Eccoci qui con la tappa successiva del mio viaggio. Questa sarà l’ultima nell’isola settentrionale, in quanto nel prossimo articolo ci troveremo per una sera a Wellington, per poi prendere il traghetto che ci porterà a Picton, al di là degli Stetti di Cook, che separano le due propaggini di terra maggiori che compongono la Nuova Zelanda. Oggi racconterò di sfide contro se stessi e la natura, esplorando il cuore selvaggio dei grandi parchi nazionali di quella terra tanto lontana.
Lago di Taupo, isola settentrionale. 10-11 febbraio 2014, piena estate.
“Il lago di Taupo è il più grande lago d’acqua dolce dell’intera Oceania, tanto grande che dalle sue rive pare veramente difficile intravederne i limiti. Con una superficie di 616 chilometri quadrati, un perimetro di 193 e una profondità massima di 186 metri, è un vero colosso naturale che da sul grande parco nazionale Tongariro. Lassù si può fronteggiare il trek alpino chiamato Tongariro Crossing, un percorso molto impegnativo di 19-25 chilometri – a seconda del livello di difficoltà che si sceglie -, che si snoda tra i valichi montani di tre vulcani attivi: monte Ruapehu, monte Ngauruhoe – il Monte Fato nel Signore degli Anelli – e il monte Tongariro, che da il nome al trek.
La cittadina di Taupo, con i suoi trentamila abitanti o poco più, non è molto grande, ma è piena zeppa di escursionisti e giovani appassionati di sport estremi. Anche qua si può fare Skydiving, si può esplorare il lago in barca a vela, in bicicletta o a cavallo. A Taupo ho pernottato in un ostello moooolto particolare. Eravamo veramente in tanti in questi giorni d’estate, tutti attratti dalla sfida del Tongariro Crossing, perciò, nella mia prima notte in città, mi son dovuto accontentare di dividere l’ultima camerata rimasta con altre 31 persone, in un clima più da caserma che da luogo di vacanza.
Ognuno di noi era abbastanza provato dopo aver girato in lungo in largo per il nord del paese, ma tutti raccontavano della bellezza dell’esperienza che stavamo per fare. Io e alcuni coraggiosi – due svedesi, un inglese e due olandesi – ci siamo lanciati nella seconda tappa per difficoltà, che ci avrebbe portato a scalare le pendici del Ngauruhoe o Monte Fato, allungando il percorso fino a 23 chilometri.
Beh, che dire, dopo aver superato i primi 3-4 chilometri ed esser saliti a quota 1.000 metri è calata una nebbia fittissima. Nel Tongariro Crossing non esiste un vero e proprio sentiero, bensì una serie di pali colorati che, a distanza di 50 metri l’uno dall’altro, segnalano il successivo punto da raggiungere. Inutile dire che era severamente vietato abbandonare il sentiero – un sacco di gente si perde e finisce nei crepacci e va poi recuperata con gli elicotteri – e soprattutto era raccomandata una grande attenzione a dei semafori che segnalavano il rischio di eventuali eruzioni vulcaniche, dato che alcune parti del percorso si trovavano nel raggio d’azione delle relativamente frequenti eruzioni.
Con la nebbia il trovare i pali di segnalazione divenne molto più difficile, ma circa mezz’ora dopo iniziò anche a piovere. E continuò a piovere così tanto che non si capiva più se l’acqua arrivasse solo verticale e obliqua, ma anche orizzontale e persino dal basso. Solo un’altra volta nella mia vita ho beccato, da vestito, così tanta acqua da esser fradicio fino alle mutande, nonostante avessi il mio fido k-way e la mantella impermeabile per lo zaino.
Ad ogni modo la soddisfazione di quando abbiamo raggiunto e superato il valico, per poi passare vicino alle polle cristalline di acqua vulcanica e solforosa, è stata magnifica. Eravamo stanchi, bagnati e infreddoliti, ma fieri dello sforzo fatto e dell’obiettivo raggiunto.
Infine, dopo aver superato le montagne ed esser ridiscesi a valle dall’altro lato del parco, ho potuto sperimentare nuovamente la mutevolezza del clima neozelandese. Alle pendici del Tongariro abbiamo infatti trovato una foresta umida, rigogliosa e quasi pluviale. Dal bagnato gelido della pioggia alpina ci siamo immersi nel calore opprimente della boscaglia, con selci, palme e liane che ci hanno riscaldato e condotti, stanchi e anche parecchio sporchi, fino al punto di raduno dove dei bus ci hanno caricati tutti e riportati a Taupo. L’impresa doveva durare, secondo le guide, dalle 6 alle 7 ore, ma noi, causa maltempo, avevamo bruciato le tappe e concluso in 4 ore e 45 minuti. Tiè!
Il giorno dopo, a Taupo, ho deciso di prendermela con totale relax. La mattina un po’ di sole e un tuffo nel lago gelato, per poi godermi una bella uscita in barca a vela per esplorare gli estremi del colosso acquatico che i maori chiamavano Taupō-nui-a-Tia, che significa “Il grande mantello di Tia”, il leggendario scopritore del lago.”
River Valley, isola settentrionale. 12 febbraio 2014, piena estate.
“Per raggiungere la nostra ultima meta dell’isola settentrionale, Wellington, siamo discesi per la River Valley, che prende il nome dal fiume Rangitikei. Per un giorno abbiamo abbandonato completamente la civiltà, sperimentando per la prima volta quello che diventerà una situazione abituale in molte tappe dell’isola meridionale. Non c’era segnale telefonico, né traccia di case, terreni agricoli e in generale presenza umana. Eravamo soli con la nostra strada, il bus e la natura incontaminata.
Siamo scesi e saliti tra montagne e valli, mantenendo come linea guida lo scorrere dell’acqua cristallina che, di volta in volta, stava alla nostra destra o alla nostra sinistra, a seconda dei tornanti e dei giri che in Europa puoi ormai trovare solo nelle più antiche e quasi abbandonate strade provinciali, in montagna.
Infine abbiamo raggiunto la nostra destinazione. Una sorta di grande e pittoresco rifugio di legno, con ampie camerate e docce esterne di acqua gelida, un tempo abitato da dei minatori. Oggi invece è utilizzato dai ragazzi per fare Water Rafting o escursioni a cavallo.
Io ho optato per il primo, che consiste nell’affrontare le possenti rapide del fiume su dei canotti, remando in squadre da sei persone in mezzo agli spruzzi, la spuma e le rocce. Un’esperienza esaltante e provante allo stesso tempo. Una ragazza cinese che aveva voluto partecipare senza saper nuotare – naturalmente non l’aveva comunicato alle guide, il genio – ha rischiato di lasciarci le penne quando è stata sbalzata fuori per un urto improvviso col basso fondale. Per fortuna, dopo qualche attimo di panico nella sua imbarcazione, il suo supervisore l’ha recuperata allungandole un remo e tirandola di nuovo su.
Alla sera, per ritemprarmi dopo tutta l’acqua presa nei giorni precedenti, mi sono goduto prima una bella sessione di idromassaggio – sempre in esterno, naturalmente – e poi una robusta cena a base di stufato di carne e birra scura. E’ stato proprio il massimo.
L’indomani, ben riposato, sarei infine arrivato alla capitale della Nuova Zelanda: Wellington!”
Eccoci qua, finalmente ritornati quasi in vista del mare. La prossima volta vi parlerò di Wellington, così piccola e caratteristica, più un porticciolo tranquillo e provinciale che la capitale di una nazione. Ma è proprio questo il fascino della Nuova Zelanda, l’avere tutto a misura d’uomo, immerso nella bellezza di una natura ancora integra e viva, non costretta in mezzo a cumuli di cemento, zone industriali, cantieri e stradoni infiniti. A presto, Kia Ora!
Alberto Massaiu
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