Correva l’Anno del Signore 1503, le Guerre d’Italia insanguinavano la penisola da circa un decennio, portando miseria e morte tra le genti dei luoghi che subivano i passaggi degli eserciti. Luigi XII, re di Francia, continuava la sua contesa per il mezzogiorno con Ferdinando d’Aragona, decisi entrambi ad assicurarsi quella terra per ancorarsi stabilmente nel paese e stabilire un’egemonia su di un’area ricca, prospera e militarmente debole come era l’Italia a quei tempi.
I signori e le oligarchie locali avevano dimostrato, fin dalla prima discesa italica di Carlo VIII, predecessore di Luigi, un’indecisione e un’incapacità a coalizzarsi contro il nemico esterno a dir poco totale, incentivando così le brame dei barbari conquistatori stranieri. La furia franzese, la ferocia dei mercenari svizzeri e la potenza di artiglierie moderne e cavallerie corazzate esperte e decise avevano infranto l’arte della guerra peninsulare, fatta di acrobazie più diplomatiche che belliche. Le innovazioni brutali che venivano da quel paese, squassato dalla violenta guerra dei Cent’Anni, si rivelarono non solo a livello di campo di battaglia, ma anche psicologico, un trauma difficile da affrontare per i languidi, infidi e imbelli signori d’Italia.
Napoli, il più potente Stato italiano insieme a Venezia e Milano, era crollato come un castello di carte senza quasi impegnare battaglia. Milano, guidata da Ludovico il Moro, che aveva invitato i francesi nella penisola per utilizzarli contro i suoi nemici, si era trovata con le spalle al muro con quei vittoriosi e ingombranti alleati.
Ludovico, agendo come suo costume, aveva tentato un’ennesima giravolta diplomatica, alleandosi ai loro nemici, cercando di creare una lega antifrancese e cacciare così i barbari dai suoi territori. Aveva però fatto male i suoi conti. Prima i luogotenenti di Carlo, poi il nuovo sovrano Luigi XII, lo avevano facilmente scacciato dal ducato. Il 18 ottobre 1499 il sovrano transalpino entrò in Milano alla testa di 10.000 uomini con le artiglierie, e nell’anno successivo rintuzzò il tentativo del duca di riprendersi il regno, catturandolo dopo l’assedio di Novara e mandandolo in esilio in Francia.
Ora sia Milano che Napoli erano in mano transalpina. Venezia si era dichiarata alleata della Francia e molti altri signori risultavano suoi vassalli o “amici”, volenti o nolenti. Solo gli spagnoli, guidati dall’indomito Ferdinando, esperto soldato che alcuni anni prima aveva riportato la penisola iberica in mani totalmente cristiane scacciando i mori da Granada, cercava di spezzare tale predominio, muovendo guerra dalla Sicilia aragonese nel napoletano.
Gli italiani sembravano non contare più nulla, attori di secondo o terzo piano in un dramma tra giganti, ma uno di loro non era d’accordo. Questi era Cesare, della casata di origini valenzane dei Borgia, detto il duca Valentino.
Ma andiamo con ordine. Cesare era il primogenito del Pontefice di Roma, Alessandro VI, uomo colto, affascinante, scaltro e con pochi scrupoli, che aveva la piena intenzione di fare del Papato l’ago della bilancia non solo in Italia, ma tra tutte le potenze cristiane. Per fare ciò aveva nominato un giovanissimo Cesare cardinale, oltre che aumentare il numero del collegio, vendendo la porpora a ricchi nobili e mercanti ottenendo, oltre che denaro sonante, anche una salda maggioranza nella Curia romana, infestata da famiglie antiche piene di privilegi e pretese o da cardinali stranieri che parteggiavano per la Francia o la Spagna.
Di seguito aveva mosso guerra ai riottosi signori semi-indipendenti dei territori papalini, dando il comando delle forze pontificie all’imbelle, donnaiolo e frivolo secondo figlio, Giovanni Borgia. Questi si era fatto cogliere di sorpresa da un’imboscata nemica e la sua spedizione si era conclusa in un disastro e in una cocente umiliazione.
Dopo la morte in circostanze misteriose di questi, Cesare riuscì, dopo molte insistenze, ad aver il permesso di dismettere la porpora cardinalizia per la corazza da soldato, ottenendo la carica di Gonfaloniere della Chiesa, ovvero comandante supremo di tutte le sue forze armate.
Riorganizzato l’esercito, ottenuta l’alleanza con la Francia che fruttò a Cesare una moglie nobile di stirpe reale – Charlotte d’Albret di Navarra -, l’investitura a nobile francese con il ducato di Valentinois e un contingente francese veterano composto da 1.500 cavalli e 4.000 svizzeri con picche e archibugi.
Tra il 1499 e il 1503 Cesare aveva fatto il bello e il cattivo tempo nell’area centro-italica, sollevando un polverone tra i signori locali e, alla fine, perfino in Luigi XII. Ottenuto dal padre il titolo di duca di Romagna, aveva schiacciato i riottosi nobili romagnoli, umbri, toscani, marchigiani e si apprestava a muovere contro Firenze e Bologna, che sperava d’incamerare in un potente Stato centro-italico.
Per fare questo aveva scacciato i Malatesta da Rimini, gli Sforza-Riario da Pesaro, Imola e Forlì e i Montefeltro da Urbino, aveva fatto fuori molti dei suoi comandanti che si erano a lui ribellati a Senigallia il 31 dicembre 1502 e aveva incamerato la sottomissione di Perugia, Piombino, Siena e perfino Pisa, che aveva optato per ottenere la sua protezione contro l’avanzata dei fiorentini in Toscana.
Tutte queste manovre crearono contro il duca Valentino una potente coalizione guidata da Firenze e Venezia in Italia, avvallata da Luigi XII che però non mise alcuna forza in campo e sostenuta infine dal partito curiale anti-borgiano guidato dal cardinale Giuliano della Rovere.
Nel 1503, alla morte per avvelenamento di Alessandro VI, seguì un concitato conclave che portò all’elezione di Pio III, un Papa con il quale Cesare poteva dialogare. Nel giugno del 1503 questi confermò la carica di Gonfaloniere e i titoli nobiliari sui domini, papali e non, che il Valentino aveva ottenuto manu militari, ma il Pontefice era vecchio e malato e morì dopo appena due mesi. Ad ottobre salì al soglio pontificio Giuliano della Rovere, con il nome di Giulio II. E fu la guerra.
Cesare sapeva di non poter tornare a Roma, dove sarebbe stato spogliato di tutto, inoltre aveva da fronteggiare l’avanzata dei nobili da lui spodestati e che tornavano in patria con denaro, navi e armati concessi dalla Serenissima. Nella Marche era sbarcato Guidobaldo da Montefeltro, ex signore di Urbino, con 3.500 fanti e 700 cavalieri, mentre in Romagna agivano Pandolfo Malatesta e Niceta Argiros, con truppe lealiste malatestiane e mercenari albanesi e greci veneziani che ammontavano a 6.000 fanti e 2.500 cavalieri.
Cesare, che negli ultimi anni aveva addestrato un embrione di esercito professionale, sbarazzandosi prima dei francesi e poi dei mercenari, mosse prima verso il Montefeltro. A Fano, nel dicembre del 1503, mese dove le consuetudini italiane di guerra sancivano le tregue invernali, attaccò il campo fortificato di Guidobaldo.
La sorpresa fu totale e la resistenza inesistente, con mille morti e altrettanti prigionieri. Lo stesso nobile venne preso e inviato nella fortezza di Spoleto, mentre Cesare muoveva a nord. Pesaro, Rimini e Urbino, città dove aveva lasciato guarnigioni, gli fornirono approvvigionamenti, rinforzi e preziose informazioni sui nemici attestati presso Faenza, Forlimpopoli, Cesena e Cervia.
La grande notizia fu che i due comandanti nemici se la intendevano poco tra loro, anche perché ad un banchetto Pandolfo aveva insultato il comandante mercenario greco, Niceta, che era arso dalla voglia di vendetta. Fu quindi facile per Cesare addivenire ad un accordo con questi, in modo che nello scontro decisivo le sue truppe rimanessero ferme e non sostenessero il Malatesta, lasciandolo solo con i suoi contingenti.
Il 22 gennaio del 1504, in un campo gelato presso Cesena, le due schiere si scontrarono, con una lieve superiorità per i nemici del duca Valentino. Quando però la prima schiera di cavalieri malatestiani impattò le linee di picchieri borgiani, i cavalleggeri albanesi e greci di Niceta si mossero, caricando gli ex alleati alle spalle. Colti di sorpresa, questi si dispersero ai quattro venti, consegnando nelle mani di Cesare una schiacciante vittoria che confermò il suo potere su tutta la Romagna.
Niceta decise di passare dalla sua parte, mettendogli a disposizione quasi 3.000 mercenari esperti, che, per una volta, si dimostrarono molto fedeli. Argiros stesso diverrà un ottimo consigliere, comandante e forse anche amico sincero per il giovane Borgia negli anni a venire.
L’inaspettata e netta vittoria scosse il panorama italiano, che era abituato a quel tipo di risultati solo quando forze italiane si scontravano con le straniere, ma mai tra di loro. La guerra tra i nobili della penisola era fatta di compromessi, mezze vittorie, accordi e sotterfugi, mai di violenta e vigorosa azione militare.
Gli Estensi, signori padani di Ferrara e Modena, erano legati alla casa Borgia dal matrimonio del loro signore con Lucrezia, sorella di Cesare, perciò rimasero neutrali alle mosse di questi, ma Venezia, Bologna e Firenze formarono una vera e propria Lega, detta Lega di Ancona. Questa alleanza fu avvallata da Giulio II stesso, portando al paradosso che il Papa dichiarasse guerra al suo stesso Gonfaloniere per consegnare territori papali nelle mani di altre potenze italiche.
Per buona misura Giulio decise di sottoporre Cesare a scomunica, bollandolo come traditore ed eretico. Cesare non si scompose e dalla sua roccaforte di Rimini elesse un anti-Papa nella figura del mansueto fratello minore Goffredo. Questi, che nella sua vita non aveva mai combinato un granché, era un laico, sposato con Sancia d’Aragona e duca di Squillace, ma questo particolare non turbò minimamente il duca.
In tre giorni fece tonsurare il fratello e gli fece compiere una carriera lampo, ordinandolo prima sacerdote, poi vescovo di Cesena e infine Papa con il nome di Alessandro VII. Poi si fece confermare da questi come duca di Romagna, di Piombino e delle Marche, Gonfaloniere di Santa Madre Chiesa, oltre che, naturalmente, farsi togliere la scomunica e comminarla a Giulio II.
Il caos era ora totale, con i due Papi che crearono due Curie, una a Roma e una a Rimini, che si lanciarono reciproci strali e condanne alle fiamme dell’inferno. Era chiaro a tutti che la risposta sarebbe venuta solo da un conflitto bellico.
Cesare aveva davanti una coalizione potente, dotata di soverchianti forze militari, ma aveva tre assi nella manica: il primo era che Luigi XII rimaneva, per quanto ambiguamente, un suo alleato; la seconda era un forte e fedele esercito moderno e professionale, temprato da scontri in almeno cinque anni di conflitto; il terzo era la posizione centrale da dove poteva mettere in scacco e affrontare uno ad uno i suoi nemici, che rimanevano poco fiduciosi uno dell’altro.
Come ultima cosa, ma non per questa meno importante, negli ultimi tre anni Cesare aveva fatto in modo di trasferire il centro finanziario del ducato di Romagna a Rimini, facendone la sua capitale, e non spedendo più denaro a Roma, bensì accumulando i proventi delle imposte e della guerra in quella città.
Le tasse che impose alle terre da lui conquistate erano considerevolmente più basse rispetto a quelle degli antichi signori, cosa che gli assicurava la fedeltà delle genti locali, ma erano amministrate e investite meglio, aspetto che aveva trasformato il suo dominio in uno Stato molto ricco.
Granai, magazzini, armerie e forzieri erano pieni, cosa che gli permetteva di fare la guerra in piena tranquillità. La sua previdenza fu provvidenziale in quelle circostanze drammatiche, ma tutto fu gestito per il meglio grazie al suo consigliere fiorentino, Niccolò Machiavelli, che aveva avuto mano libera nella riorganizzazione militare, burocratica e amministrativa delle terre che via via il Valentino incamerava.
Nel maggio del 1504 una flotta veneziana sbarcò un piccolo contingente ad Ancona, unico dominio marchigiano rimasto alla Serenissima in un mare di terre oramai borgiane, e uno molto più considerevole a Ravenna, a cui si unirono le milizie comunali di Bologna e alcune unità di balestrieri e cavalieri fiorentini.
Allo stesso tempo Il Gonfaloniere di Firenze Piero Soderini avrebbe marciato con il grosso delle sue forze su Pisa e Siena, per strapparle alla signoria di Cesare e unificare così la Toscana sotto l’egida della città sull’Arno. Giulio II, ottenuti 2.500 fanti spagnoli e 1.500 svizzeri, aveva allestito un corpo di spedizione che si sarebbe mosso da sud, per stringere sulle Marche e sulla Romagna una morsa mortale che avrebbe stritolato il duca Valentino.
Cesare non si perse d’animo, giudicò che i veneziani di Ancona non avrebbero rappresentato un serio pericolo, perciò reputò opportuno concentrare tutte le forze a nord, cercando uno scontro risolutivo. Ebbe però l’accortezza di fortificare ed equipaggiare la rocca di Spoleto con colubrine e spingarde, in modo tale da resistere all’avanzata di Giulio II ed evitare così l’accerchiamento.
Inviò infine Niceta in Toscana con 1.200 cavalleggeri e 600 arcieri a cavallo, in modo da ostacolare le operazioni del Soderini, agendo come suo vicario per Siena e Pisa con pieni poteri e molto oro, nel caso ritenesse opportuno assoldare mercenari o corrompere comandanti. Tenne con sé Niccolò, che gli fece da consigliere mentre muoveva verso Ravenna e Massa Lombarda con 6.500 fanti e 3.000 cavalieri.
Venezia aveva inviato in quel teatro due comandanti famosi, il cauto e anziano Pitigliano e il valente e impetuoso Bartolomeo d’Alviano. Ai loro ordini stavano 11.000 fanti e 5.000 cavalieri, oltre che un piccolo parco d’artiglierie moderne. D’Alviano era per l’attacco, nell’irruente modo che i francesi e anche il Borgia prediligevano, mentre il Pitigliano, di vecchia scuola, preferiva una strategia attendista che portasse all’esaurimento le forze nemiche e all’incremento delle loro fila mentre gli alleati papalini, bolognesi e fiorentini avessero via via raggiunto il loro campo fortificato presso Ravenna.
All’inizio la sua fama, l’autorità e il sostegno che il Senato veneziano aveva nei suoi confronti, imbrigliò la smania guerresca di Bartolomeo, che morse il freno. Cesare Borgia tentò in tutti i modi di provocare i nemici al combattimento, conscio che il tempo giocava a suo sfavore. Giunse perfino a sfidare i comandanti nemici a duello, invito che venne accettato in un primo momento da d’Alviano, che venne bloccato dall’anziano collega solo dopo molte insistenze da parte di quest’ultimo.
A metà giugno l’armata veneziana venne raggiunta dai rinforzi bolognesi e fiorentini, che incrementarono la sua forza d’urto di 7.000 uomini. Bartolomeo d’Alviano riuscì finalmente a convincere il Pitigliano ad ingaggiare battaglia e questi, vista la superiorità numerica di oltre due a uno, ordinò di schierarsi a combattimento.
I due non sapevano che Cesare era stato raggiunto segretamente da molti rinforzi, soprattutto picchieri e archibugieri, e aveva allestito una linea trincerata dove aveva posizionato cannoni e macchine belliche atte a seminare la morte tra le compatte formazioni nemiche.
La mattina del 22 giugno Bartolomeo d’Alviano giudò una carica di 6.000 cavalieri dritta contro la linea fortificata. I suoi uomini dovettero pagare il duro pedaggio dei triboli sparsi nel terreno per azzoppare uomini e cavalli, poi superare una trincea allagata e fangosa e infine assaltare il terrapieno rinforzato con pali acuminati e protetto dai veterani armati di picca di Cesare. Tutto questo sotto il tiro di cannoni, archibugi e balestre. Fu una strage.
2.000 cavalieri rimasero nel terreno, 800 vennero catturati, compreso lo stesso d’Alviano, che venne portato alla presenza del duca Valentino ferito, che lo fece curare dal suo medico arabo personale. Il Pitigliano, vista la mala parata, era propenso a ritirarsi, ma venne convinto dai Bentivoglio, potenti signori di Bologna, a fare un tentativo contando sulla fanteria, ancora numerosa e fresca.
Cesare, per invogliarli all’attacco, aveva fatto uscire alcuni reparti dalle trincee, tenendo il grosso delle sue riserve nascosto, in modo tale da far credere al nemico di aver subito perdite e diserzioni. Fece perfino allontanare 700 cavalieri, che dovevano dare l’impressione di fuggire via, mentre al contrario si appostarono in un boschetto ai fianchi del campo di battaglia, pronti per attaccare sul fianco e da tergo la gran massa di fanteria nemica.
Pitigliano alla fine si convinse, ordinando alle cerne, i battaglioni di fanteria veneziana, di muovere avanti, supportati ai fianchi dai tiratori bolognesi e fiorentini. Lui si mise in retroguardia con i cavalieri superstiti e con altri 2.000 fanti pesanti.
Cesare aspettò che gli avversari fossero impegnati a fondo nella mischia, e solo allora fece uscire le riserve, che attaccarono i fianchi dello schieramento nemico, mentre con urla terribili i cavalieri che avevano finto la diserzione si accanivano sulla retroguardia. Fu un massacro. Con 10.000 caduti da una parte e solo 1.200 dall’altra, oltre che 4.000 prigionieri, molti dei quali decisero di passare dalla parte del Borgia. Tutti i comandanti nemici erano caduti nelle sue mani, compresi due Bentivoglio, il Pitigliano e il d’Alviano. La vittoria era stata schiacciante e completa, tanto che Ravenna stessa aprì le porte al duca il 2 luglio e Bologna capitolò alla fine del mese, senza resistenza.
A questo punto Cesare si rivolse contro Firenze, che era rimasta invischiata in una guerriglia scatenata dalle mobili forze di Niceta tra Volterra, Empoli e San Gimignano. Solo a fine giugno il Soderini aveva finalmente chiuso in un angolo il valente greco, ma fu allora che Cesare giunse da nord a minacciare la capitale stessa della repubblica. Il Gonfaloniere fiorentino dovette tornare indietro a spron battuto, tallonato e tormentato dagli arcieri a cavallo greci e dai cavalleggeri albanesi dell’Argiros. Giunto infine a Firenze, si trovò assediato da 15.000 uomini, senza vie d’uscita e con le truppe esauste, decimate e demotivate.
Giulio II era rimasto impantanato nell’assedio di Spoleto, difesa da 600 fedelissimi soldati borgiani guidati da Micheletto, uomo di fiducia del duca che aveva dato più e più volte ottima prova di sé nelle campagne precedenti. Stanco e amareggiato per l’incapacità della Lega, Giulio decise di addivenire ad un accordo con Cesare, inviandogli degli emissari in agosto. Questi erano un Orsini e un Colonna, patriarchi delle rispettive famiglie ed entrambi in odio al duca Valentino, che neanche li ricevette.
Nel frattempo un’epidemia era scoppiata a Firenze, e la città era prossima a cadere, ma il sogno di Cesare ebbe una brutta battuta d’arresto quando venne raggiunto da un emissario di Luigi XII, suo amico e protettore, che gli ingiunse di togliere l’assedio.
Masticando amaro, ma ben conscio di non poter ancora affrontare le truppe francesi, il Borgia dovette adeguarsi. In cambio il re di Francia gli concedeva, come se le avesse conquistate lui, le città di Bologna e Ravenna, dandogli il via libera anche per prendere Ancona, ultima spina nel fianco in mezzo ai suoi domini.
In cambio doveva lasciare sia Firenze, sia Pisa, che sarebbero divenuti due protettorati francesi, ma avrebbe conservato Piombino e Siena, di cui avrebbe potuto disporre a suo piacimento. Inoltre venne caldamente consigliato a riappacificarsi con Giulio II, ponendo fine allo Scisma che stava provocando con il fratello Goffredo.
Cesare decise di battere il ferro finché era caldo. Mandò un messo a Giulio II, proponendo un incontro a Narni, mentre inviò Niceta ad Ancona con 3.000 cavalieri. La città era stata abbandonata da quasi tutta la guarnigione, che era stata inviata a prendere Senigaglia, e cadde immediatamente quando venne sorpresa nella notte da un attacco impetuoso e inaspettato. Il contingente veneziano, senza supporto della flotta e isolato in terra nemica, si arrese. La Lega era naufragata in una tempesta borgiana.
A Narni, nell’ottobre del 1504 si incontrarono i delegati di Francia, della Santa Sede, della Serenissima, di Firenze e del ducato di Romagna. Grazie alle travolgenti vittorie, ai molti prigionieri illustri e al sofferto accordo con Luigi XII, Cesare la fece da padrone.
Ottenne la conferma di tutte le acquisizioni territoriali tranne le concessioni dovute al sovrano transalpino; poté tenere come prigionieri i nobili Malatesta, Bentivoglio e Montefeltro, in modo tale da non avere più pretendenti per le città e le terre che andavano a comporre il suo dominio; concluse lo scisma, degradando suo fratello a cardinale, ma ottenendo che sedesse nella Curia come Vice Cancelliere, secondo nelle faccende di Stato solo al Pontefice stesso; infine chiese e ottenne che tutte le terre da lui governate in Umbria, Marche, Toscana meridionale e Romagna fossero svincolate dal dominio territoriale della Chiesa, che si ridusse al solo Lazio, sprofondato nuovamente nell’anarchia dei signorotti romani. Giulio II dovette ingoiare amaro, ma 12.000 soldati borgiani alla frontiera e l’assenza di alleati prossimi lo costrinse ad accettare il trattato. Per il momento.
Cesare Borgia si autoproclamò duca di Romagna e Marche, Principe di Piombino e Gonfaloniere di Siena e Spoleto, rinunciando a quello della Chiesa, che tornò nella disponibilità di Giulio II. Nel 1505 chiese e ottenne il riconoscimento ufficiale di questi titoli all’Imperatore del Sacro Romano Impero, Massimiliano d’Asburgo, in cambio di 50.000 fiorini d’oro, che ottenne da Firenze come riscatto per non aver messo a sacco la città.
Sembrava andare tutto a gonfie vele per Cesare, ma un inatteso rovescio della sorte sembrò rimettere tutto in discussione. Nel biennio 1506-1508 i veneziani addivennero ad un accordo con Luigi XII sui loro confini in Lombardia, cosa che permise loro di concentrare i loro sforzi nuovamente contro Cesare sull’Adriatico. In più, a sud, il dominio francese sul napoletano volgeva a termine con la battaglia sul Garigliano e una presso Montecassino.
Gli spagnoli, nuovi dominatori del meridione e fedeli al Pontefice di Roma, potevano mettere a disposizione di Giulio II una potente macchina bellica per riprendersi quello che era stato strappato con tanti sforzi dal duca Valentino. Cesare però rintuzzò la minaccia accordandosi con il comandante supremo iberico, Gonzalo da Cordoba, promettendogli un matrimonio con la sua casata, una rendita e una signoria nel sud del Lazio oltre che nel valenzano, dove i Borgia detenevano ancora immense e ricche tenute.
Nel 1507, ad Ancona, i due uomini si incontrarono e stipularono un’alleanza segreta, dove Gonzalo si impegnava a far sapere al suo re che Cesare poteva fungere da cuscinetto e da ago della bilancia tra le due aree di influenza spagnola e francese della penisola, e che quindi era meglio lasciarlo là dove era, anche perché non aveva più alcuna mira sui territori rimasti in mano al Pontefice. Inoltre, aggiunse Cesare con un pizzico di ironia e ipocrisia visti i trascorsi paterni, la Chiesa, con un territorio più piccolo da gestire, avrebbe smesso di brigare sulle faccende temporali e avrebbe dedicato più impegno alla cura delle anime.
Luigi XII non apprezzò molto questo abboccamento del Borgia con il suo peggior rivale, ma vista la sua politica ambigua con fiorentini e veneziani si limitò a dei rimbrotti e vaghi ammonimenti, anche perché si era impelagato in un conflitto con Massimiliano d’Asburgo sul possesso sia delle Fiandre, sia del milanese, perciò gli conveniva tenere Cesare come antemurale tra lui e i tercios spagnoli a sud.
Con un’ultima mossa magistrale il duca Valentino mise sotto pressione la Serenissima, facendo scoppiare un ennesimo conflitto tra questa e la Sublime Porta. Un patto coi turchi fatto da un signore cristiano avrebbe fatto inorridire l’intera Europa, ma Cesare se ne infischiava se la cosa poteva addivenire a suo vantaggio. Senza impegnare un solo soldato e con l’invio di qualche dono e un emissario a Costantinopoli, questi aveva messo in scacco Venezia, che dovette guerreggiare contro i musulmani fino al 1512, dove addivenne ad una tregua, grazie all’intercessione di Cesare Borgia stesso.
Con le spalle coperte, i francesi occupati a nord e gli spagnoli che muovevano una campagna contro gli emiri di Tunisi e Algeri, Cesare decise che era tempo di inglobare anche la Toscana nei suoi domini, spazzando via Firenze. Inscenò un’abile mossa per passare come protettore di Pisa, che era stata forzatamente costretta a subire l’ennesimo vassallaggio da parte della repubblica fiorentina, poi mosse con 12.500 uomini ad Arezzo, che si arrese dopo appena cinque giorni. Espugnati alcuni castelli locali, risalì l’Arno e puntò dritto sulla città.
Giulio II tuonò e sbraitò, minacciò guerra ma il suo Vice Cancelliere mosse obiezioni su obiezioni, partendo da fatti incontestabili come le finanze esauste e le rivolte baronali nel Lazio, dichiarando che un conflitto sarebbe stato un suicidio. Giulio, che nonostante la famiglia di provenienza aveva preso a benvolere il suo ex-rivale Goffredo Borgia, in quanto mansueto, assolutamente inoffensivo e dotato di una vena di gentilezza e cortesia inusuale per quei tempi, si era pian piano placato.
Piero Soderini aveva mandato messi a nord, implorando Luigi perché intercedesse in favore della loro indipendenza, ma questi era nelle Fiandre a guerreggiare contro inglesi e asburgici, e il suo Vicario a Milano, Gian Giacomo Trivulzio, non si sarebbe separato da un solo soldato o pezzo d’oro per una causa che riteneva persa in partenza.
Dopo tre mesi Firenze accettò una resa senza condizioni, che venne suggellata da una guarnigione borgiana e la nomina di un Vicario per la città nella figura di Niccolò Machiavelli, mentre il Soderini venne spedito in esilio a Roma.
Seguendo lo slancio Cesare si avventò su Lucca e Pisa, ottenendo la loro sottomissione entro la fine del 1509. Nello stesso anno, in odio a Venezia e vedendo in lui l’unico signore italiano degno di questo nome e capace di difendere la penisola contro i barbari stranieri, sia la signoria d’Este che la repubblica di Genova strinsero un’alleanza difensivo-offensiva con il duca di Romagna. Cesare raggiungeva così un potere che solo i Visconti di Milano avevano un tempo avuto, circa un secolo prima con Gian Galeazzo.
Nel 1510 stabilì la sua capitale provvisoria a Bologna, promuovendo l’università, le arti e il commercio. Iniziò a costruirvi un grande palazzo signorile, dove vennero invitate le più grandi personalità dell’epoca: Machiavelli, Leonardo, Raffaello, Michelangelo e moltissimi altri. Nel 1512 morì a Roma Giulio II, e il conclave, grazie ad ingenti finanziamenti da parte del fratello, elevò al soglio pontificio Goffredo Borgia, con il nome di Alessandro VII.
Questi, davanti al collegio cardinalizio, annunciò che la Chiesa aveva bisogno di tornare alle sue origini, ovvero rivolta alla sola cura delle anime e non delle faccende mortali, perciò chiamava nella Città Eterna il duca di Romagna, affinché stabilisse l’ordine e garantisse la pace, la serenità e la sicurezza che avrebbe loro permesso di onorare meglio il Signore.
Detto fatto, Cesare calò sull’Urbe con 10.000 fanti e 6.000 cavalieri, entrandovi il 21 aprile 1513 e proclamando che la Chiesa perdeva un pezzo di terra ma guadagnava l’immensità degli spazi celesti e le anime di tutti gli uomini. Si stabilì poi nella zona del Palatino, antica sede dei Cesari, sulle cui rovine edificò uno splendido palazzo che elesse a propria residenza.
Sul Campidoglio, dove stava il Senato Romano, proclamò che la città sarebbe tornata ad essere la capitale di un potente paese, fatto di italici e scevro dalle influenze straniere. Poi si auto-proclamò Principe di Roma, fondando uno Stato che comprendeva tutto il centro Italia, dalla Toscana settentrionale e la Romagna fino agli antichi confini napoletani.
La notizia di quello che il Valentino aveva fatto si sparse come un lampo nel panorama europeo. Mai vi era stato così tanto potere concentrato in una dinastia italica e soprattutto Roma, la capitale naturale e spirituale della penisola, era da secoli rimasta appannaggio dei Pontefici, mai di un signore laico.
Oltretutto questi aveva ora il controllo di un’area ricchissima e florida, pacificata e unificata, oltre che sorvegliata di un possente e moderno esercito in continua espansione. Fabbriche di cannoni e accademie militari sorgevano a Roma, Rimini, Bologna, Siena, Pisa. Denaro circolava e palazzi, fortezze e infrastrutture come ponti e strade venivano innalzate, rammodernate o ampliate.
Cosa poteva succedere nel panorama Europeo se l’Italia iniziava a risvegliarsi?
Alberto Massaiu
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