La pace era ritornata nell’Impero Romano, ma la situazione era sempre legata alla precaria salute del sovrano, che soffriva di altalenanti alti e bassi, che portavano ad una situazione interna ed esterna caratterizzata da una “costante incostanza”, come ebbe da sentenziare un irritato Ottavio Piccolomini dopo l’ennesima riunione del Consiglio Ristretto, una sorta di gabinetto di esperti che l’imperatrice Giulia aveva affiancato al suo sventurato ma amato consorte.
La nostra fonte di maggior spicco dell’epoca, Theodoros Mouzalon (1612-1658), che lavorò alla Corte Imperiale fin dal 1636 come studioso e letterato e che annoverò tra le sue amicizie sia il Bernini (l’architetto preferito di Giulia Borghese), sia il filosofo Cartesio (che insegnò all’akademia di Costantinopoli dal 1638) e molte altre figure che frequentavano stabilmente la corte come ufficiali, burocrati e religiosi romani, oltre che militari, ambasciatori e strani personaggi di innumerevoli nazionalità.
Theodoros ci dipinge uno straordinario affresco di una civiltà magnifica e incantata, stretta tra modernità e misticismo orientale. Crocevia di commerci, religioni, culture e idee. Lussuosa e gaudente da un lato, austera e intollerante dall’altro. Potente e temuta da tutti i vicini ma allo stesso minata dai germi di decadenza e da debolezze che porteranno ad una profonda crisi tra la fine del XVII e l’ultima decade del XVIII.
Veramente interessante la sua opera sulla vita cittadina intitolata “Byzantium”, poi c’è un trattato sulla vita monastica, uno sul protocollo della corte e una raccolta di poesie a sfondo epico-eroico. Nell’ultimo periodo della sua vita trattò anche di storiografia, e noi gli siamo eternamente grati per averci fornito fonti di prima mano su questo periodo storico così complesso.
Theodoros doveva conoscere molto bene Romanos V, visto che avevano passato insieme il periodo di esilio in Sardegna ai tempi del fratello Isakios il Folle, infatti ci narra con precisione diverse riunioni del già citato Consiglio Ristretto. In una di queste il basileus, in un momento di poca lucidità, propose l’invasione… della Cina!
Poco ci mancò che, nel 1650, riuscisse a far scoppiare la guerra con Francia, Impero Germanico e Inghilterra per aver insultato i loro emissari, ma per fortuna l’intervento congiunto del patriarca di Costantinopoli Maximos VI e del megas logothetes Manouel Gonzaga salvarono la situazione.
Il patriarca Maximos VI, succeduto a Maximos V nel 1648, è una nostra vecchia conoscenza. Infatti il monaco Gagik-Mathaios, ex magister militum per orientem ed ex basileus usurpatore, ne aveva fatta di strada da quel giorno di primavera del 1645 nel quale era stato consacrato. Entrato all’akademia di Costantinopoli, aveva insegnato teologia per due anni. Poi, nel 1647, aveva partecipato ad una missione diplomatica in Armenia e Siria, dove aveva ottenuto consensi per la convocazione di un Synodos per l’unificazione delle correnti locali con l’ortodossia di Stato.
Il risultato del suo operato fu così apprezzato a Costantinopoli che lo stesso patriarca lo volle presso di sé, facendolo conoscere alle più alte personalità ecclesiastiche della capitale. Il monaco Mathaios aveva un’incredibile capacità persuasiva e diplomatica, una spiccata cultura e una non indifferente prestanza fisica che derivava dal suo passato militare, che lo portarono in pochi mesi ad ottenere il rispetto e l’ammirazione di tutti. Alla morte di Maximos nel duro inverno del 1648 fu scelto come suo successore, con l’approvazione dello stesso Romanos, che lo aveva sempre preso in simpatia nonostante il tentativo di usurpazione.
Il suo lunghissimo periodo di carica (1648-1688) fu caratterizzato da un’intensissima attività culturale e di riformazione religiosa, in vista di una futura riunione di tutte le chiese in una nuova oikoumene cristiana. Il progetto grandioso del giovane patriarca, caratterizzato da una lungimiranza e una pianificazione certosina, sarà coronato da un parziale successo durante la sua vita, ma avrà un immenso peso nel futuro e sarà soprattutto fonte di ispirazione per un intera generazione di sacerdoti, monaci e alti prelati che saranno conquistati dal suo sogno.
Il primo passo fu l’indizione di un concilio a Costantinopoli per 1652. Vennero invitati i più alti prelati e le figure più carismatiche e dotte delle varie correnti scismatiche e autocefaliche orientali: armeni, maroniti, monofisiti, mechitaristi, copti e altre. Per dieci mesi ci furono confronti e discussioni sui vari temi che li differenziavano dall’ortodossia e dagli altri: lievitatura o meno del pane, il credo, la lingua liturgica, la natura di Cristo e alcune scelte terminologiche.
Il clero costantinopolitano, già preparato dal suo carismatico patriarca, era pronto a fare alcune concessioni in vista di una nuove unione ecumenica orientale, quindi le sterili e lunghe discussioni che avevano fatto fallire molti altri synodoi vennero disinnescati.
La notte di natale del 1652 fu firmato un documento storico: le varie correnti, con l’eccezione di pochissimi fanatici separatisti, decisero di rientrare nell’alveo ortodosso e riconobbero il sistema pentarchico con una supremazia morale di Roma e Costantinopoli.
Fondamentalmente tutto si basava su una serie di compromessi, dove veniva riconosciuto una graduale autonomia locale in tema di differenze linguistiche o usi locali in favore di una supremazia riconosciuta a livello accentrato dei patriarchi di Roma, Costantinopoli, Antiochia, Alessandria e Gerusalemme. Ulteriore passo era stato l’elezione al soglio patriarcale di Antiochia di Thaddaios di Acri (monofisita), in quello di Gerusalemme di Loukas Armeniakos (mechitarista) e a quello di Alessandria di Leon Taktikios (copto).
Il successo fu tale che anche molti scettici tra il clero ortodosso si convinsero della bontà delle scelte del patriarca Maximos, sia perché avevano portato dei frutti così inattesi, sia perché erano avvallate e appoggiate dal basileus Romanos.
Inoltre, nella logica militare che l’ex generale si era riportato dietro dalla sua vita precedente, chiunque risultasse troppo “duro” da convincere e non sia adattava alla nuova logica ecumenica della sua politica, veniva indirizzato ad una vita più meditativa e ascetica. Infatti tra il 1650 e il 1660 molti monasteri della Morea, della Crimea, della Georgia e dei deserti africani o del Sinai videro un costante flusso di prelati di alta gerarchia che “scelsero” la via del monastero di rigore.
Queste purghe permisero l’affermarsi di un clero riformista a Costantinopoli e nei themata, che oltre a molte concessioni in ambito di usi liturgici locali, si attirò l’approvazione di molti strati della popolazione per il suo avvicinamento alla loro realtà quotidiana e la simpatia di appartenenti ad altre confessioni religiose, che vedevano in questa nuova ventata di tolleranza un apertura mai vista prima dai rigidi ranghi della chiesa ortodossa.
Maximos era solo alla prima fase del suo progetto, infatti il secondo passo doveva essere quello di unire i cattolici ai nuovi ortodossi ecumenici, ricreando un’unione forte per schiacciare i protestanti. Infatti, nonostante la sua apertura mentale, il patriarca vedeva nei luterani una corrente che si era allontanata troppo dalla Vera Fede, e la loro unica possibilità sarebbe stata quella di riadottare gli usi precedenti alla riforma di Luther o di rimanere eretici.
Iniziò quindi un periodo di fittissima corrispondenza epistolare con Innocenzo X e il suo successore Alessandro VII, in vista di un concilio da aprire a Ravenna per il 1655. Tra varie discussioni e rinvii (vi sarà perfino un invasione francese dell’Italia settentrionale nel 1652) si giunse a convocare il tanto agognato synodos solo per il 1661, nella città di Milano.
Vi giunsero delegati dalla Germania, dalla penisola iberica, dalla Francia, dalle isole britanniche, dalla Polonia, dall’Ungheria, dai paesi del nord e da Avignone – papa incluso – per i cattolici, mentre dal lato ortodosso furono convocati gli altri prelati romani, russi, valacchi, moldavi, ucraini e perfino dei messi abissini del Corno d’Africa.
Giunsero a Milano oltre 3.000 prelati, i supremi reggitori del potere spirituale occidentale e orientale, che risiedettero nella metropoli lombarda per oltre due anni, dibattendo sulle principali differenze e sottigliezze teologiche tra le due maggiori correnti cristiane: lievitazione o meno del pane, liturgia e lingua, il Credo e la figura del papa.
Maximos VI, ancora nel pieno vigore delle forze visto che aveva a malapena superato la cinquantina, dominò il concilio milanese, esprimendo con una veemente e accalorata oratoria la necessità di un oikoumene cristiano unito e potente, che andasse al di là dei particolarismi locali di rito e delle scelte linguistiche, ma che avesse nella fede comune un baluardo contro i nemici comuni eretici e pagani.
Va detto che alcune sue espressioni molto forti, usate quei giorni come mero strumento retorico dal patriarca – il suo atteggiamento verso musulmani ed ebrei fu sempre molto tollerante e rispettoso – ebbero un eco sinistro nel futuro.
Come la storia dimostrerà, alcune frasi, da lui utilizzate in un certo contesto, verranno poi estrapolate e strumentalizzate nel XX secolo da fanatici xenofobi come Hitler o Kostakis, che le citarono per inculcare nelle masse sentimenti di odio verso chi era diverso.
Il concilio perdurò fino alla fine del 1663, e porterà all’Atto d’Unione delle Chiese del 1° gennaio del 1664, che coronava il sogno di Maximos. I contenuti si basavano su reciproche concessioni in ambito dogmatico e gerarchico, con il pontefice di Avignone che rientrava trionfalmente a Roma con la duplice carica di patriarca e vescovo della metropoli, rientrando nell’ambito del sistema pentarchico, con un grado di superiorità morale ma non istituzionale della sua figura. Ogni nuova modifica del credo e della liturgia sarebbe stata approvata solo da un synodos con a capo i cinque patriarchi in un ruolo-guida.
In quanto al credo, venne riconosciuta la formula ortodossa, ma il filioque venne permesso come aggiunta liturgica locale dell’occidente latino. Stessa cosa per la lievitazione del pane e di alcuni usi liturgici differenti, derivati da secoli di distacco giurisdizionale tra franco-latini e romani.
Naturalmente l’Unione era ancora precaria e questo sarà dimostrato dalle necessarie ulteriori riunioni che continueranno fino al 1680, anno dove a Tessalonica il patriarca Innocenzo XI e i vescovi di Treviri, Magonza, Colonia e Rheims faranno atto di comunione con il clero orientale.
Inoltre alcune branche di fanatici separatisti cercheranno di eleggere dei pontefici cattolici anti-unionisti, ma questi verranno tutti scomunicati o scompariranno nell’oscurità – l’ultimo sarà il papa latino Christianus II di Worms, che finirà i suoi giorni in esilio nella protestante Svezia nel 1677.
Coerente con la sua politica religiosa Maximos agì, con il consenso appena creato, verso gli ultimi “scismatici”, ovvero i luterani. La sua azione si mosse in due direttive d’azione: da un lato il tentativo di dialogo ma in maniera meno flessibile rispetto a prima, ovvero ponendosi in posizione di forza dove questi ultimi avrebbero dovuto accettare il nuovo ordine con poche concessioni (reintroduzione degli ordini religiosi, il culto dei santi, i sacramenti, il sacerdozio e molto altro). Dall’altro lato usò tutto il suo ascendente sulla Corte Imperiale perché si muovesse guerra verso i regimi protestanti che non accettavano il clero ecumenico e che rimanevano attaccati alla loro devianza religiosa.
Romanos e suo figlio Germanikos, pieni di orgoglio per i risultati ottenuti dal loro patriarca, non vedevano l’ora di combattere contro gli eretici del nord.
Il basileus aveva deciso di intentare una nuova invasione dell’Inghilterra, per farla ritornare sotto la giurisdizione romana come un trentennio prima. La situazione era d’altro canto drasticamente cambiata: nel 1645 i monarchici cattolici erano stati sconfitti nella decisiva battaglia di Naseby dalle forze del parlamento. Nel 1649, dopo alcune trattative fallite, la sua cattura e il tentativo di fuga, il sovrano Charles I Stuart era stato giustiziato sulla pubblica piazza ed era stata proclamata la repubblica inglese.
Il clima era però rovente, infatti i cattolici nostalgici della monarchia, gli anglicani parlamentari e i puritani – una corrente evangelica molto rigida e osservante – si massacravano nelle strade e lottavano in un parlamento paralizzato dalle lotte di fazioni. Nel 1651 il comandante degli eserciti repubblicani e artefice di molte vittorie sui realisti nella Guerra Civile, un borghese puritano di nome Oliver Cromwell, prese il potere, sciogliendo il parlamento e dichiarandosi Lord Protector d’Inghilterra.
Di fatto instaurò una dittatura che durò fino alla sua morte, nel 1660. Proprio di questi sconvolgimenti politici volle approfittare il basileus, che mosse la flotta oceanica verso i lidi britannici con un esercito di 30.000 soldati.
Il comandante romano Andronikos Phokas, un anziano generale imparentato con la famiglia di Romanos perché aveva sposato la figlia di suo fratello maggiore Manouel, Eirene, non si era distinto per particolari vittorie militari, ma aveva militato sotto Piccolomini in Germania e Francia tre lustri prima.
Il giudizio diffuso su di lui tra i comandanti romani del tempo era positivo solo quando operava da subordinato, non di sicuro come comandante autonomo. Infatti la sua propensione a meditare molto le azioni da compiere e l’eccessiva prudenza lo portavano a chiedere spesso il consiglio altrui e a preferire quindi il ricevere direttive da un superiore in grado.
Fatto sta che Romanos non badò a spese, mobilitando uomini e mezzi e stringendo i consueti accordi con l’ormai anziano ex avversario Albrecht III di Germania per “l’affitto” dei porti dei Paesi Bassi in caso di operazioni prolungate in terra inglese.
La campagna iniziò nei primi di maggio, con la flotta che si diresse verso le coste del Kent con un buon vento favorevole.
La marina inglese stava aspettando il naviglio romano al varco. Nei pressi della Bretagna ci fu un duro scontro navale che costò diverse navi ad entrambi, mentre un’altra battaglia fu combattuta presso le scogliere di Dover qualche giorno dopo.
Vista la situazione, il pavido Andronikos decise di ritirarsi in terra amica, nel porto di Amsterdam. A metà strada, però, fu intercettato da 22 galeoni britannici, e perse altre navi di retroguardia senza opporre resistenza. La sconfitta aveva demoralizzato i suoi uomini, e i danni erano così gravi che si puntò sulla più vicina città portuale di Dunkerque, sempre sotto la tutela germanica.
I fiamminghi, però, protestanti puritani come gli inglesi, non avevano simpatia per gli ortodossi, e presto nella cittadina scoppiarono moti civili e vennero effettuati sabotaggi sulle riparazioni dei galeoni da guerra.
Andronikos perse completamente la testa e lasciò scatenare le sue milizie sulla folla, facendo oltre 1.000 morti in tre giorni. La reazione del kaiser, che in quei giorni seguiva le operazioni degli “ospiti” da Gand, fu furiosa: venne dato un ultimatum di dieci giorni per levare le ancore o sarebbe stata la guerra anche con il Reich.
La notizia di 40 galeoni della marina tedesca e 32.000 soldati che si avvicinavano a Dunkerque fece intendere al magister militum che la minaccia era più che reale, perciò al settimo giorno dovette puntare il tutto per tutto e tentare un azzardata invasione.
Se non vi erano stati risultati con dei piani, era indubbio che ce ne sarebbero stati ancora meno da sprovvisti. Stranamente la flotta inglese decise di non ostacolare lo sbarco, ma quando 20.000 romani sbarcarono sulle spiagge del sud dell’isola si trovarono davanti quasi 35.000 uomini tra fanti e cavalieri, tutti in una sgargiante divisa rossa.
Erano la New Model Army, ovvero il secondo esercito europeo – dopo quello tedesco – a copiare il sistema di arruolamento di reparti regolari a tempo pieno dei romani.
La spiaggia dello sbarco fu sottoposta ad un pesante bombardamento, mentre apparvero le navi da guerra britanniche che attaccarono da tergo la marina imperiale impegnata nelle operazioni di sbarco.
Fu la fine.
In superiorità numerica e in posizione di vantaggio le forze di Cromwell fecero a pezzi la XVI, la XXIII e la XXV Legio, mentre le altre milizie romane andarono a picco o si arresero con 46 galeoni della flotta oceanica.
La battaglia del Tamigi fu l’ennesima sconfitta della macchina bellica di Costantinopoli in quegli anni, mostrando così al mondo che la superiorità qualitativa romana stava venendo pian piano raggiunta da altri paesi europei, e che d’ora in poi per le vittorie sarebbe sempre più contata la bravura dei comandanti. In questo caso la scelta di Andronikos come magister militum fu davvero infelice.
La catastrofe militare ebbe inoltre degli effetti a lungo termine per la gestione e il predominio dello scacchiere oceanico dell’impero. Infatti il naviglio distrutto presso la foce del fiume era il meglio della marina da guerra romana, quello che serviva a controllare e a sorvegliare i traffici e i commerci con le colonie e i possedimenti d’oltremare.
Da questo momento in poi, con una lieve ripresa nell’epoca napoleonica, l’efficienza e il numero della forza navale romana si concentrerà più sul Mediterraneo e sull’Oceano Indiano, ma il predominio su Atlantico e Pacifico verrà sempre più ostacolato dalla marina inglese, francese, svedese e germanica.
Questo cambio di predominio sarà sancito dal sacco di Lisbona da parte anglo-francese nel 1653, dalla perdita di alcune isole caraibiche e della Florida che passarono in mano britannica e francese a più riprese tra il 1656 e il 1670, per non parlare della cessione di alcuni porti africani, indiani e negli arcipelaghi del Pacifico nel tardo XVII secolo.
Gli oceani si trasformarono ben presto in uno scomodo condominio tra più potenze navali, tra le quali prevarrà dopo una lunghissima serie di conflitti, atti di pirateria, imprese coloniali e acquisizioni mercantili, la Gran Bretagna, ovvero l’unione tra gli Stati delle isole britanniche. Questo paese diventerà sui mari la nemesi dell’Impero Romano come i cartaginesi, gli arabi, i normanni e i veneziani lo erano stati secoli prima.
Se nell’Anno Domini 1623 fosse stato Manouel a salire sul trono di Costantinopoli e non Isakios il Folle o l’usurpatore Doukas, forse questo non sarebbe successo e la supremazia imperiale avrebbe regnato incontrastata in tutto l’Orbs Terrarum fino al nuovo avvento di Nostro Signore.
Inutile dire che Romanos fu sconvolto da questa notizia, che si aggiunse al dolore per la morte dell’amatissima Giulia, prostrandolo in modo tale da cancellare in lui ogni briciolo di interesse per la vita politica attiva.
Il potere passò sostanzialmente nelle mani del primogenito Germanikos, che a malapena diciassettenne si ritrovò a dover affrontare una grossa crisi. I francesi, i tedeschi, gli scandinavi e gli inglesi avevano deciso, vista la dura batosta subita dalla sua flotta, di coalizzarsi per ridimensionare lo strapotere romano nel continente.
Venne firmata ad Amiens un’alleanza offensiva che avrebbe dovuto muovere un conflitto in tre direttrici terrestri e una navale.
Una flotta anglo-francese doveva attaccare i porti iberici dell’impero, saccheggiandoli e bloccando i collegamenti con la Colombia, con piani di future invasioni della stessa. In ausilio a questa forza sarebbero stati equipaggiati dei galeoni tedeschi e svedesi che avrebbero bloccato i porti di Tangeri e Ceuta, impedendo o comunque ostacolando l’intervento della marina mediterranea di Costantinopoli.
Un esercito sotto il diretto comando del giovane Louis XIV avrebbe marciato verso l’Italia, con sostegni tedeschi, svizzeri e inglesi, puntando sulla presa della Pianura Padana, con puntata verso Roma.
Un’altra armata si sarebbe invece diretta verso il vallo fortificato della Spagna, sotto il comando diretto di Robert, il figlio di Oliver Cromwell, in modo da agire da diversivo occidentale all’offensiva italica.
L’ultima forza d’assalto sarebbe stata guidata da Albrecht III stesso e da suo figlio, e avrebbe invaso la valle dal Danubio con 60.000 uomini tra tedeschi, boemi, baltici e ungheresi, con l’obiettivo di sostituire l’egemonia romana sui Balcani con quella germanica. Una nuova, tremenda guerra, era alle porte.
Alberto Massaiu
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