Mentre L’Impero Romano prosperava, gravi e imminenti fortunali si addensavano nel cuore dell’Europa, sempre foriera di disgrazie per i Cesari fin dai tempi lontani di Teutoburgo. Nell’Anno Domini 1618 era scoppiato un conflitto in terra tedesca, che coinvolgerà e causerà tante pene ai romani negli anni a venire.
A Praga, capitale della Boemia, i sudditi protestanti si ribellarono alle angherie e all’esosità dei governanti cattolici mandati dal kaiser di Vienna Philipp III. Due suoi rappresentanti, recatisi al castello cittadino per imporre nuovi dazi e leggi alla nobiltà boema, vennero letteralmente scaraventati dalle finestre del palazzo di Vysehrad, dando il nome ad un evento passato alla storia come “Defenestrazione di Praga”.
Questi, dopo una caduta di oltre venti metri, si salvarono cadendo in deposito di letame e poterono riferire al loro signore della ribellione. I fieri aristocratici e notabili boemi decisero di dichiarare decaduto il dominio cattolico e asburgico sulla loro terra, offrendo la corona al giovane, avventato e protestante kurfürst del Palatinato, Friedrich. Questi, senza pensare alle future conseguenze ma vedendo solo il beneficio momentaneo di diventare sovrano in Boemia, tradì il suo giuramento di fedeltà all’imperatore tedesco e accettò la corona. Purtroppo gli eventi gli avrebbero regalato un triste e inglorioso destino, visto che la durata del suo regno fu breve e funestata dalla guerra.
Philipp III chiamò alle armi i suoi eserciti, eredi della kaiserarmee di Karl V, da tutti i suoi domini personali di Austria, Boemia cattolica, Ungheria, Fiandre e Franca Contea. Inoltre poté contare sulle forze militari della Liga Catholica, composta dai nobili fedeli al pontefice di Avignone, con a capo l’herzog di Baviera, Maximilian. Due eserciti alleati attaccarono sia il Palatinato, sia la Boemia. I due comandanti che vennero scelti per l’occasione furono il cattolicissimo generale Johann T’Serclaes von Tilly per la Liga, mentre per la kaiserarmee venne nominato un possidente boemo, all’epoca semisconosciuto ma che farà ben presto molto parlare di sé, chiamato Albrecht Wenzel Eusebius von Valdštejn, poi tedeschizzato in Wallenstein.
Il primo, di buoni natali e già abbastanza anziano all’inizio del conflitto, era considerato il miglior comandante cattolico in tutta Europa. Prudente ma metodico, aveva la capacità di risolvere molti dei problemi – soprattutto di natura economica – che assillavano le forze della maggior parte degli Stati al di là dei confini romani, usando solo il suo carisma e la pacatezza. Inoltre era molto devoto – tanto da meritarsi il soprannome di “gesuita in armatura” – ed estremamente fedele al Reich e al suo kaiser.
Il secondo, invece, univa la provenienza dalla bassa aristocrazia terriera boema ad uno spregiudicato opportunismo. Si era sposato due volte con donne molto più anziane e ricche di lui, aveva aspettato con calma la loro dipartita da questo mondo e, una volta divenuto ricco, aveva investito il tutto in terre e industrie, incrementando ancora di più la sua fortuna. Nonostante gli studi nella Altdorf luterana, non si era fatto scrupolo di convertirsi al cattolicesimo e di schierarsi con Philipp appena aveva compreso dove tirava il vento, venendo premiato per quest’atto con terre e titoli strappati agli ex correligionari protestanti. Alle sue spiccate doti come la sagacia, il coraggio, la tenacia e una spiccata abilità militare si affiancavano una sfrenata ambizione e gusti per l’esoterismo e l’astrologia. Inoltre, cosa molto strana per il fervore religioso nella Germania del tempo, non dava molto peso alla fede personale nella scelta di collaboratori e subordinati, ma alla loro bravura ed efficienza – nel suo entourage vi si poteva trovare un cattolico come un luterano, e perfino alcuni ortodossi e musulmani.
Ma torniamo a Basileios, che seguiva con scarso interesse il caos in terra tedesca, affascinato com’era dall’espansione coloniale che progrediva ad intensissimo regime. Parte integrante del suo progetto era il sogno di un canale nella penisola del Sinai, progetto che gli stava più a cuore di tutto in quegli ultimi anni. Ma non fece in tempo a vedere nulla di più dei primi lavori inaugurali, infatti, all’inizio dell’Anno Domini 1623, improvvisamente quanto inaspettatamente, spirò.
Teoricamente non ci sarebbe stato nessun problema alla successione, visto che i figli non mancavano. Infatti, come abbiamo già avuto modo di vedere nella nostra cronaca, il grande sovrano nella sua vita ne aveva avuti ben quattro: Isakios, Manouel, Alexios e Romanos.
Purtroppo il primogenito, Isakios, aveva una strana forma di pazzia, che si manifestava con pericolosi attacchi di furia omicida, che erano costati la vita ad alcuni servitori del palazzo. Questi fatti erano stati insabbiati per non sporcare il buon nome della famiglia imperiale, ma di sicuro egli non era la persona adatta a reggere le sorti dell’impero. Per tale ragione il padre, nel testamento, decretò che la corona dovesse andare al secondo figlio Manouel, che secondo l’opinione di tutti sarebbe stato un grande imperatore.
Purtroppo, Isakios, che nonostante la malattia era scaltro e intelligente, grazie alla corruzione seppe del cambio di testamento poco prima della morte del padre e si preparò di conseguenza. Basileios chiuse gli occhi il 4 di gennaio, circondato dai figli e dalla moglie Elizabeth d’Inghilterra. Già da alcune ore il suo primogenito era all’opera: corrotto il patriarca Kyrillos, si fece incoronare in tutta fretta ad Aghia Sophia. Appena fu conclusa la celebrazione, con il diadema imperiale sul capo, si diresse verso la camera dove giaceva il padre. Si racconta che proprio mentre Basileios esalava l’ultimo respiro, Isakios entrò nella camera, scortato da dieci guardie variaghe. Tutti dovettero fare a quel punto buon viso a cattivo gioco e rendere omaggio al nuovo augusto: Isakios IV.
I primi provvedimenti del nuovo signore dei romani furono di natura familiare. Nel pomeriggio spedì la madre in un convento sulle Isole dei Principi, i bellissimi lidi dove erano inviati i familiari pericolosi durante le successioni al trono. Morirà lì sola e sconsolata un anno dopo. Il 15 Manouel fu inviato a contenere una ribellione locale nel Caucaso, con pochi soldati al seguito e molte promesse di ausilio futuro. Con un ultimo colpo di genio crudele divise i due fratelli minori, spedendo Alexios a Cipro e Romanos in Sardegna.
A questo punto dette una svolta anche in politica estera, iniziando a intessere una trama diplomatica con Philipp III per un intervento economico e militare in terra tedesca.
Ma a rovinare i nuovi piani del basileus furono proprio i suoi fratelli. Nonostante le speranze di Isakios, infatti, Manouel non solo rese sicure le frontiere di Armenia e Georgia, ma operò anche nelle terre a nord del Caucaso in collaborazione con i russi e i tartari di Crimea, ottenendo la pacificazione di tutto lo scacchiere operativo a nordest dell’impero.
Romanos II, tsar di Russia e alleato di Costantinopoli, invitò Manouel a Kiev, da dove stava organizzando una campagna contro i polacchi, e lo trattò come se fosse lui il basileus. Isakios divenne semplicemente furioso, e allo stesso tempo temette un’imminente elevazione del fratello alla porpora. Stranamente Manouel fu colpito da una strana malattia, che lo portò rapidamente alla morte alla fine di dicembre. Il morbo fatale fu così rapido che molti credettero che fosse stato un avvelenamento da parte di Isakios, e forse fu proprio così.
Temendo di poter fare la stessa fine, Alexios fuggì con alcuni seguaci da Cipro, sbarcò in Siria e si proclamò ad Antiochia basileus dei romani. In febbraio, complice la solidarietà popolare per il defunto Manouel e l’astio verso Isakios, aveva potuto radunare un esercito che si apprestò a prendere posizione in Anatolia.
Per i primi di aprile tutti i themata orientali erano nelle mani di Alexios, che si era accattivato ancora di più la simpatia del popolo e dei nobili di provincia per il suo carattere buono e compassionevole, unito alla generosità, che contrastavano nettamente con il regime di terrore che si era instaurato a Costantinopoli, dove Isakios vedeva congiure e traditori dietro ogni angolo. Il 12 aprile l’armata di Alexios, che contava sei legioni e migliaia di ausiliari a piedi e a cavallo, era dalla parte opposta del Bosforo, di fronte alla capitale.
L’unica cosa che mancava a quest’ultimo era una flotta, visto che la Neon Nautikon si trovava a Costantinopoli. Il megas droungarios Walter Releigh aveva deciso di parteggiare per Isakios, schierando le sue 300 navi nel Corno d’Oro. In cambio quest’ultimo gli promise l’elezione a megas domestikos ton scholon.
Isakios per tutto il resto del tempo non si era mosso, e avrebbe avuto poco tempo da vivere se il miglior generale dell’impero non fosse intervenuto a sostenerlo. Mikhael Doukas, magister militum in Africa, armò la sua flotta e le truppe per soccorrere Costantinopoli. L’imperatore esultò per quell’insperato colpo di fortuna ma, se avesse conosciuto l’immensa ambizione e brama di potere del suo salvatore, avrebbe iniziato a preoccuparsi di riappacificarsi col fratello, invece che mettersi nelle mani del potente comandante.
Mikhael sbarcò a Gallipoli il 26 aprile, e con i suoi 30.000 soldati si accampò fuori dalla capitale. Il 27 fu accolto trionfalmente in città e fu nominato kaisar da Isakios, titolo secondo solo a quello dell’imperatore e ormai da tempo in disuso, che venne rispolverato per l’occasione.
La cosa contrariò enormemente il droungarios Releigh, che però non ci poté fare nulla. Il 29 la sua armata attraversò il Bosforo e si dispose davanti alla schiera di Alexios. Il 30 fu dato l’ordine di attacco. Lo scontro fu aspro e sanguinoso, visto che entrambe le armate si batterono per l’annientamento dell’avversario. L’ottantina di pezzi d’artiglieria per parte seminarono morte e distruzione tra i fanti e le cariche dei cavalieri corazzati e leggeri furono bloccate e portate alla sconfitta dalle raffiche di piombo sparate dai telebolontarioi legionari.
Alla fine accadde che Alexios, spintosi in avanti per incoraggiare i suoi, fu preso di mira da un fuciliere della Guardia Imperiale: il colpo trapassò il suo elmo e gli provocò una morte istantanea. Vedendo la caduta del loro comandante i soldati si arresero in massa. 10.000 di loro furono presi prigionieri.
Mikhael avrebbe voluto perdonarli ma Isakios fu durissimo: un uomo ogni dieci fu impiccato, tutti gli ufficiali superiori furono impalati e i generali crocifissi. Il massacro seminò sgomento, paura e risentimento nei ranghi dell’esercito, che iniziò a dare segni di non sopportare più gli atteggiamenti del basileus. In quanto al corpo di Alexios, questo venne sotto l’ordine diretto di Isakios tumulato in segreto, in un monastero presso Nicea, e non all’interno della cripta dedicata alla famiglia imperiale, come se non ne fosse degno.
Fu il colmo. Il 13 maggio si festeggiava il compleanno dell’imperatore e durante i festeggiamenti Isacco volle ispezionare le legioni schierate nel Campo di Marte al di fuori delle mura cittadine. Tutto andò bene fino al momento in cui Isakios decise di passare tra i soldati per premiarne personalmente alcuni. Quando si trovò a visionare i legionari della XI Legio Armena, che era stata decimata per essersi ribellata con Alexios, un gruppo di soldati iniziò a girargli intorno. Quando lui li notò era troppo tardi e in un vortice di acciaio e carne lacerata finì la vita del folle autokrator.
Il suo corpo massacrato fu calpestato dai legionari della undicesima, mentre il resto delle legioni innalzava sugli scudi un nuovo imperatore: Mikhael Doukas. Molti hanno per questa ragione insinuato di una sua possibile complicità con questo tirannicidio, come fu definito da molti già a quell’epoca, ma nessuno si prese la briga di indagare o lamentarsi. Isakios era veramente odiato. Mikhael IX, anche se c’erano stati alcuni ribelli subito eliminati, era il primo basileus che non faceva parte della dinastia dei Komnenoi Palaiologoi, che governava l’Impero dal 1463.
La crisi dinastica e istituzionale portata dalla guerra civile ebbe la sua prima, gravissima conseguenza, nella perdita dell’Inghilterra. Infatti quando Elizabeth aveva dovuto sposare Basileios nel 1571 era riuscita a convincere il marito a tenere separate le corone di Costantinopoli e Londra. Ora che era morta, e per giunta in maniera tanto ingrata, i nobili inglesi si ribellarono e offrirono la corona a il sovrano di Scozia, James VI. Le due legioni britanniche, la XXI e la XXII, appoggiarono l’usurpatore e allo stesso tempo le colonie inglesi del nord Colombia aderirono alla causa separatista.
James fu però molto scaltro e inviò ambasciatori a Mikhael, chiamandolo suo signore e imperatore, proclamando fedeltà a Costantinopoli. Il basileus, che non era ancora sicuro della sua posizione e non poteva mostrare una linea dura, attuò una politica diplomatica estremamente raffinata. Da un lato concesse a James il titolo di magister militum di Britannia, ma dall’altro non lo riconobbe re d’Inghilterra, ma solo di Scozia. L’Inghilterra all’epoca appariva ancora troppo debole per impensierirlo, se ne sarebbe curato in seguito.
Mikhael fu un buon imperatore, soprattutto se paragonato al precedente. Appena insediato decise di iniziare una campagna contro i persiani, che avevano pensato di approfittare della crisi romana per effettuare scorrerie e occupando alcune fortezze di confine in Armenia e Mesopotamia. Il basileus mobilitò un’ingente forza di 60.000 soldati, con i quali invase l’Irak e la Persia, puntando verso Isfahan.
A Tabriz si svolse il primo scontro, con molte perdite per i romani, che però continuarono la marcia imperterriti. Nei pressi del Grande Zab, uno degli affluenti del Tigri, vi fu una grossa battaglia. Questa volta, la potenza di fuoco maggiore dei cannoni e dei moschetti romani ebbe la meglio sui cavalieri, gli elefanti e i fanti persiani che fuggirono, tallonati dalla cavalleria imperiale.
Il 27 ottobre i romani si ritrovarono davanti a Isfahan, dalla quale lo shāh era già fuggito con tutta la sua corte. Tre giorni dopo i soldati di Roma entrarono in città e la trasformarono in un’unica pira rovente, dopo averla depredata e saccheggiata totalmente. I cittadini non ebbero scampo, durante i tradizionali tre giorni di saccheggio. 10.000 persone furono uccise e altrettante furono prese come prigionieri. Il 7 novembre, carichi di bottino e di gloria, gli imperiali tornarono a casa.
Il 1625 si aprì con la brutta crisi nell’area occidentale. Da lungo tempo i francesi e i romani non avevano attriti reciproci, ma negli ultimi anni la situazione si era deteriorata, soprattutto per le questioni coloniali. Il sovrano di Francia, Louis XIII, stava finanziando l’insediamento di una immensa colonia nel nord della Colombia, ad occidente di quelle anglo-romane e a nord dell’exarchaton di Colombia Magna Augusta. Prime operazioni militari erano avvenute in queste zone, ma nel 1625, approfittando della guerra civile, Louis decise di invadere i territori romani sul continente europeo.
L’attacco venne diretto verso Marsiglia, che venne stretta d’assedio ma non presa, sconfinando presto nella penisola italica.
Mikhael seppe giostrare bene le sue alleanze: infatti, mentre fronteggiava l’incursione con le proprie forze, ottenne il sostegno del kaiser Philipp. Quest’ultimo era ancora impelagato nel conflitto che verrà chiamato dai contemporanei la Guerra Eterna e di cui abbiamo già accennato le fasi iniziali, ma inviò il generale fiammingo Tilly in Lorena con 12.000 uomini.
La guerra per fortuna finì prima della fine dell’estate, con una battaglia che durò per tre ore nei pressi di Vercelli. Era il 3 agosto, e fu una catastrofe colossale per la Francia, che perse 20.000 uomini, 150 nobili e due generali. Tutta la regione da Tolosa fino a Lione passò in mano ai romani, che istituirono il nuovo thema della Gallia Superiore, ribattezzando la Provenza come Gallia Inferiore, mentre la Lorena fu ceduta alla casa di Habsburg. La Francia era in ginocchio, ma si sarebbe rivelata un avversario tenace negli anni successivi.
Tutto questo sarebbe stato il trionfo di Mikhael se non si fosse imbarcato nella più catastrofica impresa dell’impero: La Guerra Eterna o, come venne definita dagli storici di Costantinopoli, la Grande Guerra Germanica.
Il coinvolgimento romano si concretizzò per due ragioni: la prima era che Mikhael aveva promesso un futuro sostegno a Philipp in occasione della guerra-lampo antifrancese. La seconda era che le due forme di potere dell’Occidente erano il Reich germanico e la Basileia dei romani, e Mikhael sentiva dentro di sé un intimo bisogno di collaborazione tra i due Stati, sentimento condiviso dal papa Urbano VIII ad Avignone.
La guerra durava oramai da quasi dieci anni, ma la pace definitiva continuava a sfuggire.
Philipp III, che voleva restaurare l’unità cattolica in tutta la Germania, chiese aiuto al basileus, dato che neanche lui vedeva di buon occhio le troppe divisioni del Cristianesimo occidentale. Nel settembre dell’Anno Domini 1628 18.000 soldati romani entrarono a Vienna agli ordini di Theodoros Doukas, il figlio dell’imperatore, e si unirono alla kaiserarmee del sovrano asburgico.
Il 29 settembre le armate cattolico-ortodosse entrarono in Boemia, che era stata invasa da una coalizione sassone-danese e alla metà di ottobre si trovarono davanti a Praga, dove era schierata l’armata protestante di Christian IV di Danimarca. Questi stava assediando la città per restaurare il luteranesimo in terra boema, mentre altre truppe tenevano bloccato il Tilly in Baviera e Palatinato.
Lo scontro fu un successo per i romani, un massacro per i protestanti. Christian fu catturato due giorni dopo e inviato a Vienna come prigioniero. Wallenstein e Theodoros si accinsero a spostarsi in Sassonia e Brandeburgo, per scacciare i kurfürsten luterani e instaurare un’aristocrazia cattolica come era stato fatto nel 1620 in Boemia.
Tutto sarebbe andato per il meglio se non fossero intervenuti gli svedesi. Gustav Adolf, sovrano di Svezia, scese in Germania come nuovo campione del protestantesimo. Con lui aveva un poderoso e moderno esercito, rinforzato da decine di migliaia di mercenari e soldati degli Stati protestanti tedeschi del nord.
L’obiettivo dei due comandanti alleati divenne la ricca città di Magdeburgo, scelta come luogo di raduno degli evangelici. La volontà di vittoria degli alleati li spinse a combattere nonostante fosse quasi arrivato l’inverno e la condizione stradale e delle campagne rallentò i movimenti delle loro forze, soprattutto della fondamentale artiglieria.
Gustav, invece, poté sfruttare tutte le risorse che le sue vicine basi gli permisero di mobilitare. L’armata protestante annoverava tra le sue file 12.000 fanti e 6.000 cavalieri svedesi, finlandesi e livoniani a cui si aggiungevano 23.000 fanti e 9.000 cavalieri della Pomerania, dello Slesvig, dell’Holstein, di Neumarck, del Luneburgo. Dall’altro lato stavano 16.000 romani e 30.000 asburgici, stanchi e demoralizzati da una lunga marcia in pessime condizioni climatiche.
Prima di esporre lo scontro vorremo prima introdurre meglio il personaggio che la causa luterana soprannominò il Leone del Nord. Gustav Adolf II Vasa aveva ereditato il trono a diciassette anni dal padre Karl IX, insieme ad un regno prospero, unito e forte, con un moderno e disciplinato esercito e una guerra continua contro danesi, russi e polacchi.
Sin dalla sua incoronazione nell’Anno Domini 1611 aveva cavalcato in lungo e in largo per ricacciare indietro i nemici del nascente impero baltico svedese e ampliando i suoi confini. Per farlo gli occorrevano truppe fedeli e capaci di prevalere su tanti avversari, cosa che la Svezia non aveva. Quindi aveva deciso di puntare sull’alta qualità, per sopperire allo scarso numero di reclute. Il sistema era semplice: in ogni villaggio gli uomini atti alle armi venivano suddivisi in tre gruppi e durante una campagna uno di questi gruppi veniva mandato a servire in guerra mentre gli altri due rimanevano a badare ai campi. In tempo di pace tutti i gruppi si addestravano con picca, moschetto o a cavallo a seconda dei bisogni del loro reggimento di appartenenza. In tal modo i sovrani svedesi potevano contare, nonostante l’esigua popolazione dei loro reami nordici, di un bacino di circa 20.000 soldati attivi e di 40.000 a riposo, ben addestrati e molto motivati visto che venendo dagli stessi villaggi erano dotati di una forte coesione e di uno spiccato spirito di appartenenza ad un gruppo.
Tutto questo risultava perfetto sulla carta ma, come dimostreranno i fatti, il sistema poteva collassare se i tempi della campagna si prolungavano e il re avesse avuto necessità di più truppe per le sue guerre. Questi bisogni potevano in parte essere assorbiti reclutando mercenari o servendosi di alleati tedeschi, ma alla fine la guerra germanica si rivelerà un vero flagello per la migliore gioventù svedese. Analizzando alcuni dati ricavati dagli uffici militari svedesi del 1646 si desume facilmente che c’erano ben 36.000 svedesi in Germania e che un villaggio su due aveva perso il 60 o il 70% della sua forza lavoro. Alla fine del conflitto solo una ventina di uomini su cento ritorneranno a casa, cosa che colpì molto la già bassa demografia scandinava.
Ma fino al 1629 tutto il sistema stava dando i suoi frutti: nel 1615 la Danimarca aveva capitolato, cedendo gli ultimi territori al di là dello stretto dell’Øresund, compresa la città di Malmö. Tra il 1617 e il 1621 Gustav aveva annientato ben tre eserciti russi in Livonia e dal 1623 aveva mietuto successi nella costa baltica della Polonia, giungendo nel 1627 a porre l’assedio a Varsavia.
Proprio in quella lontana città era stato raggiunto da diversi ambasciatori ed emissari, sia dal regno di Francia, sia dai signori tedeschi del nord. Entrambi volevano la stessa cosa, ovvero la sua entrata in guerra contro il kaiser e il basileus, i primi per vendicarsi della schiacciante sconfitta appena subita e i secondi per salvarsi da un futuro molto cupo per il luteranesimo dopo la cacciata danese e la temuta – e in effetti molto probabile – restaurazione cattolica in tutta la Germania.
Gustav, animato da spirito guerrafondaio, abbacinato dalla visione di un Europa unita, protestante e sotto l’egida svedese e rassicurato dall’efficienza e dalla forza delle sue armate, decise di intervenire in terra tedesca. I primi passi erano stati diplomatici: una pace vantaggiosa per il suo paese ma non umiliante per i polacchi gli permise di sentirsi sicuro ad oriente, in più ottenne il sostegno finanziario francese e quello militare e logistico di Brandeburgo, Sassonia e altri principi, duchi, conti e margravi germanici.
Il suo primo passo militare fu di occupare completamente la neutrale Pomerania nel 1629, sulla costa baltica, fondando una testa di ponte svedese in Germania. Successivamente ordinò ai suoi alleati una marcia verso la città libera di Magdeburgo, recentemente occupata dai sassoni e minacciata dalle truppe romano-asburgiche di Theodoros.
Parliamo solo del condottiero romano perché Wallenstein, il vincitore di tante battaglie prima dell’arrivo degli imperiali e per certo il miglior comandante asburgico, era caduto in disgrazia presso la corte di Vienna e allontanato dal comando per questioni politiche. Questi, offeso e umiliato, si era rinchiuso nel suo principesco castello praghese, portandosi dietro molti uomini ed eccellenti ufficiali – che ricordiamo, venivano pagati da lui e non dalle vuote casse di Philipp – che faranno sentire la loro mancanza a Magdeburgo.
Theodoros rimaneva comunque sicuro del fatto suo, conscio dell’efficienza romana. Aveva stretto d’assedio la città con il suo multietnico esercito, ma non si era premunito per difendersi dall’esercito di liberazione guidato da Gustav che calava dal nord. Nel gelido febbraio del 1630 un gruppo d’assalto di corazzieri e dragoni svedesi e livoniani attaccò di sorpresa il campo degli asburgici, che sorvegliavano la linea settentrionale intorno alla fortezza. Senza un comandante rappresentativo e per la mancanza di molti ufficiali esperti, i ranghi tedeschi cedettero subito, in un fuggi fuggi generale. Theodoros ordinò un contrattacco della III Legio e dei suoi cavalleggeri russi e tartari, ma proprio quando questi avevano lasciato il campo romano meridionale apparve, davanti alle sue porte, l’intera armata svedese. Con i propri uomini confusi e sparpagliati il magister militum non poté organizzare un’efficiente difesa e venne travolto dagli eventi, mentre le sue forze si disgregarono.
La III Legio tornò allora indietro e caricò i reggimenti tedeschi che si stavano dando al saccheggio, ma venne infine circondata dai disciplinati rinforzi svedesi, che con moschetti e cannoni la fecero indietreggiare. Theodoros cercò di radunare i reparti ancora integri della III e della XII Legio, ma Gustav lo incalzò infrangendo le linee romane con una poderosa carica di corazzieri e picchieri svedesi. Le cose peggiorarono ulteriormente quando la guarnigione di Magdeburgo uscì in forze ad inseguire gli asburgici in rotta e ad attaccare da tergo gli ultimi rimasugli di resistenza romana.
Il risultato fu una sconfitta decisiva e totale: 12.000 romani e 6.000 asburgici sul terreno, più 18.000 prigionieri. Gustav aveva avuto appena 4.000 perdite tra morti e feriti. Theodoros era fuggito a ripararsi a Praga con poco più di 1.000 cavalieri.
Fu uno smacco devastante, che colpì molto a fondo la reputazione di Mikhael, che tentò di riparare decidendo di incrementare le forze impiegate in Germania. Ma la situazione si complicò quando l’ultimo sopravvissuto della discendenza di Basileios IV si autoproclamò basileus a Cagliari e con il nome di Romanos V sbarcò in Italia. La grande popolarità di suo padre e la grandezza del suo lignaggio – che annoverava tutti i passati sovrani fin dal XV secolo – gli garantì il sostegno di buona parte dell’impero, dove scoppiarono sommosse e rivolte. Mikhael dovette fermare le truppe appena assemblate e asserragliarsi nella capitale, dove il 6 aprile scoppiò una violenta insurrezione. Solo il 10 venne domata, lasciando sul terreno 8.000 cittadini e una città devastata.
Nel frattempo Theodoros, che era fermo a Vienna, venne praticamente tenuto prigioniero da Philipp, in attesa degli eventi e incalzato in Boemia dagli implacabili svedesi di Gustav.
Questa ennesima guerra civile, la seconda in sei anni colpiva l’Impero Romano, fu un ennesimo segnale di una crisi che stava iniziando a svilupparsi. Romanos V, dopo aver ottenuto il sostegno di Spagna, Africa e Italia, aveva deciso di passare in Grecia, dove contava moltissimi partigiani. Quivi arruolò nuovi uomini e ingrossò le fila delle legioni ai suoi ordini, ottenendo anche il sostegno della Valacchia e della Moldavia, gli Stati vassalli del Danubio. I loro stessi sovrani, Mircea VII Dracula e Stephan VIII Asen, si unirono a Sofia con il quarantunenne basileus, che poté contare su quasi 40.000 soldati entro maggio. Mikhael decise infine di andargli incontro, ma il suo temporeggiare gli costò il trono e la vita. Infatti, dopo un pesante consiglio di guerra dove si era alienato la maggior parte dei suoi comandanti, questi decisero di passare al nemico con tutti i loro uomini. Su questo episodio si basa la famosa frase, rivolta ai propri generali che gli chiedevano più uomini: “Legioni, legioni, legioni! Ma credete che io le fabbrichi?” poi immortalata dal celebre drammaturgo niceno Maurikios Kerovantis nella sua tragedia “Mikhael IX” del 1655.
Fatto sta che quando Romanos arrivò a Costantinopoli aveva ulteriormente accresciuto le sue forze, mentre a Mikhael rimaneva solo la Guardia Imperiale e qualche reparto di thalassastratiotai.
L’assedio durò da maggio fino a luglio, fino a quando alcuni dei rivoltosi aprirono le porte delle Mura di Alexios e fecero entrare le schiere fedeli ai Komnenoi Palaiologoi. Si dice che Mikhael, il quale nonostante tutto non era stato un cattivo imperatore, si sia dimostrato dotato di vero coraggioso, affrontando fino alla fine i nemici che gli si paravano davanti e uccidendone molti, prima di cadere davanti a Romanos crivellato di colpi.
Questi fu così colpito dal valore del suo nemico che decise di onorarlo come un sovrano, facendoli dei sontuosi funerali e reintegrando il figlio nella sua posizione a corte. Theodoros poté così continuare la dinastia dei Doukai, che sopravvisse fino al 1889 – quando si estinse definitivamente la linea maschile.
Il problema della guerra tedesca rimaneva però aperto, infatti gli svedesi avevano approfittato di quei mesi di crisi interna per archiviare due vittorie sul Tilly e su Pappenheim, i due comandanti della Liga Catholica e del Reich. Alla fine Philipp, con Gustav Adolf alle porte dell’Austria, si era visto costretto a rimangiare l’orgoglio e a richiamare il suo migliore generale, Wallenstein, dal suo forzoso esilio a Praga. Questi, dopo aver posto le sue condizioni, ovvero il comando supremo su tutte le forze cattoliche e la non intromissione della politica nell’azione militare, aveva ripreso il comando.
Aveva così costretto gli svedesi, con una manovra di aggiramento strategico dalla Boemia, ad abbandonare i territori conquistati a sud del Meno. Una volta rese sicure le terre ereditarie di Philipp e la Baviera, aveva inseguito Gustav nei territori del Palatinato e degli elettorati ecclesiastici del Reno, dove aveva ottenuto una vittoria di stretta misura presso Francoforte con una battaglia difensiva.
Non ci sarebbe più stato bisogno di un intervento romano se da Vienna non fosse cessato, da giugno, l’erogazione degli stipendi ai soldati. Per due mesi pagò di tasca sua Wallenstein ma a settembre, esasperato, il comandante si dimise dal suo posto. A questo punto iniziò il dramma, infatti a Vienna la cosa venne vista come un tradimento, quindi il boemo fu bandito dal Reich, con pena di morte se vi fosse ritornato. Wallenstein allora passò agli svedesi, e con se si portò 20.000 uomini rimasti a lui fedeli. L’armata asburgica si sfaldò come neve al sole e presto la Baviera e l’Austria vennero messe a ferro e a fuoco, mentre moti d’indipendenza scoppiarono nelle Fiandre e nella Lorena, finanziate da francesi e inglesi. Gustav e Wallenstein portarono all’apogeo il sogno di una Germania protestante, cancellando tutti i risultati ottenuti dai cattolici fin dall’epoca di Karl V in pochi mesi.
A ottobre Vienna, Monaco, Colonia, Treviri e Magonza, le roccaforti cattoliche tedesche, erano tutte in mano protestante. Il 24 del mese, nella cattedrale di Norimberga, Gustav e l’aristocrazia protestante nominarono Wallenstein kaiser del Sacro Romano Impero della Nazione Germanica con il nome di Albrecht III. Da oltre venti giorni Philipp era in esilio con Maximilian di Baviera e molti altri a Budapest, nei pochi domini a lui rimasti.
Albrecht III von Wallenstein elesse a sua capitale Praga, che diventerà il cuore pulsante della Germania: ricca, protestante e culturalmente avanzata. Immediatamente nelle Fiandre e nella Lorena tornò la pace, mentre il nuovo ordine tedesco trovava il sostegno politico di moltissimi Stati europei.
L’unico che continuò a tuonare fu il papa Urbano VIII, che ordinò a tutti i cattolici di opporsi al nuovo regime e chiese insistentemente al nuovo basileus un intervento per ripristinare gli Habsburg a Vienna e riportare l’equilibrio in Germania. Da parte sua propose un compromesso che avrebbe permesso la riunificazione delle Chiese, ma questa volta con una posizione di forza ortodossa.
Romanos accettò immediatamente e, conscio del bisogno di ripristinare l’onore delle armi romane, si fece di nuovo trascinare nel carnaio tedesco. Un sessantenne Ambrogio Spinola venne incaricato di riprendere Vienna partendo da Budapest, dove si erano radunati tutti gli oppositori cattolici al regime di Wallenstein. Durante il 1631 e il 1632 le operazioni si svolsero soprattutto nell’Ungheria asburgica e l’Austria meridionale, dove cattolici e protestanti ebbero tra loro numerose scaramucce.
Nello stesso anno una delegazione del nuovo kaiser raggiunse Costantinopoli. Era capitanata dal cancelliere di Svezia, Axel Oxenstierna, che propose una pace generale in cambio del riconoscimento del nuovo stato di cose in Germania, la corona d’Ungheria a Philipp III e il ritorno dei cattolici in Baviera e Austria, con l’Habsburg che avrebbe rinunciato al titolo di kaiser per quello di grossherzog o arciduca d’Austria, che avrebbe immediatamente passato al figlio. Inoltre sarebbe stata garantita la piena libertà religiosa, con base personale, ovvero abbandonando il vecchio principio stabilito all’epoca di Karl V “Cuius Regio, eius Religio”, che obbligava gli abitanti a convertirsi alla fede del proprio signore feudale.
Romanos V, al contrario di quanto un buon governante dovrebbe fare, non impiegò neanche un minimo di diplomazia. Si comportò fin dal principio freddamente con i delegati tedesco-svedesi, ma quando sentì le proposte di Oxenstierna, si alzò dal suo trono e tuonò: “Io non piegherò il mio capo ai barbari del nord!”, poi continuò dicendo che avrebbero ricominciato a trattare con le legioni che banchettavano a Praga.
Con il fallimento dell’abboccamento diplomatico la guerra continuò. Ma questa volta in grande stile: sei legioni e molti reggimenti ausiliari più gli alleati, i vassalli e molti mercenari, vennero inviati a Budapest per compiere una spettacolare azione in vista del 1633.
I tre anni passati dalla sua incoronazione erano serviti ad Albrecht per pacificare le sacche di opposizione nelle città libere tedesche e nell’aristocrazia, per risollevare la popolazione spossata da oltre dieci anni di guerra civile e per prepararsi alla controffensiva cattolica. Inoltre aveva concesso molte terre baltiche agli svedesi, più un sussidio, un alleanza militare ed infine un matrimonio dinastico tra lui e la figlia di Gustav Adolf, Christina di Svezia.
Il comando imperiale venne ripartito tra condottieri italiani: l’anziano Spinola, l’invasore del Giappone, il toscano Ottavio Piccolomini e il modenese Raimondo Montecuccoli. Le armate romane mossero verso nord, accogliendo nei loro ranghi i pochi residui delle forze asburgiche sopravvissute. Appena entrati in Austria seppero della defezione di molti capitani cattolici che, una volta appurato il regime di tolleranza nel nuovo Stato germanico, avevano optato per servire un signore più lungimirante e che si era dimostrato molto migliore di Philipp. Il più illustre tra questi era il graf Gottfried von Pappenheim, il valoroso comandante di cavalleria diventato molto famoso durante il conflitto e che, con le sue azioni impetuose, darà parecchio filo da torcere ai condottieri di Romanos.
Il primo obbiettivo imperiale era naturalmente Vienna, per il suo alto valore simbolico e strategico, mentre colonne separate avrebbero dovuto agire a tenaglia, penetrando in Baviera e in Boemia da ovest e da est.
Albrecht III aveva però già capito i piani nemici e insieme a Gustav aveva elaborato una tattica difensiva atta a inchiodare gli invasori presso l’ex capitale asburgica, muovendo poi con le truppe più veloci ed esperte per distruggere separatamente le due colonne aggiranti. Per attuare questo piano si stabilì nella stessa Vienna, cacciò tutti i cattolici in modo che non potessero insorgere durante l’assedio e la presidiò con i reparti migliori di fanteria e artiglieria tedesca e svedese. L’armata mobile boema fu invece affidata a Pappenheim e al kurfürst di Sassonia Johann Georg I, mentre l’esercito svedese agli ordini di Gustav Adolf avrebbe operato in Baviera, con a sostegno altri nobili tedeschi con a capo il signore del Brandeburgo Georg Wilhelm.
L’assedio di Vienna iniziò il 25 marzo dell’Anno Domini 1633. Durerà, in modo discontinuo, quasi tre anni. Ma in quella assolata mattinata primaverile sembrava andare ancora tutto bene agli alleati, che con 60.000 romani e 20.000 austro-ungheresi circondarono i 16.000 soldati di Wallenstein. Dopo aver aspettato per quasi tre settimane che arrivassero e poi venissero posizionati i 300 cannoni d’assedio, il magister militum praesentalis Spinola comandò l’inizio dei bombardamenti. Fu l’ultimo ordine che poté emanare, visto che spirò il 18 aprile. Vista l’età avanzata nessuno fu sorpreso dalla notizia, ma questo fatto provocò un grande trambusto nel comando alleato. Infatti i due generali romani rimasti – Piccolomini e Montecuccoli – erano parigrado tra loro e, nonostante l’esperienza già accumulata, non avevano il prestigio e l’autorità del defunto Spinola. Questo li mise spesso in contrasto con il supremo condottiero asburgico, l’ormai attempato Tilly, che cercava in tutti i modi di far valere i pressanti e petulanti interessi del suo signore Philipp.
In mezzo a questi problemi si insinuò Albrecht, il quale compì in quel clima di confusione molte sortite, che culminarono con la distruzione di due batterie romane durante la notte del 2 maggio.
Sempre più confusi, gli alleati vennero a sapere che in quei giorni le forze di Pappenheim avevano intercettato dei rinforzi ungheresi e valacchi sotto il comando del prinkeps Mircea VII Dracula presso il Danubio e le avevano annientate. A questo punto Piccolomini prese con sé due legioni e alcuni ausiliari, lasciò Vienna e marciò contro il vittorioso Pappenheim, che, non aspettandosi una così rapida controffensiva, venne sconfitto a sua volta, lasciando 7.000 cadaveri sul terreno.
In più Piccolomini liberò Mircea, che era caduto prigioniero, e con lui tornò trionfante a Vienna. Giusto in tempo, perché il 28 maggio Gustav Adolf aveva deciso di attaccare gli assedianti della città, approfittando dell’allontanamento di Piccolomini.
Tra il 29 e il 30 aveva ricacciato indietro i disorganizzati alleati che, nonostante la superiorità numerica, non erano ben collegati tra loro. Si stava per ripetere il disastro di Magdeburgo, ma proprio quando anche le forze romane stavano per disgregarsi sotto l’attacco congiunto di Gustav e del kaiser – inutile dire che gli asburgici erano di nuovo andati in fuga quasi subito, apparve Piccolomini sui colli a sud della città. Gli bastò un attimo per capire la situazione e con grande sprezzo del pericolo si lanciò nella mischia con fanti e cavalieri. I kataphraktoi e i drakonarioi armati di pesanti spade a lama dritta, archibugi e pistole si aprirono un sanguinoso varco tra i ranghi svedesi, che non si aspettavano l’arrivo dei rinforzi.
Subito Gustav ordinò di resistere, ma le legioni di Montecuccoli, ormai rincuorate, stavano riprendendo coraggio e avanzavano nella pianura, piena di fumo e avvolta dai miasmi di polvere da sparo. Il lento e cadenzato “Kyrie Eleison”, intonato dalle migliaia di gole dei menavlatoi della II, della VI, della XIII e della XIX Legio, iniziarono a sovrastare il “Gott Mit Uns” dei luterani, che sempre più numerosi iniziarono a ripiegare.
Al calare delle tenebre Gustav si era allontanato in direzione della Baviera, mentre il Kaiser Alberto era tornato dentro l’ex capitale assediata. Piccolomini divenne l’eroe della giornata, anche se aveva subito più di sette ferite di arma da fuoco e da taglio.
Il bilancio era veramente pesante: 9.000 fanti e 3.500 cavalieri perduti dai protestanti, 16.000 fanti e 5.000 cavalieri per gli alleati. In più erano caduti sia von Tilly che lo sfortunato Mircea, che con il suo valore si riscattò dalla sconfitta subita poco tempo prima. Il suo posto al comando delle truppe vassalle danubiane venne dato all’esperto Stephan VII Asen, prinkeps di Moldavia.
Meno felice fu la scelta del sostituto generale supremo asburgico, che fu nientemeno che il figlio di Philipp III, anche lui chiamato Philipp. Il giovane, se possibile, aveva perfino più a cuore gli interessi familiari rispetto al padre, e creò ancora più problemi ai comandanti romani. Questo fatto tolse ogni possibilità di sfruttare il vantaggio ottenuto con la battaglia di Vienna. Infatti il tergiversare su questioni di comando diede la possibilità sia a Gustav Adolf, sia a Pappenheim, di riorganizzare le truppe e di reclutare rinforzi presso le loro basi, grazie ai talleri forniti dalle casse della Francia dal cardinale Richelieu.
Anche l’assedio proseguiva stancamente, mentre già diverse volte rifornimenti e armamenti avevano eluso il blocco degli assedianti, entrando in città e risollevando il morale dei difensori.
Per luglio, quando la stagione si fece più calda, i romani tentarono ben tre grossi assalti, ma vennero ogni volta sanguinosamente respinti. Inoltre gli asburgici non provvedevano alla loro parte degli accordi, fornendo paghe, rifornimenti e rinforzi, ma anzi chiedevano in continuazione a Costantinopoli aiuti finanziari e adducevano sempre nuove scuse – e allo stesso nuove pretese sulle priorità della campagna – verso i poveri Piccolomini e Montecuccoli. Per fortuna i due si erano intesi da subito e almeno tra loro agivano congiuntamente, bloccando spesso le inutili insistenze del giovane Philipp.
Mentre le truppe imperiali si impantanavano nel durissimo assedio di Vienna, Romanos era pressato da ulteriori problemi. Vista la vita passata in esilio, prima a causa del folle fratello maggiore e poi per colpa dell’usurpazione, non aveva potuto contrarre matrimonio. Ora che era basileus e vista la sua età oltre i quaranta, doveva trovare una buona moglie che gli permettesse di prolungare la sua gloriosa dinastia.
Le trattative si erano prolungate fin dal 1631, ma solo nei primi mesi del 1633 fu presa una decisione definitiva. La scelta cadde sulla diciassettenne Giulia Borghese, nipote del defunto patriarca di Roma Paolo V, che venne inviata a Costantinopoli nell’estate di quell’anno.
Il 1° di settembre furono celebrate le nozze in modo fastoso, con i due novelli sposi che fecero una solenne sfilata per la città addobbata a festa, che proseguì con una stupenda celebrazione ad Aghia Sophia e una gita sul Bosforo con il galeone della famiglia imperiale, l’Alexios VI, tutto decorato con drappi di sete preziosi ed oggetti in oro e argento.
Già l’anno dopo la coppia imperiale vide la nascita dell’erede al trono, che venne chiamato Germanikos, come segno di buon auspicio per la guerra in corso. Si dice che, nonostante la grande differenza di età tra i due coniugi, il loro fu un matrimonio felice, tanto che quando Giulia morì di una febbre improvvisa nel 1648, Romanos fu devastato dal dolore. Non si risposò più, e si dice che non abbia neanche avuto amanti ufficiali.
Il basileus aveva una personalità abbastanza ombrosa, accentuata dagli anni di esilio e dalla guerra civile. Solo la giovane moglie e i figli gli donavano degli sprazzi di felicità. Inoltre le notizie che riceveva dalla Germania e dall’Ungheria non potevano che peggiorare il suo umore. Una qualità che però non gli mancava era la capacità di lavorare instancabilmente per l’interesse dello Stato: poteva rimanere fino alle prime luci dell’alba a rivedere rapporti e documenti, a firmare ordini e autorizzazioni, a sentire petizioni o amministrando la giustizia. Nel 1636 fece riaprire i cantieri del Pharos di Alessandria, interrotti da Mikhael nel 1628. Abbandonò però il progetto del canale nella penisola del Sinai, visti i costi esorbitanti dell’operazione e i continui insuccessi. Concentrando tutti gli sforzi solo sulla prima opera riuscirà a vedere la sua conclusione nel 1641, quando l’inaugurerà insieme all’amata moglie e ai tre figli Germanikos, Andronikos e Sophia.
Nel 1640 organizzò a Costantinopoli un incontro storico: infatti venne invitato nella capitale lo shāh di Persia Safi I, per suggellare i precedenti rapporti di amicizia incrinati dopo la guerra di Mikhael Doukas e per ristabilire le demarcazioni coloniali e commerciali nell’Oceano Indiano. Testimoni oculari come Theodoros Mouzalon parlano di oltre 3.000 uomini e donne al seguito del sovrano safavide, trasportati da 1.000 cammelli, 500 cavalli e 50 elefanti. Romanos li accolse all’altezza di Nicea con 5.000 uomini della Guardia Imperiale schierati e con i più alti gradi della nobiltà, dell’amministrazione, dell’esercito e del clero. Poi avvenne un immenso trasbordo del Bosforo con 320 navi della marina imperiale che stazionavano nella capitale per l’occasione. Naturalmente il sovrano di Isfahan venne ospitato con un selezionato seguito nell’ammiraglia imperiale e collocato nel posto d’onore sia ad Aghia Sophia sia in tutte le feste nel grande palazzo. Si dice che rimase molto impressionato dall’arte e dallo sfarzo mostrato in quell’occasione dai costantinopolitani, che addobbarono la città come poche volte era stato fatto prima.
Safi volle poter vedere le sacre reliquie gelosamente conservate nelle chiese più importanti, e rimase diverso tempo davanti alla più importante di tutte: l’icona della Theotókos Odigitria, che più e più volte aveva salvato la città dai nemici esterni, compresi i persiani circa dieci secoli prima. Le celebrazioni durarono oltre due settimane e alla fine vennero firmati importanti trattati che preserveranno la pace e l’alleanza tra i due imperi per altri vent’anni. Inoltre lo shāh decise di lasciare uno dei figli a Costantinopoli affinché venisse educato e potesse comprendere meglio il mondo occidentale e cristiano.
In quei giorni Romanos strinse amicizia con il sovrano ma anche con il suo gran vičir e alcuni comandanti e ministri persiani. Questi rapporti, che poi vennero prolungati dal basileus in forma epistolare, procurarono la tranquillità nella frontiera orientale proprio nel momento di maggior bisogno, visto il dissanguamento che l’esercito romano stava subendo in questi anni in Germania.
Torniamo quindi alle tristi vicende tedesche. Le lunghe insistenze dei due Philipp avevano portato l’imperatore ad autorizzare il distaccamento di due ulteriori legioni, che una volta affidate a Maximilian di Baviera, avrebbero dovuto muovere verso Monaco e scacciare il sovrano svedese che continuava a occupare la terra del herzog cattolico. Il ragionamento partiva dal presupposto che la capitale Vienna, dopo mesi e mesi di bombardamenti e di assedio – la campagna era prevista per la primavera del 1634, dovesse presto cadere o comunque non rappresentare più un problema. Invece proprio nell’inverno del 1633, con un’audacissima azione, Pappenheim riuscì a far entrare uomini e rifornimenti nella capitale assediata, dando respiro al kaiser Albrecht.
Il comandante tedesco propose al sovrano di abbandonare la città per organizzare meglio le sue forze all’esterno, ma questi decise di rimanere a rincuorare i difensori, dando però pieni poteri al suo generale affinché convocasse una Reichstag per richiedere ai nobili una tassa speciale e un arruolamento di milizie volte a respingere gli invasori romani.
L’assemblea venne convocata da Pappenheim e Gustav Adolf il 15 gennaio a Francoforte. I nobili tedeschi, dopo alcune titubanze, concessero l’appoggio alle istanze del loro nuovo signore, votando per stanziare un fondo di 10 milioni di talleri e un’armata di 25.000 uomini, da unire alle precedenti già schierate. Pappenheim usò i soldi ricevuti per reclutare anche 6.000 mercenari fiamminghi, scozzesi e inglesi, portando i suoi effettivi ad oltre 50.000, a cui andavano aggiunti i 25.000 svedesi.
Le sue spie lo avevano informato sulla futura campagna in Baviera, quindi organizzò con Gustav un’imponente trappola: egli stesso stette tra febbraio e marzo a compiere feroci incursioni con migliaia tra corazzieri, dragoni e cavalleggeri in territorio boemo, facendo credere che avrebbe continuato a mantenere a est le sue forze, lasciando gli svedesi a respingere da soli gli asburgici a ovest, mentre segretamente molti battaglioni di fanteria, cavalleria e artiglieria si spostavano nelle foreste bavaresi, senza entrare nelle città piene di spie austriache o romane.
Quando seppe che Philipp, Maximilian e Montecuccoli si erano mossi con 38.000 soldati alla volta di Monaco, lasciò in Moravia 5.000 uomini e alcuni reparti di miliziani male addestrati e galoppò con i suoi cavalieri migliori fino a Ratisbona, dove si incontrò segretamente con Gustav Adolf per preparare la trappola perfetta agli invasori.
Il 29 marzo l’imponente schiera alleata, una volta arrivata a due giorni di marcia dalla capitale bavarese, si trovò davanti gli svedesi con qualche reparto di tedeschi, in tutto non più di 30.000 uomini. Vista la superiorità numerica i due cattolici obbligarono Montecuccoli ad accettare battaglia, nonostante egli consigliasse prudenza. I battaglioni asburgici, addestrati dai romani per tutto l’inverno, diedero finalmente buona prova di sé, facendo ripiegare le invitte forze svedesi. I cannoni romani misero ben presto a tacere l’inferiore artiglieria avversaria e due cariche di corazzieri e di kataphraktoi avevano inferto duri colpi ai cavalleggeri di Gustav.
Verso mezzodì perfino il sospettoso Montecuccoli si sentì certo della vittoria, tanto da decidere di comandare personalmente i reparti della VI e della XIII Legio che avrebbero dovuto dare il colpo di grazia alla traballante linea svedese. Era questo il momento che aspettava Pappenheim, che appena venne informato che l’unico comandante di valore degli alleati era impegnato in azione, e quindi non avrebbe potuto influire sulla gestione della battaglia, ordinò alle sue schiere di uscire dai boschi intorno alla zona dello scontro.
Noi possiamo immaginare il terrore e lo sgomento che colpì i ranghi romano-cattolici quando si videro spuntare alle spalle un nuovo esercito protestante di 25.000 uomini. Immediatamente Gustav chiese ai suoi esausti soldati un ultimo sforzo di resistenza, combattendo in prima linea come un soldato semplice e dimostrando di meritarsi ampiamente il suo soprannome di Leone del Nord.
Le linee svedesi tennero testa ai legionari per venti minuti, mentre sempre più luterani attaccavano le improvvisate difese create da Philipp, che sacrificò i reparti scelti asburgici in una lotta senza speranza contro forze nemiche superiori. Quattro squadroni di corazzieri e due di dragoni respinsero sei cariche comandate personalmente da Pappenheim, ma quando vennero attaccate da tergo da 2.000 svedesi urlanti andarono in rotta.
Montecuccoli si vide così circondato tra svedesi e tedeschi, fece formare un rozzo quadrato dai legionari e dai picchieri tedeschi che riuscì a radunare e si attestò a resistere. Gustav e Pappenheim non avevano però voglia di affrontare un nuovo corpo a corpo, perciò si limitarono a puntare sulle fitte file avversarie i cannoni romani appena conquistati e fecero fuoco ad alzo zero. Dopo due scariche si erano aperti dei paurosi vuoti nella formazione di Montecuccoli, che decise che ogni altra resistenza sarebbe stata vana e si arrese con 9.000 uomini.
Lo scontro era stato un disastro peggiore di Magdeburgo: 8.000 romani e 10.000 asburgici rimasti sul terreno, 12.000 prigionieri, tutto il parco d’artiglieria perduto e 23 stendardi, tra cui 2 aquile, catturati. Le forze protestanti avevano subito la maggior parte delle perdite in campo svedese, che aveva sostenuto la maggior parte dei combattimenti, ma la cosa andava tutto a vantaggio del kaiser e di Pappenheim, che stavano iniziando a considerare anche questi come invasori e alla prima occasione opereranno per cacciare anche loro dalla terra tedesca.
Molti storici pensano proprio che Pappenheim si sia mosso molto tardi in modo tale che i contendenti si dissanguassero tra loro, risparmiando al massimo i soldati germanici ai suoi ordini, che andranno a formare la nuova armata “nazionale” tedesca. Qualunque fossero le possibili recriminazioni di Gustav, per quella sera vennero accantonate nella gioia del trionfo.
Tra i prigionieri illustri si annoveravano Maximilian di Baviera, Montecuccoli e diversi alti ufficiali asburgici e romani, che vennero inviati in una dorata prigionia ad Augusta. Due giorni dopo lo scontro l’esercito evangelico riunito marciò verso Vienna per sloggiare gli oramai inferiori alleati. Piccolomini, appena saputo del disastro, aveva tolto immediatamente l’assedio, aveva bruciato tutti i ponti suoi fiumi che si lasciava dietro e aveva predisposto una forte retroguardia per impedire un attacco della guarnigione o degli incalzanti avversari, che potesse mandare in rotta il suo demoralizzato esercito.
Il 4 aprile venne raggiunto da un drappello di sopravvissuti romani e asburgici. Tra loro, vestito da soldato semplice, c’era Philipp d’Habsburg. Due giorni dopo, presso Presburgo, dovette sostenere un durissimo scontro contro la cavalleria di Pappenheim. Vennero gettati nella mischia tutti i reparti di cavalieri a sua disposizione e alla fine Mariano Serra, tribuno dei drakonarioi della XIX Legio Sarda, con un’audace azione mise in rotta i reparti nemici, salvando l’onore romano e dando il tempo agli altri contingenti di continuare la ritirata.
La campagna d’invasione si era risolta in un disastro totale. Era la seconda in meno di quattro anni che aveva avuto esito infausto, tanto che il basileus stette a rimuginare parecchio sulle possibilità di trattare con Albrecht III una pace onorevole, ma alla fine le suppliche del papa, dei patriarchi di Costantinopoli e di Roma e quelle di Philipp lo spinsero ad un’ultima azione.
Questa volta però avrebbe comandato lui stesso le forze romane, cosa che stava diventando sempre meno comune tra gli imperatori. Nulla venne lasciato al caso: venne approntato un esercito ancora più imponente dell’ultima volta, approfittando della pace con la Persia e nelle colonie. Tra i regolari vennero mobilitate sei legioni, gli ausiliari a piedi e a cavallo, più nuove coorti reclutate per l’occasione, armate solo di moschetti e dotate di cannoni leggeri. Vennero richiamati anche i cavalieri pantocratori, i contingenti di alleati e vassalli, tra cui spiccavano i cavalleggeri cosacchi e tartari della Russia e dell’Ucraina, i duttili ussari valacchi, moldavi e croati, i duri fanti georgiani, armeni, sardi, baschi, galiziani e africani dell’Atlante. Alla fine le truppe d’élite della Guardia Imperiale. La flotta del Danubio venne impegnata per portare i cannoni da campagna e da assedio, i rifornimenti, gli armamenti e i cavalli il più velocemente possibile nello scacchiere d’operazioni. Con le navi vennero imbarcati anche diversi contingenti di thalassastratiotai, che con la loro esperienza di truppe d’assalto e d’assedio avrebbero di sicuro accresciuto il potenziale offensivo del poderoso assalto romano.
Le cronache dell’epoca dicono che era da tempi immemorabili che l’impero non richiamava alle armi una tale moltitudine di forze, e soprattutto che non le concentrava in un’unica gigantesca operazione. Raggiungevano da sole i 100.000 uomini, senza contare il lungo strascico di civili al seguito, che ingrossava ulteriormente la cifra a forse 200.000 anime. Un vero e proprio fiume di metallo, cuoio e carne si riversò nei Balcani, facendo tremare di terrore i nemici nelle loro umide e fredde dimore tedesche.
Per l’aprile dell’Anno Domini 1636 i romani erano a Budapest dove, intimorito da tanto potere e sfarzo, Philipp giurò fedeltà a Romanos, promettendo concessioni commerciali e territoriali, un matrimonio dinastico a la rinuncia definitiva al titolo di imperator del Sacro Romano Impero che, fin dai tempi di Carolus Magnus, i sovrani germanici avevano usurpato all’unico e legittimo augusto di Costantinopoli.
Romanos promise allora di ridargli il trono di una Germania cattolica e riunificata, di cui darebbe stato il kaiser.
Va segnalato che questo scambio di giuramenti, passato alla storia come la Convenzione d’Ungheria, per gli storici dei secoli successivi assurgerà a momento simbolico della nascita del nazionalismo tedesco. Infatti per la prima volta non si parlò più di impero sacro e romano, ma piuttosto di uno Stato di germani. Noi ci permettiamo di dissentire, visto che a nostro modesto parere il processo era già iniziato con l’opera del grande kaiser Albrecht III Wallenstein, che aveva deciso di abbandonare quell’utopica e oramai anacronistica idea di un Reich “feudale, decentrato e sacro” per una monarchia nazionale a modello inglese o francese, spiccatamente nazionalistica e accentrata. Speculazioni storiografiche a parte, va detto che quei giorni sancirono l’apogeo politico di Romanos, che vide in ginocchio davanti a sé il titolare dell’unico Stato europeo che poteva almeno tentare di concorre con la Nuova Roma in quanto a prestigio e glorie passate.
Subito dopo iniziò la campagna vera e propria. L’armata romana, senza alcun aiuto da parte degli infidi alleati, assediò Presburgo, caduta nell’autunno 1635 in mano svedese. La guarnigione si arrese dopo solo quattro giorni di bombardamenti. Subito dopo, una volta riunite anche le forze al comando di Piccolomini, si poté muovere verso nord.
La strategia che decise di adottare Romanos era molto simile a quella impiegata da Basileios II per piegare la Bulgaria sei secoli prima: una lenta avanzata, portata avanti con pochi rischi e perciò inesorabile. I fianchi non venivano mai scoperti. Le azioni di pattuglia e di esplorazione venivano effettuate con un numero tale di cavalieri da dissuadere qualsiasi imboscata. Ogni fortezza, per quanto fosse piccola o difficile da prendere, veniva sistematicamente assediata, catturata e rasa al suolo. Il nemico si affrontava solo con una proporzione numerica di tre o quattro a uno e solo in zone non utili per le sortite.
Questa manovra costò tantissimo in termini di tempo, ma permise di arrivare a Vienna per metà agosto con le forze intatte, le spalle coperte e il morale alle stelle.
Albrecht III, conscio della mutata natura del nemico, questa volta non si barricò in città, ma vi lasciò il feldmarschall Friedrich von Falkenberg con 12.000 uomini e 40 cannoni. Con tutte le sue truppe si spostò invece in Boemia, molto più fedele e sicura, lasciando agli svedesi la Baviera, oramai devastata e totalmente asservita ai loro voleri.
Romanos, seguendo i saggi consigli di Piccolomini e basandosi sulle sue conoscenze storiche – nello specifico il De Bello Gallico di Caesar, e nello specifico sulla presa di Alesia, progettò un sistema per circondare completamente la capitale, creando sei campi fortificati, collegati tra loro da terrapieni, torrette e camminamenti. A loro protezione pose postazioni di artiglieria, barricate, fossati e trappole per la cavalleria.
La seconda parte dell’assedio di Vienna iniziò il 21 agosto e già due settimane dopo la maggior parte di queste opere venne completata. In più vennero abbattuti tutti i ponti e creati presidi in ogni guado che dalla Boemia e dalla Baviera portavano all’area delle operazioni. Falkenberg, schiacciato dall’immensa superiorità numerica, non fece nulla e aspettò. Il 26 agosto iniziò il bombardamento con i primi 60 pezzi d’artiglieria. Il 28 furono in 84 a tuonare e per i primi di settembre 130. Per l’inizio dell’autunno Vienna veniva giornalmente devastata da bombe incendiarie lanciate da 250 bocche da fuoco.
Nonostante questo Romanos non ordinò alcun assalto, ma si limitò ad aspettare e a martellare i poveri assediati. Neanche Wallenstein si mosse, conscio della superiorità nemica. A farlo, però, e la cosa non sorprese nessuno, fu Gustav Adolf. Questi era stufo del protrarsi dello stallo e pensava di poter ottenere un’altra gloriosa vittoria come quelle di Magdeburgo e di Monaco e perciò, una volta radunati tutti i suoi effettivi, compresa la nuova leva richiamata in Svezia da Oxenstierna, marciò sulla capitale asburgica.
Naturalmente, come era suo solito, non si degnò di avvisare Albrecht III, confidando che si sarebbe mosso a ruota per aiutarlo o che almeno avrebbe mandato la sua formidabile cavalleria al comando di Pappenheim in ausilio. Il kaiser però non fece nulla di tutto ciò, ma anzi incrementò gli effettivi ai suoi ordini per poter nel caso reagire a qualsiasi attacco, romano o svedese che fosse. In più iniziò a tessere trame diplomatiche molto elaborate, dove i francesi sarebbero diventati i suoi finanziatori, sostituendo i troppo invadenti svedesi. Infine, in cambio di una promessa di cessione di territori ex asburgici nelle Fiandre, avrebbe ottenuto da loro e dagli inglesi un aiuto militare in Provenza o in Spagna, per alleggerire la pressione su di lui in caso di sfondamento romano a Vienna.
Ignaro di tutto ciò l’impulsivo Leone del Nord andò ad infilarsi nella trappola dei cacciatori. Aveva ai suoi comandi truppe scelte e veterane con oltre un decennio di esperienza: 39.000 fanti, 16.000 cavalieri e 50 cannoni che avrebbero potuto dar filo da torcere a chiunque, ma quello che si trovarono di fronte fu un’immensa fortezza presidiata da 100.000 altrettanto disciplinati soldati.
Infatti il complesso romano era diventato una rocca inespugnabile che circondava completamente la città austriaca, ormai ridotta ad un cumulo di rovine fumanti, dove si muovevano i pochi difensori sopravvissuti, oramai disperati e allo stremo delle forze. Il 12 novembre, in una rara giornata di sole, gli svedesi furono lanciati contro le posizioni occidentali romane. Fu uno scontro combattuto in trincee e ripari, dove la superiorità di armamenti, numerica e di posizionamento imperiale costò agli attaccanti migliaia di caduti.
Il giorno seguente Gustav ci riprovò, visto che il giorno precedente Romanos non aveva reagito e aveva lasciato i difensori del singolo settore a cavarsela da soli, e rimediò un ulteriore fallimento. La cosa andrò avanti così per altri quattro giorni, con ripetuti assalti che logorarono le smaglianti schiere svedesi, falcidiando i preziosi veterani che cadevano a grappoli sotto il fuoco di moschetti, lanciafiamme e cannoni caricati a mitraglia.
Al settimo giorno Romanos decise di assestare un terrificante colpo di maglio: nottetempo fece uscire dal campo quasi 30.000 soldati tra cavalleggeri alleati, corazzieri, ussari, kataphraktoi e drakonarioi. La mattina del 19 i protestanti furono svegliati dal tuono degli zoccoli di migliaia di destrieri e dal tintinnio di centinaia di corazze, spade e lance.
Gustav, colto completamente di sorpresa, organizzò una contro carica in ritardo, venendo travolto. Solo 5.000 svedesi poterono organizzare un minimo di resistenza ma cedettero dopo pochi minuti, quando dei cannoni romani fecero fuoco sul loro schieramento e nel varco sciamarono i cosacchi della Crimea e i corazzieri della Transilvania. Il re svedese, vistosi perduto, si lanciò in feroci corpo a corpo, fino a che un drakonarios valacco lo trafisse da tergo, gli spiccò la testa dal busto e la portò a Vlad Dracula, fratello del defunto Mircea VII, e reggente del principato in attesa della maggiore età del piccolo erede Radu.
Questi, dopo averla fatta mettere sotto sale, la consegnò personalmente al basileus in serata.
In un solo giorno, tutta l’influenza che gli svedesi avevano guadagnato in Germania in sette anni scomparve. Infatti la corona passava a Christina, unica figlia del sovrano defunto e moglie di Wallenstein, che poteva così governare Germania e Svezia contemporaneamente. La sua prima disposizione sarà proprio quella di incorporare tutte le milizie svedesi in territorio tedesco nella nuova armata imperiale, trasformando poi le conquiste svedesi nel Reich – come la Pomerania – in suoi domini personali. Fece infine ritornare a casa tutti gli amministratori scandinavi, tranne pochi fedelissimi ormai entrati nel suo entourage.
Axel Oxenstierna si riciclò subito in campo germanico, diventando il tramite tra la nobiltà svedese e il nuovo sovrano, che aggiunse al suo titolo di kaiser di Germania quelli di re di Svezia, grossherzog di Finlandia e Livonia e protettore del Baltico. Axel ottenne invece alcune contee e ducati tedeschi, fino ad assurgere al rango di kurfürst del Reich per la Baviera. Pappenheim si guadagnò in appannaggio l’Austria, peraltro sotto assedio quindi solo in via nominale. Infatti il 28 di novembre, dopo un ennesimo bombardamento devastante dove era perito il Falkenberg, i resti della guarnigione si arresero a Romanos.
Questi poté così entrare nella città a lungo contesa, con al fianco Philipp III, fatto arrivare fin li per l’occasione, e la moglie Giulia.
La situazione all’interno dell’ex capitale era disastrosa, con solo un edificio su tre in piedi e pochissimi risparmiati da proiettili o fiamme. I sopravvissuti della guarnigione erano 700, i civili 5.000. Il palazzo imperiale era ridotto in macerie, e anche le chiese più antiche avevano pagato un fortissimo pedaggio.
Philipp ebbe la mala grazia di chiedere al basileus quando avrebbe riparato i danni che le forze romane avevano causato alla “sua” capitale. In principio la risposta irosa fu a malapena trattenuta dal sovrano, ma infine il senso diplomatico prevalse e garantì la restaurazione a spese proprie di mura, fortificazioni e luoghi di culto. Ma il suo palazzo se lo sarebbe ristrutturato Philipp!
Wallenstein corse ai ripari, mobilitando la coalizione che aveva preparato. Mentre l’inverno passava frenetico nella capitale in ricostruzione, dove le armate romane svernarono in una città scoperchiata e in buona parte abbandonata, gli ambasciatori praghesi si diressero a Parigi, Londra, Copenhagen, Stoccolma e Varsavia.
I risultati furono molto variegati. Louis XIII acconsentì all’invio di denaro e organizzò un’invasione della Gallia Superiore in cambio della cessione della Lorena occidentale e di alcune fortezze nelle Fiandre. Charles I d’Inghilterra era impelagato in una durissima guerra civile che sembrava non avere fine, perciò non aveva un singolo soldato o moneta da inviare sul continente. Inoltre la flotta inglese era nelle mani del Parlamento, che controllava la capitale e il sud dell’isola e quindi non si sarebbe potuto muovere neanche se lo avesse voluto. Christian IV di Danimarca acconsentì a impegnare insieme alle forze svedesi i russi, alleati di Costantinopoli, nella Livonia e nella Finlandia in cambio di alcuni territori di confine in Scandinavia e privilegi commerciali nei porti tedeschi e delle Fiandre. Infine la Polonia promise la neutralità e un generico impegno a contenere russi, tartari e ungheresi al di là delle terre del Reich, in cambio di un tributo e del sostegno imperiale in caso di futuri conflitti con la Russia.
Nell’assemblea generale convocata a Berlino nel febbraio del 1637 Albrecht ottenne il pieno appoggio dei più alti nobili di Germania alla sua politica: vennero investiti 50 milioni di talleri per le paghe, l’arruolamento e l’equipaggiamento di un imponente forza esclusivamente tedesca. Le fucine e le fonderie del nord iniziarono a sfornare picche, archibugi e cannoni ad un ritmo frenetico, mentre migliaia e migliaia di giovani si arruolavano nei nuovi reggimenti nazionali. Va detto che l’opera compiuta da questo grande nemico di Costantinopoli fu tanto importante per la nascita della Nazione tedesca quanto quella di Caesar, Augustus, Contantinus Magnus e Alexios VI lo fu per l’Impero Romano.
Romanos aveva davanti a se due possibilità: avanzare direttamente sulla capitale della Germania protestante, Praga, oppure liberare completamente Austria e Baviera per ridarle ai suoi “alleati” cattolici. Alla fine optò per la seconda scelta.
Tra marzo e maggio i suoi uomini resero sicura l’Austria, cacciando tutte le forze di Pappenheim e ricostruendo strade militari e fortezze. Parallelamente la regione venne ripopolata da coloni cattolici che venivano dall’Ungheria, dalla Transilvania, dall’Italia e dalla Spagna – in tal modo il basileus si liberò di molti potenziali ribelli delle sue terre, che crearono un tipo di società molto più aperta e tollerante di quella precedente al conflitto. Solo quando si sentì le spalle coperte Romanos si decise a calare sulla Baviera.
Lasciò 30.000 romani e 10.000 alleati asburgici in Austria e con 70.000 uomini si diresse verso Monaco. Il kaiser Albrecht III, sapendo di non essere ancora pronto ad affrontare quella macchina da distruzione, ordinò di evacuare completamente l’area, permettendone una così veloce riconquista. Anche nel secondo dominio cattolico più importante della Germania venne effettuata un’opera di ricostruzione, ricattolicizzazione e ripopolamento.
A questo punto, però, scattò il sistema di alleanze di Wallenstein: infatti nel giugno del 1637 la Francia dichiarò guerra all’Impero Romano, seguita a ruota dalla Danimarca e anche, a sorpresa, dall’Inghilterra, dove Charles I aveva finalmente trovato un’intesa con il Parlamento.
Romanos si vide circondato da avversari, quando 36.000 francesi invasero le terre della Gallia imperiale e una flotta anglo-danese iniziò a saccheggiare i porti iberici, ostacolando le rotte oceaniche che portavano l’oro e l’argento colombiano. In più le sue spie lo avvisarono che un agguerrito esercito di 80.000 uomini marciava verso la Baviera sotto il comando di Wallenstein e Pappenheim, mentre altri 10.000 tedesco-svedesi rinforzavano i francesi in Provenza.
Stava ancora escogitando un piano quando lo raggiunsero a Monaco due ambasciatori. Il primo portava la notizia della morte a causa della gotta del kaiser cattolico Philipp III, il secondo arrivava dall’armata di Albrecht III, con allettanti proposte di pace.
In sé il kaiser protestante proponeva il ritorno dei precedenti signori cattolici nelle loro terre, il loro reinserimento nella politica imperiale tedesca con l’unico obbligo di giurargli fedeltà e di rispettare la libertà religiosa individuale. In quanto agli acerrimi nemici, ovvero i Wittelsbach di Baviera e gli Habsburg, sarebbero stati perdonati e Philipp avrebbe potuto subentrare al padre nei titoli di grossherzog d’Austria e re di Ungheria, ma avrebbe dovuto abbandonare quelli di Boemia, delle Fiandre e quello di kaiser, che sarebbero passati nelle mani della famiglia Wallenstein. Infatti tra il 1633 e il 1637 la regina-imperatrice Christina aveva dato alla luce due figli al marito, Albrecht e Friedrich, assicurando la continuità della dinastia.
Vistosi pressato da più parti, Romanos accettò la tregua, obbligando il riluttante Philipp ad accettare tutte le condizioni di Albrecht III e costringendolo a compiere, insieme a Maximilian di Baviera, un atto di umiliante sottomissione a Praga.
Wallenstein otteneva così il suo scopo: avere una pace tedesca e il tempo per ricostruire una Nazione distrutta dalla guerra e dai conflitti religiosi, oltretutto da una posizione di forza e di accentramento di potere tale che mai nessun altro kaiser prima di lui aveva avuto.
Dall’altro lato Romanos era libero di concentrare le forze contro tutti i nemici che avevano rialzato la testa quando le forze romane erano impegnate in Germania. Nel 1638 Ottavio Piccolomini sconfisse i francesi in Gallia Superiore, costringendoli a chiedere una tregua e a pagare un’indennità di guerra per i danni perpetrati nella regione.
In quanto agli atti di pirateria anglo-danesi, vennero risolti con un misto di guerra e diplomazia: con la corruzione gli agenti di Romanos fecero scoppiare nuovamente il conflitto tra il sovrano e Parlamento in Inghilterra, e nel 1639 la flotta d’oltremare romana imbottigliò presso Brest i vascelli nemici, affondandone 22 e catturandone 15. Il blocco del Tamigi costrinse gli inglesi a cedere, riconfermando la loro lealtà a Costantinopoli. Il comandante della flotta Andronikos Kantakouzenos stava meditando uno sbarco per riconquistare l’isola persa meno di vent’anni prima, ma alla fine si accontentò dell’atto di sottomissione formale che i notabili del Parlamento effettuarono il 25 maggio. Poi diresse i suoi galeoni a nord, portando nuovamente una flotta romana nel Mare del Nord dopo più di quindici secoli, puntando su Copenhagen. Christian IV dovette implorare la pace dopo che i suoi cantieri navali vennero spazzati via dalla furia dei cannoni e dei lanciafiamme romani.
Sembrava che il potere imperiale fosse tornato allo splendore dei tempi di Basileios IV, ma una sciagura colpì Romanos, che in quei mesi venne trattenuto nella capitale da una persistente malattia, che per poco non lo uccise e infine lo debilitò, sia nel corpo che nella mente, per il resto della vita. In quella situazione drammatica, visti i giovani principi imperiali ancora incapaci di agire, il potere venne gestito da Ioannes Palaiologos e da Maurikios Scholarios, rispettivamente il megas domestikos e il megas logothetes. I loro abusi raggiunsero dei livelli tali che la corruzione e il malgoverno imperarono fino a far scoppiare diverse rivolte nei themata.
In più, dal 1640, si era diffusa una corrente scismatica cristiano-orientale, erede dei movimenti dei pauliciani e dei bogomili dei secoli passati, che affermava dottrine contrarie sia all’ortodossia, sia al cattolicesimo. Il loro fondatore, un monaco armeno chiamato Mechitar, fu un acceso fautore di un rinnovo di spiritualità del suo popolo e fondatore della corrente mechitarista.
Il problema maggiore fu che intorno a lui si coagularono le lagnanze degli aristocratici armeni d’oriente, vessati dalla nuova politica intollerante di Costantinopoli. Ioannes Palaiologos, fervente ortodosso e inoltre alleato politico del patriarca Kyrillos, tentò di reprimere con la forza il movimento.
La notte del 16 luglio del 1642, a Costantinopoli, il popolino fu scatenato su armeni, georgiani e circassi, che avevano adottato in massa la nuova dottrina. Morirono quasi 5.000 persone, mentre altre vennero segregate, picchiate o violentate. Ioannes non aveva però valutato che oltre la metà delle armate orientali era composta da armeni e georgiani, che si erano sempre distinti per abilità bellica, resistenza e gran capacità organizzativa. Il magister militum per orientem stesso era armeno!
Questi, dalla sua base a Cesarea, si ribellò e si proclamò basileus, seguito a ruota da tutte le truppe e i themata orientali. Infatti Ioannes, con la sua folle politica di intolleranza religiosa, si era inimicato, come Konstantinos XIII sessant’anni prima, sia gli egiziani copti, sia i siriani maroniti, non contando i musulmani e gli ebrei. Solo i cattolici, vista la recente alleanza militare, vennero risparmiati dalle persecuzioni, limitando dei danni che erano già imponenti per conto loro.
Il nuovo basileus, che di nome di battesimo faceva Gagik Kamsarakan, scelse per sé il nome di Alexios quando venne incoronato dal patriarca di Antiochia Georgios Malissenos, e immediatamente si adoperò per creare consensi intorno a sé. Adottò una politica di più totale libertà religiosa e accolse nella sua capitale di Antiochia lo stesso Mechitar, proclamandolo patriarca d’Armenia, elevando quella regione da vescovado a patriarcato.
Ioannes richiamò Piccolomini dall’Italia, lo fornì di risorse e mezzi e lo spedì in Anatolia.
Piccolomini era legato da un rapporto d’amicizia con l’ex magister militum d’oriente, perciò operò con calma in attesa di una soluzione diplomatica o magari di un’indolore rimozione dall’incarico. Nel 1643 aveva occupato solo l’Anatolia occidentale, prendendo tutta la costa fino ad Attalia a sud e Sinope a nord, posizionando il suo quartier generale all’altezza di Iconio. Alexios l’Armeno si era invece occupato di mantenere un rapporto di neutralità con i persiani, aveva stretto contatto con le colonie romane nell’Oceano Indiano e aveva bloccato i rifornimenti di grano dell’Egitto. Un suo comandante, Reuben di Edessa, con una lunga marcia, si era impadronito di Cirenaica, Libia e Africa, occupando Cartagine nell’ottobre dello stesso anno.
Ioannes e Maurikios erano furiosi, tanto che rimossero Piccolomini dal comando e si divisero i compiti. Il primo avrebbe marciato su Antiochia con 40.000 uomini, il secondo avrebbe ripreso Cartagine con la flotta e 20.000 soldati.
Inutile dire che era proprio quello che Alexios stava aspettando. Ispirato dall’epopea di Wallenstein, che aveva strappato alla dinastia Habsburg il loro trono secolare con la formula di comando militare e tolleranza religiosa, aveva anche lui l’obiettivo di rovesciare i Komnenoi Palaiologoi, per instaurare una nuova dinastia armena a Costantinopoli.
D’altro canto non pochi imperatori nella storia di Roma erano usciti dai ranghi dei militari armeni, quindi sarebbe stato un ritorno alla tradizione del passato di scegliere per il trono il più forte e il più abile, cosa che era caduta in disuso solo con l’affermarsi delle dinastie aristocratiche degli ultimi sei secoli.
Alexios aspettò l’armata di Ioannes in una strettoia nei pressi di Miriocefalo, dove nel 1176 era finito in un imboscata turca e pesantemente sconfitto l’imperatore Manouel Komnenos. Ioannes, digiuno di scienza e cultura militare, cascò stupidamente in una nuova imboscata, questa volta tesa dai veterani romani delle truppe orientali, che bloccarono le vie d’accesso del valico sia del fronte, sia della retroguardia del suo esercito. Dopo due giorni di blocco gli ufficiali, che avevano consigliato prudenza all’imbelle Ioannes, gli si ribellarono: fecero arrendere quasi 40.000 uomini e consegnarono al vincitore il loro comandante.
Alexios risparmiò tutti e gli integrò nelle sue forze, ma diede Ioannes alle vedove e ai figli di alcuni superstiti dei massacri del 1642. Questi ultimi, la notte del 16 aprile del 1644, lo picchiarono a morte, fecero a pezzi il cadavere e infine ne bruciarono i resti.
Più o meno nello stesso periodo la flotta comandata da Maurikios veniva sorpresa alla fonda presso Siracusa, dove venne attaccata dalle navi di Reuben e dello strategos d’Africa Nicola d’Alagon. I due comandanti, con un sapiente uso di brulotti e una susseguente azione fulminea, affondarono o misero fuori uso 22 galeoni da guerra e molte navi da trasporto. Maurikios rimase così intrappolato in Sicilia, da dove riparò vigliaccamente in Italia, lasciando i suoi soldati allo sbando sull’isola e rifugiandosi a Roma, presso i suoi parenti Colonna.
Alexios aveva solo da prendere Costantinopoli, ma si trovò di fronte un ostacolo insormontabile: Piccolomini e Montecuccoli, fedelissimi della dinastia, che avevano operato in modo tale da riassemblare le magre forze rimaste nella capitale e nei dintorni, richiamato tutte le truppe balcaniche e italiane che potevano sottrarre ai confini e stretto contatti con i comandanti delle flotte di Costantinopoli e della Spagna.
Nell’estate del 1644 un trionfante Alexios venne frustrato dal blocco navale dell’Anatolia, compiuto da 60 galeoni da guerra della Neon Nautikon al comando di Mehmet Celebi, droungarios di origine turca che non era passato al nemico. Inoltre la fiducia iniziò a tornare nella popolazione quando Romanos riuscì a ritrovare un momento di lucidità e di sanità fisica tale da tornare al comando e coordinare le difese.
Alexios l’Armeno comandò allora a Reuben di guidare la flotta africana e italiana – passata dalla sua parte dopo la battaglia di Siracusa – verso lo stretto dei Bosforo, per forzare il blocco e permettere il suo passaggio in Europa. I giorni che andarono da il 18 e il 24 agosto videro le due schiere navali sfidarsi in scaramucce e piccoli scontri, ma fu la battaglia del 25 a risultare decisiva. In un’epica lotta quasi 200 galeoni si contrapposero con alterne vicende dall’alba al tramonto. Solo per le otto di sera Mehmet riuscì a spezzare la formazione nemica, conquistando con la sua capitana Aghios Ioannes la nave del comandante nemico, la Basilissa.
Immediatamente molte navi rimaste si arresero alla flotta di Romanos, mentre solo poche ripararono nei porti di Cizico ed Eraclea, che erano in mano di Alexios.
Romanos poté così tirare un grosso sospiro di sollievo e iniziare i piani per riprendere in mano la situazione: in primo luogo si occupò di eliminare tutte le cause di rivolta, abrogando le leggi e le angherie compiute verso i sudditi non ortodossi o cattolici. Abbassò le tasse e iniziò un’opera di propaganda e legittimazione della famiglia imperiale. In secondo luogo contattò i nobili armeni e georgiani più moderati, proponendo un ritorno alla situazione precedente alla rivolta, con la tutela dell’autonomia culturale e religiosa della chiesa autocefala armena e il rispetto dell’elevazione a patriarcato dell’Armenia. In terzo luogo promise che non avrebbe fatto alcuna epurazione di ribelli, ma anzi avrebbe punito i colpevoli degli eccidi del 1642 e avrebbe preso gli orfani e le vedove sotto sua personale tutela. Con un ultimo magistrale colpo da maestro giunse perfino a promettere salva la vita a Gagik – non lo chiamò mai con il suo nome imperiale – se avesse deposto le armi e si fosse ritirato in un monastero.
I suoi sforzi vennero ben presto premiati, con il ritorno quasi immediato di Africa, Egitto e Palestina sotto ufficiali a lui fedeli. Quando poi, nell’autunno del 1644, fece decapitare a Costantinopoli Maurikios Scholarios insieme ad alcuni caporioni del massacro del 16 luglio e liberò Reuben – tenendolo però coma “ospite” alla Corte, molti naxarar armeni giurarono pubblicamente fedeltà al legittimo basileus.
Alexios l’Armeno dovette arrendersi all’evidenza quando vide le sue fila dissolversi come neve al sole nell’inverno del 1645. Quando giunse la bella stagione dei 70.000 uomini che aveva avuto dopo la vittoria di Miriocefalo rimanevano solo poche migliaia di seguaci. Quando Piccolomini e Romanos V sbarcarono a Nicea il 2 aprile con 36.000 uomini si sentì perduto, cavalcò fino al campo imperiale e si arrese all’imperatore, implorando la sua clemenza.
Il basileus lo fece prostrare davanti a sé e gli posò il piede cinto di porpora sul collo, in segno di supremazia. Ma era solo un gesto rituale, infatti subito dopo lo aiutò cordialmente a rialzarsi e discusse con lui di teologia e di filosofia fino a sera. Al tramonto venne mandato in un monastero all’esterno di Nicomedia, dove rimase una notte in digiuno e preghiera, per prepararsi spiritualmente al rito dell’indomani.
La mattina, alla presenza di Romanos, del nuovo patriarca di Costantinopoli Maximos V – Kyrillos era stato destituito per i suoi crimini nel 1644 e morirà in solitario esilio in Crimea nel 1649 – e del patriarca d’Armenia Melchitar I, Gagik venne tonsurato e ordinato monaco ortodosso con il nome di Mathaios. Aveva trentasei anni e risentiremo parlare di lui nella nostra cronaca.
Alberto Massaiu
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