Ricordo che il mio primo, significativo impatto con il mondo anglosassone risale a quando avevo dodici anni, nell’oramai lontano 2001. Era uscito di recente il primo capolavoro cinematografico di Peter Jackson, la Compagnia dell’Anello, ed ero in pieno loop fantasy. Esistevano ancora gli ultimi VHS e ricordo che in edicola avevo costretto mio padre a comprare uno dei primi pezzi dell’immenso franchise che si sviluppò sull’onda del successo del film e la riscoperta dei lavori di Tolkien. Nello specifico era un documentario che, appoggiandosi al libro, raccontava le origini storiche e culturali della Terra-di-Mezzo.
Ad un certo punto, dopo aver passato una buona mezz’oretta a scoprire che il buon J.R.R. era un professorone di Oxford appassionato di lingue e tradizioni antiche nordeuropee come quella finnica, norrena e anglosassone, il documentario passò a raccontare del tesoro di Sutton Hoo.
Per chi non lo sapesse, questo è un sito archeologico, nello specifico un’area cimiteriale anglosassone del VI-VII secolo d.C. portata alla luce nel 1939. Una scoperta straordinaria che aprì alla conoscenza di parti intere dell’alto medioevo inglese quasi completamente oscuri, appena successivi al periodo di guerre continue tra britanni e invasori angli, juti e sassoni che fanno da sfondo alla mitica (o forse storica) figura di Re Artù, di cui ho trattato in quest’altro articolo.
La cosa che più mi colpì di quei fotogrammi fu il celebre elmo di un guerriero, seppellito 1.500 anni fa all’interno di un’immane nave funeraria interrata sotto un tumulo, secondo i dettami religiosi di quell’antica popolazione germanica.
Il reperto, che si rifaceva al modello tardo-romano definito spangenhelm, irradiava un’autorità e un potere magnetico, soprattutto a causa delle grandi orbite nere della maschera frontale, del volto stilizzato con naso, baffi, labbra e ampie sopracciglia decorate e il rinforzo centrale – a protezione del capo da colpi di spada e ascia – decorato con un motivo di serpente o drago.
Fu questa suggestione, insieme alla lettura delle splendida saga di Bernard Cornwell ispirata al mondo arturiano e trattata in chiave pseudo-storica, a farmi interessare alla Britanna del V-VI secolo. Una terra lacerata, che portava dentro di sé le vestigia della grande e sofisticata civiltà romana, ma anche il retaggio celtico dei britanni romanizzati. Abbandonata da un Impero d’Occidente in agonia, cristianizzata in superficie all’interno delle città e nelle corti ma ancora pregna di riti, tradizioni e usanze legate ai vecchi dei tra la maggioranza della popolazione, sottoposta alle feroci incursioni di pitti, iberni e scoti e, infine, bramata dalle popolazioni germaniche e pagane di Frisia, Sassonia e Jutland.
I britanno-romani combatterono una disperata battaglia per preservare la loro terra. Per tutto il V e per la prima parte del VI secolo conservarono una buona parte dell’isola – fu l’epoca delle figure di Aurelius Ambrosius, l’ultimo dei romani, e forse Artù – ma alla fine, complice anche le lotte intestine tra i signori della guerra celtici, gli invasori anglo-sassoni riuscirono prima a creare delle solidi teste di ponte in Anglia Orientale, per poi allargarle sempre di più, ricacciando i britanni in quello che diventeranno il Galles e la Cornovaglia.
Da quel momento, e per circa quattro secoli – da metà del 400 fino all’850 circa – i nuovi venuti si convertirono pian piano al cristianesimo e fondarono sette regni di importanza e grado differente, ribattezzando la Britannia con il nome di Angleland, o terra degli angli.
Gli storici hanno soprannominato il sistema da loro creato come un’eptarchia, ovvero un complesso – parlare di confederazione mi pare abbastanza azzardato, visto che si facevano in continuazione la guerra tra loro – di 7 regni. I più grandi e potenti erano quello di Mercia, di gran lunga il più popoloso e florido, al centro dell’isola; subito dopo venivano quello di Northumbria e di Wessex, quasi pari in dimensioni e prestigio alla Mercia. Dopo questi tre, molto più piccoli e spesso soggetti alle influenze dei tre maggiori, stavano i regni dell’Anglia Orientale, dell’Essex, del Sussex e del Kent.
Va anche detto che, per gli studiosi più recenti, questa classificazione pecca di eccessiva semplificazione, tanto che è caduta in disuso, anche perché è stato fatto notare che i “regni” – forse sarebbe meglio chiamare potentati – anglosassoni furono, in quei quattrocento anni, molti di più, e a seconda delle oscure vicende dell’epoca – scarse in fonti scritte – spuntavano e morivano come funghi quando un capo diventava abbastanza forte e autorevole per proclamarsi signore di un castello, una cittadina o una striscia di terra.
Secondo le interpretazioni degli storici tutti i regni che finiscono con –sex vennero fondati da genti di stirpe sassone come l’Essex, il Sussex e Wessex, mentre il Kent, l’Anglia, la Mercia e la Northumbria da juti e angli. Ad ogni modo tutti e tre i popoli avevano radici culturali e probabilmente profondi legami tra loro, tanto che si amalgamarono facilmente e condivisero la stessa lingua, che sopravvivrà alle invasioni danesi e alla conquista normanna.
I primi sbarchi – e quindi di primi regni – ad essere fondati furono ad est, e la loro espansione coincise con la contrazione dei regni britanno-romani di Dumnonia – via via occupata dal Wessex – del Gwent e del Powys – che vennero in buon parte annessi dalla Mercia, che strappò loro la regione ad oriente del fiume Severn, definita il “paradiso del Powys” nel VII secolo, dopo un’infinita serie di guerre, assedi e scorrerie.
Il primo leader sassone di rilievo fu di sicuro Ælle, un condottiero che fondò il regno di Sussex insieme a tre figli, tutti impavidi e feroci guerrieri pagani, che sbaragliarono le milizie celtiche, massacrarono gli abitanti, distrussero monasteri e villaggi e annichilirono i primi regoli britanni locali tra il 477 e il 491 circa.
Fu il primo capo sassone ad essere citato come bretanwealda, ovvero signore della Britannia, anche se all’epoca i regni britanno-romani erano ancora sufficientemente forti da contenere sulle coste gli invasori.
Il termine, ad ogni modo, andrà pian piano ad indicare non il rango di re, ma quello più prestigioso di re dei re, ovvero indicando una sorta di leadership conquistata sul campo di battaglia o tramite alleanze matrimoniali sugli altri regni anglo-sassoni. Questo status era simile a quello di Ard-Rí na hÉireann o “alto re d’Irlanda”, che forse si richiamava alla figura dell’imperatore romano di cui le genti dell’epoca avevano ancora un certo ricordo.
Il rango di bretanwealda non passava quasi mai né di padre in figlio, né all’interno dello stesso regno, anche se i più ambiziosi sovrani tentarono di istituzionalizzarlo. Il più celebre tra tutti fu di certo Ecgbehrt del Wessex – reso celebre nelle prime stagioni della serie tv di Vikings – che regnò dal 802 all’839, all’inizio delle invasioni normanne, conquistando la Mercia il Kent, il Sussex e l’Essex, sconfiggendo danesi e gallesi e stabilendo una leadership incontrastata sull’isola, che divenne la base delle pretese successive del Wessex a fondare il regno di Angleland – che pian piano venne corrotto in England, nome che ancora ora identifica l’Inghilterra.
L’Anglia Orientale, la Northumbria, la Mercia, il Kent, il Sussex e l’Essex subirono la seconda, devastante ondata di invasioni vichinghe a cavallo del IX secolo. La leggenda narra che queste vennero scatenate dall’assassinio di Ragnarr Loðbrók, un grande sovrano norreno ucciso crudelmente dal re Ælle di Northumbria nel 865 circa. I suoi figli Björn, Ivarr, Hvítserkr, Sigurðr e Ubbe, uniti sotto lo stendardo paterno del corvo, animale sacro ad Óðinn, riunirono una possente armata che passò alla storia come la mycel hæþen here, o grande schiera pagana.
Quest’ultima, che contava tra i 3.000 e i 5.000 uomini, probabilmente divisi in più ondate, oltre che centinaia di navi con teste di drago, serpente, lupo e orso, conquistò la Northumbria nell’866, l’Anglia Orientale nell’870 e nell’874 portò al collasso persino la Mercia. Unico paese a reggere alla loro straripante espansione fu proprio il Wessex, sotto la guida del pio sovrano Ælfred, che passò alla storia come “il grande”, in quanto nell’878 sconfisse le orde danesi presso Ethandun, replicando una strategia che ricordava le antiche legioni romane, facendo formare ai suoi uomini un disciplinato muro di scudi che gli permise infine di prevalere.
Da quel momento, tutte le terre al di là del potere del Wessex passarono ai vichinghi, che pian piano si convertirono nel secolo e mezzo successivo al cristianesimo, fondando il Danelaw, ovvero la terra su cui regnava la legge danese.
La Mercia, che tra il VII e l’VIII secolo era diventata lo Stato più potente dell’isola, non si riprese più dalle razzie dei norreni, e venne spartita tra questi e i sassoni del Wessex, che furono gli unici ad avere una possibilità di unificare l’antica Britannia. Nel Anno Domini 897, alla fine del regno di Ælfred, tutti i regni sassoni erano stati posti sotto la sua corona, cosa che permise a suo nipote Æðelstan di considerarsi de facto come il primo re di tutta l’Inghilterra tra il 927 e il 939.
Il crepuscolo del sistema di governo autoctono anglo-sassone passò dall’ennesima invasione scandinava, che vide Knútr il grande unire sul proprio capo le corone di Danimarca, Norvegia e Inghilterra tra il 1016 fino al 1035, e il pacifico regno di Ēadƿeard il confessore tra il 1042 e il 1066.
Il suo dominio, però, si concluse senza figli, aprendo la strada a ben tre pretendenti e alle vicende che portarono alla storica e decisiva battaglia di Hastings, di cui ho scritto in questo articolo. Harold Godwinson, earl di Wessex e sassone purosangue. Haraldr Harðráði, re di Norvegia con pretese sulle terre danesi d’Inghilterra e infine il duc di Normandia William, chiamato all’epoca “il bastardo” ma poi promosso, in seguito alla sua vittoria finale in questo scontro a tre, al ben più prestigioso nomignolo di “il conquistatore”.
Con lui nasceva l’Inghilterra moderna, che entrava a pieno diritto nel grande gioco delle future Nazioni europee.
Alberto Massaiu
2 Comments
Come sempre, sei riuscito a scrivere un articolo denso di contenuti e dallo stile scorrevole su un periodo storico complesso – ma incredibilmente affascinante – e, a mio avviso, rimasto troppo a lungo “ignorato” dalla storiografia ufficiale. Ti faccio i miei complimenti!
Se me lo consenti, mi permetto di inserire alcune curiosità inerenti l’elmo di Sutton Hoo.
Tempo fa mi è capitò di guardare un documentario su History Channel sul sito archeologico nel quale è stato ritrovato il manufatto ed è stata avanzata l’ipotesi secondo la quale gli artigiani che lo hanno realizzato si siano in realtà ispirati agli elmi dei catafratti inquadrati nei reparti della cavalleria pesante romana, che furono inviati in Britannia per contrastare le incursioni dei Sassoni sulla costa orientale dell’isola fra il III e il IV secolo dopo Cristo. Pensi che possa essere un’ipotesi plausibile?
Infine, non so se tu ci abbia mai fatto caso, ma nel film “Il gladiatore” è presente una scena nella quale il protagonista si ritrova a dover scegliere fra una selezione di elmi prima di fare il suo ingresso nell’arena del Colosseo; fra gli esemplari esposti, vi era proprio una copia esatta dell’elmo di Sutton Hoo. Inutile aggiungere che la cosa mi abbia fatto quanto meno sorridere!
Di certo l’elmo sassone si ispirò al ricordo degli elmi (dovevano ancora esservene tanti in buone condizioni, conservati di generazione in generazione da famiglie di guerrieri) realizzati per ufficiali e soldati romani, la pietra di paragone per ogni guerriero europeo di quei tempi bui. Sapevo che in Britannia vennero stanziate truppe di cavalleria pesante e leggera sarmata, fatto che ha ispirato il film (in maniera alquanto libera, ma suggestiva) King Arthur con Clive Owen. Le truppe britanno-romane che combatterono i sassoni furono per certo ispirate dai vecchi metodi militari ed equipaggiamenti latini, e penso che i signori della guerra germanici pagassero anche a carissimo prezzo manufatti di origino o ispirazione tardo-romana anche nel VI e VII secolo. Quello del Gladiatore, un film che io adoro, è purtroppo pieno di licenze poetiche e suggestioni che farebbero (e hanno fatto) drizzare i capelli in testa ad uno storico ortodosso, in effetti non ci avevo fatto caso alla scena, farò un controllo per verificare questo particolare. Grazie mille per il tuo commento e scusa il ritardo nella risposta, un caro saluto e a presto 😉