Nobunaga e il suo alleato Tokugawa Ieyasu – futuro shōgun – innovarono l’arte militare introducendo gli archibugi venduti loro dai mercanti portoghesi e a Nagashino, nel 1575, queste armi contribuirono a spazzare via la cavalleria dei Takeda, considerata la più potente del paese. Le tattiche difensive, con l’alternanza di palizzate, lancieri e archibugieri, risultarono decisive per la vittoria. Fu il momento dove il Giappone si avvicinò di più all’Europa dell’epoca: la crisi della cavalleria e della sue gesta eroiche, all’arma bianca, era ormai un dato di fatto nel vecchio continente, mentre nel paese del Sol Levante dopo Nagashino l’archibugio entrò a far parte delle dotazioni standard di ogni armata.
Uesugi Kenshin, unico grande rivale rimasto a Nobunaga, morì nel 1578 e quest’ultimo poté così annientare le ultime resistenze nel cuore del paese, ma mentre si apprestava a completarne la conquista venne tradito da un suo generale, Akechi Mitsuhide, che realizzò un colpo di Stato mentre Nobunaga si riposava nel tempo Honnō-ji, a Kyoto.
Quest’ultimo, circondato da truppe ribelli e con la struttura data alle fiamme, decise di commettere seppuku, il suicidio rituale, per non cadere vivo nella mani del nemico. Mitsuhide tentò di ereditare la posizione del suo signore tradito ma venne subito sconfitto e ucciso dal secondo protagonista della nostra storia, Toyotomi Hideyoshi. Questi era un altro generale di Nobunaga, fedele e di grande successo nonostante le umili origini – che gli preclusero la possibilità di ottenere il titolo di shōgun – che vendicò Nobunaga e ne prese il posto nel progetto di unificazione.
Nel 1585, una volta ottenuta l’alleanza con il più potente daimyō della nazione, Tokugawa Ieyasu, si fece proclamare reggente del paese dall’imperatore. Con la sua carica di kampaku sottomise le ultime sacche di resistenza nelle isole Shikoku e Kyūshū e spezzò il clan Hōjō, diventando il padrone assoluto del Giappone nel 1590 e ponendo virtualmente fine al periodo Sengoku.
Per dare sfogo ai tanti generali e samurai che avevano vissuto in guerra tutta la vita decise di conquistare la Cina dei Ming. Nel 1592 un’armata di 150.000 soldati invase la Corea, trampolino di lancio per l’ambizioso progetto imperialista di Hideyoshi. Dopo una prima, facile conquista, le forze armate nipponiche si ritrovarono a combattere contro un’accanita resistenza, gli aiuti dei Ming e le malattie.
Nel 1593, dopo aver perso in un solo inverno metà della forza d’invasione, Hideyoshi ordinò di radere al suolo Seul piuttosto che riconsegnarla ai sino-coreani e nel 1596, durante una seconda invasione, emanò ordini spietati come l’uccisione di tutti quelli che resistevano alle truppe giapponesi e di tagliare loro i nasi, che collezionò in una grande pila conosciuta oggi con il nome ingannevole di “Tumulo delle Orecchie”, situata vicina al suo mausoleo, l’Hokoku-byo nel tempio Hokoku di Kyōto.
Nel 1598, a sessantadue anni, moriva con un erede, Hideyori, troppo piccolo per succedergli che perciò lo affidò ad un consiglio di reggenti tra cui figurava Tokugawa Ieyasu, l’uomo più ricco e potente del Giappone.
Questi, ormai cinquantacinquenne, era stato molto scaltro e aveva evitato di mandare anche un solo soldato nell’avventura coreana, preservando la sua capacità economica e militare. Egli dominava le terre più fertili e prospere del paese e aveva vassalli e generali fidati che potevano radunare immense armate di veterani scelti e bene addestrati.
Ci vollero appena due anni perché il paese si spaccasse in due. Da un lato si creò la fazione dell’ovest, guidata dal cortigiano Ishida Mitsunari e nominalmente fedele alla memoria di Hideyoshi, che controllava il giovane erede e il castello di Osaka, la capitale del defunto kampaku. Dall’altro vi era la fazione dell’est sotto la guida di Ieyasu.
Sulla carta Mitsunari e i suoi alleati avevano più uomini – circa 110.000 – rispetto all’avversario – circa 80.000 -, ma erano disuniti e Ishida non era l’uomo migliore per compattare uno schieramento eterogeneo dove molti comandanti erano navigati veterani e vedevano di cattivo occhio la sua guida inesperta e spesso irrispettosa del loro orgoglio. Dall’altro lato Ieyasu era il signore incontrastato di tutte le sue truppe, era rispettato e ben voluto in quanto non solo abile generale, ma anche ottimo uomo politico.
Queste caratteristiche vennero fuori nel piccolo villaggio di Sekigahara dove, nella nebbiosa giornata del 21 ottobre del 1600, una parte delle forze occidentali tradirono passando ai Tokugawa e decidendo la giornata e il destino del Giappone per i due secoli e mezzo a venire.
Mitsunari e molti generali morirono sul campo o nella successiva fuga e il povero Hideyori, ormai spodestato dal suo ruolo, visse fino al 1615 quando Ieyasu e suo figlio Hidetada, succeduto al padre come shōgun, lo assediarono ad Osaka.
Sconfitto, questi commise seppuku insieme al figlio, ponendo fine alla casa di Hideyoshi e permettendo ai Tokugawa di regnare incontrastati fino alla restaurazione Meiji, nel 1868.
Alberto Massaiu
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