Mentre la flotta romana era impegnata nell’espandere l’influenza di Costantinopoli sulla costa africana, a corte giunsero terribili notizie. Alfonso d’Aragona, figlio del decaduto sovrano di Napoli, si era ribellato all’impero, uccidendo diversi funzionari e ufficiali a Salerno e attaccando le roccaforti pugliesi protette da Romanos Doukas.
Al suo fianco si era schierato il papa Innocenzo VIII, che aveva armato a sue spese un forte esercito di mercenari italiani, tedeschi e borgognoni, con cui contava di sostituire la fresca influenza ortodossa a due passi da Roma con la propria. A capo delle truppe papali era stato reclutato l’impetuoso capitano di ventura Bartolomeo d’Alviano, che si ricongiunse presso Benevento con Alfonso.
L’exarchaton era ancora mal difeso e poco fedele vista la recentissima conquista, perciò cadde rapidamente in mano al ribelle. In più la repubblica di Venezia, stretta un’alleanza con il pontefice, scese in guerra a sua volta, sbarrando l’Adriatico con la propria flotta al completo, impedendo un rapido afflusso di rinforzi dall’Albania.
Ma il peggio doveva ancora venire. Sayf al-Din, signore dell’Egitto, vista la crisi politica in cui stava precipitando Costantinopoli, pensò di approfittarne e, rotta la breve alleanza, decise di attaccare a sua volta i romani, per soffiare loro le terre africane appena spartite tra loro.
Fu un giorno terribilmente buio per il basileus, che di colpo vide tutti gli sforzi e i successi degli ultimi due anni rimessi in gioco.
I mamelucchi avanzarono con due grandi offensive strategiche. La prima diretta verso Tunisi, invadendo il nord Africa, la seconda verso Antiochia, in direzione Siria, affidando un esercito all’anziano Muley Hassan, l’amīr della città che era stato cacciato ben trent’anni prima e che aveva vissuto in un dorato esilio al Cairo fino a quel momento.
Specialmente in Tunisia pochissima fu l’opposizione alla loro avanzata e ben presto una grande armata giunse nell’unica roccaforte stabilmente presidiata da truppe romane: Tunisi. Nella città era accampata la III Legio Invicta, agli ordini dell’erede al trono Basileios, un comandante ormai esperto di guerra, adorato dai soldati. Motivati dal valente condottiero, i legionari opposero un’accanita resistenza e respinsero gli egiziani per quattro mesi, scrivendo una pagina leggendaria della storia militare romana.
Mentre ai confini le truppe imperiali cercavano di tenere le posizioni, Alexios organizzava nella capitale la controffensiva. Convocato Mikhael, il figlio di Romanos Doukas, gli affidò ben tre legioni, appoggiate da 6.000 ausiliari e 60 navi da guerra, con l’obiettivo di superare il pattugliamento veneziano e sbarcare in Puglia per sedare la ribellione e punire il pontefice di Roma. Contro Muley venne inviato l’esperto di faccende orientali Leon Phokas con due legioni di sostegno alle proprie e 8.000 ausiliari, con la possibilità di chiamare alle armi 20.000 miliziani dei themata asiatici.
Il sovrano, infine, si mise a capo di una spedizione di soccorso a Tunisi con l’intera Guardia Imperiale, la I Legio Praesentalis e 4.000 ausiliari.
Lasciò in difensiva a Costantinopoli l’VIII Legio, 2.000 ausiliari, 1.500 alleati valacchi, moldavi e colombiani. I restanti ausiliari rimasero a difesa dell’Anatolia centrale, mentre la VII Legio proteggeva i territori spagnoli con 10.000 soldati andalusi musulmani. Le restanti truppe vennero poste in stato d’allerta sul fronte danubiano, comandante dal prinkeps di Valacchia Vlad III Dracula, ormai sopra la sessantina ma sempre impavido e imbattibile. Questi mise a disposizione di Costantinopoli, in cambio di ulteriori aiuti economici e armamenti, ben 15.000 uomini a difesa da eventuali incursioni polacche, transilvane o magiare.
L’Impero Romano stava mobilitando le sue risorse e, nonostante le grandi spese, non subì danni economici. Era il più grande riconoscimento alle riforme e alla politica di Alexios in quei due decenni di pace.
Innocenzo VIII provò a convocare tutti i sovrani latini ad una grande crociata contro gli eretici orientali, ma a parte i proclami e i segni di amicizia nessun sovrano decise di scendere nella penisola e alla fine solo Venezia, Firenze e Lucca diedero un contributo – peraltro abbastanza marginale – al conflitto in Italia. Ad ogni modo le truppe papalino-napoletane contavano 21.000 fanti armati di lance, roncole, archibugi e alabarde, 4.200 cavalieri pesanti e 9.000 tra cavalleggeri e balestrieri a cavallo.
Mikhael, grazie ad un’audace traversata notturna, era riuscito a sbarcare presso Brindisi senza problemi, beffando la flotta veneta. Bartolomeo d’Alviano aveva preferito ritirarsi verso l’interno e i due eserciti si incontrarono uno di fronte all’altro solo alla fine di giugno, presso Benevento. Il magister militum romano decise di tastare l’abilità dei suoi avversari, sperimentando le sofisticate strategie di guerra orientale a cui i suoi uomini si erano temprati nella campagna anatolica dell’anno prima. Grazie alle azioni mordi e fuggi sul modello turco le avanguardie di hippotoxotai legionari scompaginarono i cavalieri latini, mentre al contempo il generale faceva ritirare il grosso delle sue fanterie sulle alture limitrofe.
Come era prevedibile, i latini inseguirono i romani credendoli in fuga e, senza il supporto dei loro cavalieri, ancora scossi dall’azione degli equites sagittarii, vennero sanguinosamente respinti dalle ordinate schiere dei legionari, appoggiati da numerosi pezzi d’artiglieria leggera e pesante, subendo gravi perdite.
Ad ogni modo Mikhael decise di non rischiare l’armata in uno scontro di linea frontale, in attesa di avere maggiori informazioni dagli altri fronti di guerra. Nei due mesi successivi gli avversari fecero pochi progressi, anzi saccheggiando le campagne per mantenere le proprie truppe mercenarie si alienarono le simpatie dei contadini locali, che via via identificarono gli imperiali come unici garanti della pace, in quanto il magister militum si preoccupò che la condotta dei suoi soldati risultasse irreprensibile.
Il vero episodio decisivo si svolse però sul mare. La flotta veneziana, infatti, venne intercettata dalla Neon Nautikon al largo di Ragusa. Gli ammiragli della Serenissima stavano aspettando di traghettare le armate papalino-napoletane in Albania, e confidavano troppo nell’esperienza e nella superiorità dei loro legni e consideravano la marina romana alla stregua delle deboli flotte turche del recente passato.
Fu un pessimo errore. La scuola dell’ammiragliato a Costantinopoli, grazie a numerosi maestri italiani, spagnoli, portoghesi e inglesi, aveva formato una nuova classe di ufficiali di alto livello e preparazione, oltre che innovare grandemente sul piano qualitativo le navi da guerra imperiali.
Presso Ragusa questo lungo lavoro venne premiato. Nell’arco di un paio d’ore la flotta romana travolse, sotto l’audace guida del megas droungarios Cristoforo Colombo, quella veneziana. I lagunari persero 44 imbarcazioni e 7.200 uomini tra morti, feriti e prigionieri. La marina imperiale perse 9 navi e 1.300 uomini.
Alla sconfitta sul mare seguì quella di terra: il 7 settembre i crociati caddero in un’imboscata sugli Appennini, mentre tentavano di entrare in Puglia. Bartolomeo d’Alviano, ammalato, aveva dovuto cedere il comando al ben introdotto ma inesperto aristocratico Guido Colonna, che si fece giocare dall’ennesima finta ritirata della cavalleria leggera romana e spedì l’esercito tra due ripide alture.
La battaglia che ne seguì, se così si può chiamare, si trasformò in una catastrofe per i latini. L’esercito alleato, nel caos più totale e bersagliato da colpi di cannone, archibugio e bordate di frecce, venne scompaginato e distrutto. I papalini contarono 8.000 tra morti e feriti, mentre in 6.000 vennero presi prigionieri e altrettanti si sbandarono, tornando alle loro case. Vi furono appena 1.200 caduti tra i romani. Alfonso stesso, effimero re di Napoli, cadde nello scontro.
Le due schiaccianti vittorie per mare e per terra, così a breve distanza una dall’altra, annullarono ogni spirito dei crociati, che si ritirarono da ogni teatro militare, chiedendo subito una tregua. Lasciato quindi Mikhael a riorganizzare quello che sarebbe diventato il thema di Longobardia con la metà delle forze, Alexios spostò le sue truppe in Africa, comandando di persona la missione di soccorso del figlio prediletto, assediato dentro Tunisi. La città, infatti, era allo stremo.
I 6.000 legionari della terza avevano resistito per quattro mesi infernali contro 35.000 egiziani, perdendo 3.000 effettivi ma provocando 12.000 caduti al nemico. Alexios sconfisse insieme alle superstiti forze di Basileios le schiere mamelucche il 21 settembre. Il resto fu una marcia trionfale.
Supportato dalla flotta, con una serie di operazioni anfibie e una marcia sulla costa gli imperiali presero i centri più importanti di Libia e Cirenaica, che cambiarono subito padrone appena videro il cambio della marea. I bey locali non volevano problemi e, appena saputo che il basileus avrebbe garantito loro tasse minori rispetto a quelle imposte dal sovrano egiziano, salutarono con tutti gli onori l’arrivo dei romani.
Ai primi di novembre, grazie a questa saggia politica, le forze dell’imperatore entravano in Egitto senza incontrare alcuna resistenza.
Nel frattempo, a centinaia di chilometri più a nord-est, il 24 giugno l’armata di Leon Phokas aveva sbaragliato le forze di Muley Hassan presso Edessa. Durante la battaglia il vecchio amīr aveva trovarto la morte alla testa della sua guardia a cavallo mamelucca, annientata dalla carica dei kataphraktoi. La città stessa fu subito annessa all’Impero Romano.
In luglio tutta la Siria era in mani romane e il 19 agosto cadde Damasco, dopo soli sette giorni di assedio. Le roccaforti costiere seguirono a ruota dopo una resistenza puramente simbolica, in quanto non erano state preparate per degli assedi, vista la troppo ottimistica previsione di una guerra offensiva sul suolo anatolico, e non in difesa nei propri territori. La marcia fulminea del magister militum, che seppe approfittare splendidamente dell’occasione, si rivelò efficacissima.
Il 2 settembre Leon ebbe l’onore di entrare in Gerusalemme alla testa dei suoi uomini e per fine mese le sue legioni marciavano nel deserto del Sinai, in direzione Egitto. Si strinsero così le tenaglie sull’ex alleato traditore: Alessandria venne presa con un assalto da terra e dal mare di Alexios, rinforzato dalle prime avanguardie di Phokas, per la fine di novembre.
Il 15 dicembre, presso il Cairo, le ricongiunte forze romane diedero battaglia a tutte le truppe che il sovrano mamelucco aveva raccolto per l’ultima difesa, nella speranza di una vittoria che gli avrebbe permesso di conservare almeno una parte dei suoi territori. Gli imperiali schierarono sul campo 50.000 soldati, mentre gli egiziani circa 75.000, ma la maggior parte erano coscritti e miliziani, perché il meglio era stato perduto in Siria e Tunisia.
Dopo appena tre ore di scontri la vittoria totale arrideva all’autokator dei romani, mentre la morte sul campo di Sayf-ad-Din, di due dei suoi figli e della maggior parte dell’aristocrazia guerriera mamelucca sanciva il tracollo definitivo dell’Egitto. L’indomani la capitale si arrese senza combattere o porre condizioni, a parte la misericordia del basileus.
L’Impero Romano ora si estendeva per oltre 3.000 km², quasi come ai tempi dell’ultimo grande imperatore di lingua latina, Ioustinianos, che aveva regnato su Costantinopoli nove secoli prima. Per ricalcare gli antichi confini mancava una buona parte dell’Italia centro-settentrionale, le isole maggiori del Mediterraneo occidentale e alcune terre in Anatolia orientale, Caucaso e Mesopotamia. Ormai anche Roma, seppur ancora in mano agli scismatici cattolici, era a portata di mano.
In meno di tre anni Alexios aveva più che raddoppiato i suoi possedimenti, sconfiggendo numerosi nemici sia ad oriente che ad occidente. Fu proprio in merito di ciò che, già in vita, venne iniziato a chiamare “megas“, il grande.
In una fredda ma limpida mattina del 2 marzo del 1490, dopo aver nominato una serie di governatori per le recenti conquiste in Palestina, Egitto e Africa settentrionale, il sovrano si concesse un ritorno trionfale nella sua capitale, arrivando dal mare con oltre cento galee e galeoni da guerra.
La cerimonia fu condotta con uno sfarzo degno del tempo dei Cesari antichi.
Alexios, sbarcato alla testa della sua guardia, marciò per le sacre vie della Regina delle Città vestito di porpora e oro, portando sul capo un nuovo diadema imperiale commissionato appositamente per celebrare le sue gesta. Il basileus era stato molto chiaro quando aveva affidato il lavoro ai migliori orafi che vi fossero nelle terre di Asia ed Europa. Ben quattro maestri dell’arte della forgiatura e cesellatura di oro, argento e platino e tre esperti nell’intaglio di pietre preziose vennero chiamati da Damasco, Isfahan, Firenze, Anversa, Parigi, Praga e perfino dalla lontana Dehli.
La corona era larga 45 cm di diametro e alta 8, con un peso di quasi un chilo e mezzo, suddivisa in sei piastre laterali – tre per lato – e una centrale più grande, con una riproduzione perfetta di un’aquila bicipite che stringeva un globo e una spada, sormontata dalla croce patriarcale ortodossa. A decorare il monile erano state realizzate in argento finissimo – collocate all’interno delle sei piastre laterali – le scene della vittoriosa difesa di Costantinopoli, le vittorie navali contro i latini, le guerre contro i turchi, la restaurazione della capitale, la scoperta della Colombia e la liberazione di Gerusalemme, dove si era recato subito dopo la vittoria in Egitto, quando aveva pregato sul luogo della passione del Cristo prima di tornare sul Bosforo.
Tutt’intorno a questo lavoro di pregevolissima oreficeria erano state collocate ben 32 gemme di piccole dimensioni – nelle piastre laterali – e 4 più grandi nella centrale, tutt’intorno all’aquila realizzata in oro e platino. Queste erano granati, ametiste, lapislazzuli, smeraldi, rubini e zaffiri.
Quando il diadema venne sfoggiato dal basileus per le vie di Costantinopoli, l’impressione fu grandissima, unita al fatto che il sovrano svettava su di un carro laminato d’oro e decorato con alloro, drappi porpora e ghirlande, trainato da quattro cavalli bianchi. Alexios stava immobile, con una lunga lancia nella mano destra e un grande scudo con il monogramma del Chrismon tenuto con la sinistra, mentre le redini erano state affidate a Basileios, il primogenito ed erede, che spartiva il cocchio imperiale con l’augusto padre in una potente immagine di propaganda politica.
Dietro di loro, a cavallo, seguivano gli altri grandi comandanti: Mikhael Doukas, Leon Phokas e Cristoforo Colombo.
Appena dopo sfilava la Guardia Imperiale al completo e le rappresentanze di ben sette legioni, alcune centurie di auxilia e gli alleati europei e coloniali. A chiudere il corteo stavano 10.000 prigionieri napoletani, papalini, veneziani ed egiziani.
In onore al coraggio dimostrato, alla testa dell’esercito vittorioso marciava la prima coorte della III Legio Invicta, che aveva prima difeso eroicamente Tunisi e poi aveva marciato fino all’Egitto, perdendo quasi 2/3 degli effettivi ma senza cedere mai, tenendo fede al proprio nome.
La città africana, dopo il durissimo assedio, era quasi completamente distrutta. Furono così chiamati coloni da diverse parti dell’impero e fu rifondata quasi da zero. Il nuovo insediamento venne ribattezzato Cartagine, recuperando il nome dell’antica città punica, prima nemica e poi metropoli tra le più belle, ricche e sofisticate dell’occidente romano.
Per commemorare i caduti e le conquiste, il basileus decise di far erigere in un nuovo foro a cui diede il proprio nome un gigantesco mausoleo, una colonna in porfido rosso alta 20 metri chiamata Stele Nike, ovvero la Colonna della Vittoria. Alla sua base, realizzata in pregevole marmo grigio, vennero eternate le gesta delle campagne del 1488 e del 1489.
Nella primavera del 1490 una delegazione di cavalieri romani, italiani, valacchi, moldavi, bosniaci e dell’Ordo Fratrum Hospitalis Sancti Ioannis Hierosolymitani – conosciuti al tempo come cavalieri di Rodi – propose all’imperatore di fondare un ordine di cavalleria sul modello occidentale. Il loro magister generalis Pierre d’Aubusson propose una fusione del suo ordine con il nuovo, la sua personale conversione all’ortodossia e la consegna della fortezza e della flotta dei cavalieri sull’isola in cambio dei titoli di megas didaskalos, di vescovo di Creta e Rodi e il comando della nuova entità monastico-militare.
Alexios, da sempre affascinato da tutto ciò che era occidentale, oltre che ben conscio dell’importanza dell’annessione di Rodi, accettò e aggiunse dal suo patrimonio personale doni e prebende a tutti gli alti ufficiali cattolici dell’ordine di Rodi che volevano ritornare allo stato laicale, invece che confluire nel nuovo ordine ortodosso. In tal modo evitò l’insorgere di un conflitto interno tra i latini sull’isola, garantendo un passaggio di consegne pacifico. Ovviamente Innocenzo VIII vide quest’azione come l’ennesimo affronto al suo rango, scomunicò d’Aubusson e rifondò un’ordine monastico cattolico con i cavalieri giovanniti di stanza in occidente, dichiarando decaduta la sede di Rodi e spostandola a Roma, presso il Vaticano.
Alla fine il 15 giugno del 1490 nacque, con una sontuosa cerimonia tenutasi ad Aghia Sophia, alla presenza dell’imperatore e dei quattro patriarchi di Costantinopoli, Antiochia, Gerusalemme e Alessandria, l’Ordine di Cavalleria di Christos Pantokrator.
La regola dell’Ordine era ferrea e basata su leggi severe. Gli aspiranti potevano essere accettati solo se si fregiavano di un titolo nobiliare e dovevano rinunciare ai loro possedimenti, che venivano affidati agli amministratori dell’Ordine. Chiunque fosse di estrazione sociale inferiore poteva militare tra i sergenti, che formavano i ranghi inferiori che servivano in guerra a piedi o a cavallo.
In onore dei cavalieri di San Giovanni le divise mantennero il colore rosso, ma al posto delle croci latine apparvero le due lettere greche X “chi” e P “ro” sovrapposte e ricamate con fili dorati, che formavano il monogramma di Cristo. Il simbolo era stato ideato oltre undici secoli prima dal primo Konstantinos, che lo fece dipingere sugli scudi dei suoi soldati come segno benaugurale in battaglia. I sergenti portavano invece casacche nere con il monogramma in lettere di filo argentato.
Le reclute dovevano addestrarsi tutti i giorni, con qualsiasi tipo di tempo o condizione atmosferica. Dovevano pregare tre volte al giorno e tenere un regime di vita frugale e rispettoso con i compagni.
Nonostante queste severe disposizioni i cavalieri erano estremamente arroganti con chiunque altro. Erano i difensori del volere di Dio in terra. Erano i primi a combattere e gli ultimi a ritirarsi dalla battaglia. Le uniche due persone al mondo alle quali dovevano rispondere erano, in ordine di importanza crescente, il megas didaskalos e l’imperatore, che loro considerarono sempre come il Vicario di Dio sulla terra e isapostolos, primo tra tutti gli apostoli.
In breve tempo l’Ordine diventerà una forza politica, militare ed economica di primo piano all’interno dell’Impero Romano. Le loro sedi furono istituite a Costantinopoli, Tessalonica, Antiochia, Alessandria, Cartagine e Gerusalemme, e in futuro anche a Roma, Siviglia, Venezia e perfino nelle colonie d’oltreoceano.
Il numero dei cavalieri aumentò costantemente e nel 1502 – secondo la stima effettuata dal megas logothetes Niccolò Machiavelli nel suo trattato sugli eserciti romani – raggiunse la quota di 1.800 cavalieri e 3.000 sergenti. Nonostante il massacro subito pochi anni dopo durante la battaglia di Skupi contro il ribelle Romanos Doukas – in cui troveranno la morte 600 cavalieri e 1.800 sergenti – l’Ordine continuò a prosperare per almeno un secolo e mezzo, per iniziare una lenta decadenza che si è protratta fino ai nostri giorni, dove ha solo una valenza onorifica e cerimoniale per gli aristocratici delle famiglie più blasonate dell’impero.
Con le nuove entrate commerciali e il tesoro reale egiziano il basileus finanziò la fondazione di chiese, ospedali e altri edifici pubblici in molti dei centri di recente conquista, mostrando la massima tolleranza per i suoi numerosissimi nuovi sudditi musulmani, che poterono ben presto ambire a ricoprire cariche di primo piano nella burocrazia e nell’esercito.
Furono inoltre stimolate e finanziate le arti della poesia, la letteratura sacra e profana, la pittura, la scultura, l’astrologia, l’alchimia e le scienze tecniche. La Megas Akademeia di Costantinopoli venne inaugurata da Basileios, grande mecenate della cultura, nel 1490, mentre altre importanti sedi d’insegnamento vennero istituzionalizzate nei dieci anni successivi ad Alessandria, Antiochia, Atene, Napoli, Cartagine e Damasco.
Venne persino riaperto il teatro, con la riscoperta dei grandi commediografi e tragediografi antichi. Se in principio le prime rappresentazioni avvennero solo all’interno della corte, nonostante le proteste delle frange più conservatrici e bigotte della Chiesa ben presto l’interesse si espanse a macchia d’olio ben oltre l’aristocrazia e Alexios decise di riconoscere il giusto prestigio a questa forma di intrattenimento. Nel 1491 sarà fondato all’esterno delle mura del palazzo imperiale il Basilikos Theatron, che si aggiunse come fonte di svago oltre al tradizionale ippodromo.
L’Impero Romano fu di nuovo suddiviso in quattro dioikesis, legate ai quattro grandi patriarchi di Costantinopoli, Antiochia, Alessandria e Gerusalemme. Per ritornare all’originale pentarchia, ovvero il sistema di cinque grandi vescovi che dovevano governare l’oikoumene cristiano, mancava solo Roma. Il patriarca di Costantinopoli aveva il controllo su Grecia, Balcani, Italia meridionale, isole dell’Egeo e parte dell’Asia Minore. Quello di Antiochia il resto dell’Anatolia e la Siria. Quello di Gerusalemme la Palestina e la penisola del Sinai. Quello di Alessandria l’Egitto, l’Africa e la Spagna romana.
I nuovi themata di Palestina, Egitto, Libia, Africa e Longobardia furono la testimonianza diretta dell’espansione compiuta.
Sia il sultano che il papa erano stati piegati, il primo era scomparso per sempre e il secondo si era ritirato a leccarsi le ferite nella superba città da lui corrotta. Ma il suo tempo come decadente signore della Urbs Aeterna era ormai arrivato quasi alla fine.
Alberto Massaiu
5 Comments
Salute, Alberto. Come sempre articolo interessantissimo da leggere tutto d’ un fiato. in un disegno si vede una fase di una battaglia in mare, con un primo piano una vela con l’aquila bicefala su campo giallo. L’aquila bicefala era lo stemma dell’Impero bizantino sino alla morte di San Costantino Xi Paleologo ultimo imperatore che mori nel 1453 difendendo Costantinopoli. L’aquila bicefala si usò sino alla caduta di Morea nel 1460. può esser che si usò anche in quella battaglia da te descritta?
Si, l’idea è che lo stendardo imperiale – che tra il XIV e XV secolo venne latinizzato, con uno stemma all’occidentale – si standardizzi in due formati: l’aquila bicefala (anche se nella mia idea sarà dorata in campo rosso-porpora) e la croce d’oro con le quattro beta greche a simboleggiare il motto: Βασιλεύς Βασιλέων, Βασιλεύων Βασιλευόντων, sempre su campo rosso-porpora 😉
Salute Alberto sai dirmi dove si può trovare in qualche Chiesa o sito in Sardegna l’aquila bicefala
Quesito interessante. Secondo me se c’è qualcosa risale al periodo asburgico di Carlo V, che la adottò per la sua araldica mista spagnolo-austriaca. Purtroppo l’aquila bicefala romano-orientale apparve solo nel tardo medioevo a Costantinopoli, quando ormai la sua influenza in Sardegna era tramontata da tempo. In tal caso potrebbe esserci qualcosa a Cagliari o ad Alghero, città regie del tempo.
Salute Alberto., ho voluto appositamente non darti subito la notizia, ma nel santuario di S.Costantino a Sedilo a fianco dell’altare è scolpita una bellissima aquila bicefala. Altra aquiila bicefala è nell’Arma della famiglia Cedrellas. Tale onore fu dato a a tale famiglia dall’Imperatore Carlo V peril loro aiuto e partecipazione nella spedizione ad Algeri e per la liberazione di 2000 sardi dalla schiavitù. E qui la storia si fa interessante…..