Il lungo conflitto tra Impero Romano, Germania, Svezia, Francia e Inghilterra, che passerà alla storia come la Guerra delle Cinque Nazioni, iniziò nell’aprile del 1652, un anno dopo la grande sconfitta sulla Manica.
La situazione dell’Impero Romano non era più stata così critica da molto tempo, e a questo si aggiungeva il rischio di rivolte nei themata e la possibilità di venir tagliati fuori dalle colonie e dalle terre d’oltreoceano. Germanikos mobilitò tutte le risorse a sua disposizione e armò due eserciti, da inviare rispettivamente in Italia e nei Balcani. La Spagna per ora se la sarebbe dovuta vedere da sola contro le forze inglesi.
Il principe ereditario decise di guidare personalmente la prima armata nei Balcani, dato che era là che si sarebbe decisa a suo parere la contesa principale. La seconda, riunita attingendo alle forze orientali, vassalle e alleate, si radunò ad Ancona, agli ordini di Andronikos Kastriotas, Mircea Dracula ed Ercole Colonna.
In Spagna l’unico aiuto concreto fu l’invio di parte della flotta imperiale al comando del droungarios Mehmet Celebi e qualche migliaio di ausiliari e thalassastratiotai di supporto.
La discesa germanica nelle pianure ungheresi poté contare sulla neutralità-sostegno di Philippe d’Habsburg, dimentico dell’aiuto fornitogli da Costantinopoli solo qualche tempo prima. Furioso per quest’atto di tradimento, Germanikos decise di invadere a sua volta l’Ungheria, portando distruzione e guerra in terra nemica invece che difendere unicamente i suoi territori.
Inoltre incoraggiò il giovane Radu III Dracula e l’esperto Stephan VII Asen a muovere dai loro principati di Valacchia e Moldavia alla conquista della Transilvania magiara. Questi non se lo fecero ripetere due volte, e nel giro di poche settimane mossero alla volta di quelle terre con un esercito coalizzato di 30.000 soldati, occupando e saccheggiando numerose città e fortezze al di là dei Carpazi.
La strategia di Germanikos era quella di costringere i tedeschi a svernare in Ungheria, dove il passaggio di oltre 100.000 uomini avrebbe esasperato la popolazione, rendendo difficili i rifornimenti ai nemici, visto che lui poteva farsi facilmente sostenere dalla flotta danubiana e dalle basi in Serbia, Illyria e Dalmazia. Inoltre, con un po’ di fortuna, forse l’Habsburg si sarebbe stufato di veder la propria terra principale devastata e avrebbe voltato le spalle al kaiser di Praga.
Albrecht III decise di sostare a Budapest, contando di dirigersi poi verso Timisoara e da là entrare in Valacchia. Il suo piano era quello di rovesciare i vari principi e signorotti balcanici vassalli di Costantinopoli da quasi due secoli, sostituendoli con dei nobili più malleabili e fedeli al Reich, per poi dirigersi con le spalle coperte e qualche rinforzo locale verso la Tracia o alla peggio in Serbia, a seconda della piega che avesse preso la campagna.
Indubbiamente era un piano ambizioso, soprattutto visti gli scarsissimi risultati che le armi latine avevano collezionato contro quelle romane fin dal XV secolo, ma il lungimirante sovrano tedesco aveva percepito che il vento stava cambiando, quindi optò per un’azione decisiva.
Germanikos, vista la passività del nemico, aveva abbandonato la sua base fortificata di Belgrado e si era diretto lui stesso a Timisoara. Nella città trovò ad aspettarlo Ferdinand d’Habsburg, nipote di Philipp, che difendeva la roccaforte con 10.000 uomini. Dopo alcune trattative per la resa della guarnigione, il comandante romano mise in posizione i suoi 200 cannoni, mortai e bombarde e iniziò a spazzare mura e terrapieni con una pioggia di fuoco.
Tra il 25 giugno e il 18 luglio la roccaforte venne sottoposta ad un durissimo assedio, stretto ulteriormente con l’arrivo di contingenti moldavi e valacchi inviati da Radu e Stephan, che stavano agendo positivamente più a nord, con una campagna che aveva portato alla presa di quasi tutta la Transilvania, non preparata alla guerra dopo tanti decenni di pace.
Alla fine del mese Ferdinand propose la resa, anche perché era venuto a sapere che l’esercito tedesco non si era ancora messo in marcia e quindi la città non avrebbe potuto reggere il tempo necessario all’arrivo dei soccorsi. Germanikos accettò la capitolazione, spedì i prigionieri illustri a Costantinopoli e riattò la fortezza in modo da utilizzarla come ulteriore base di operazioni.
Con 50.000 uomini il principe ereditario si diresse quindi verso Osijek, una fortezza romana sul Danubio, per poi risalire verso Budapest e affrontare là il nemico. Inutilmente Piccolomini, suo ministro della guerra, e Montecuccoli, suo comandante in seconda, cercarono di dissuaderlo ad avanzare ulteriormente. Loro parlavano di strategia difensiva e di contenimento, puntando a fiaccare le forze tedesche prima dello scontro decisivo. Ma Germanikos a quell’orecchio non ci sentiva. Il suo piano prevedeva di penetrare profondamente in territorio nemico, saccheggiarlo e devastarlo in modo da costringere l’avversario a venirgli incontro, per poter decidere dove combattere e stare così in posizione di vantaggio.
La strategia poteva anche funzionare, se non ci fosse stato dall’altra parte un comandante della pasta del kaiser. Ad Albrecht III, infatti, non poteva importargli di meno del destino dell’Ungheria. Questa, dal suo punto di vista, non faceva parte della sacra patria germanica. Anzi, se possibile era anche meglio vederla distrutta, visto che era il feudo di uno dei suoi nobili più potenti e recalcitranti, capi del partito cattolico a lui avverso in ogni reichstag imperiale.
Quindi il piano di Germanikos gli si ritorse contro, mentre esauriva i suoi uomini in marce, assedi, schermaglie e saccheggi nelle pianure magiare. Alla fine il principe ne ebbe abbastanza visto che, secondo lui, aveva conseguito una grande vittoria, umiliando le forze tedesche che non avevano avuto neppure il coraggio di uscire ad affrontarlo sul campo, nonostante che per ben due volte si fosse perfino avvicinato a Budapest. Il 12 settembre diede così l’ordine di ritornare in territorio romano, passando per il Danubio e puntando su Belgrado.
E fu in quel momento che Albrecht attaccò.
La battaglia che si svolse presso il villaggio di Mohács, sulle rive del grande fiume, vide un esercito romano attaccato da tergo proprio nella fase peggiore del suo attraversamento, quando la metà delle truppe aveva già guadato e l’altra ancora no. La retroguardia fu investita dai corazzieri, dragoni, ussari e lancieri a cavallo agli ordini dell’anziano ma ancora energico Pappenheim, che quasi travolse ogni resistenza e rischiò di far finire subito la battaglia.
Per fortuna romana dalla parte ungherese del fiume stava Montecuccoli, che con la consueta prontezza fece riposizionare le poche truppe non sconvolte e tenne il saliente, respingendo le cariche di cavalleria con il fuoco di moschetti e cannoni.
Immediatamente Germanikos ordinò l’invio di tutte le truppe disponibili in rinforzo al suo magister militum, e diede egli stesso l’esempio gettandosi nelle tumultuose acque del corso d’acqua con il suo destriero, seguito immediatamente dagli athanatoi e dalle scholae palatinae. L’urto di queste forze, unito all’arrivo della XIX Legio Sarda, misero in fuga i reparti montati dei tedeschi, ma la situazione rimaneva grave, visto che stava sopraggiungendo il kaiser in persona con il grosso dell’esercito tedesco.
Germanikos dispose le sue forze man mano che, completamente fradice, uscivano dal fiume. Decise di affidare il fianco destro a Piccolomini e il sinistro a Montecuccoli, concentrando laggiù la maggior parte della cavalleria leggera e pesante, con alcuni reparti di telebolontarioi e di moschettieri africani e armeni come sostegno. Al centro si posizionò egli stesso, con la Guardia Imperiale al completo, le truppe pesanti legionarie e ausiliarie e la maggior parte dell’artiglieria.
Albrecht era deciso a rigettare i romani nel fiume, dove non avrebbero avuto scampo, perciò adottò una formazione molto offensiva, con pochi moschettieri in prima linea e molti picchieri in formazione serrata e cavalieri pesanti davanti, in modo da potenziare al massimo la propria forza d’urto. Per quanto la sua ottima azione a sorpresa era ormai fallita, questa aveva comunque inferto diversi danni, scosso il vigore e il morale dei nemici e gli aveva concesso un lieve vantaggio numerico, quindi contava nella vittoria quanto, se non di più, di Germanikos.
Il principe ereditario sapeva bene che l’armata che lui stava schierando laggiù difficilmente si sarebbe potuta riassemblare velocemente, e visto che le notizie dagli altri teatri di guerra indicavano una situazione difficile, anche se non disperata, non poteva permettersi una sconfitta. Una disfatta avrebbe compromesso la credibilità e il potere romano sullo scacchiere balcanico, portando ad un riequilibrio di potere a danno di Costantinopoli, al quale sarebbe probabilmente seguito un trattato di pace sfavorevole in tutti i diritti che accampavano gli alleati ai confini e nelle colonie dello sterminato impero.
Su questi temi Germanikos impostò il suo discorso per motivare le truppe, già esaltate dalla sua carismatica presenza in prima linea – alla fine del conflitto, verrà soprannominato il “Principe Guerriero” dai suoi soldati e poi da biografi, poeti e cortigiani – e dal suo sprezzo del pericolo, infondendo loro la forza di resistere alle schiere tedesche.
Quel 15 settembre, a Mohács, entrambi gli eserciti diedero una superba prova di sé, scrivendo pagine e pagine di gloriosa storia militare, ma alla fine fu quello romano a prevalere, seppur di stretta misura.
Infatti, nonostante le cariche e gli attacchi condotti con grande impeto da svedesi, finlandesi, tedeschi e fiamminghi agli ordini del kaiser, le risolute linee romane opposero una strenua resistenza. Al centro della mischia la leggendaria Guardia Variaga, nonostante dovesse affrontare le picche dei migliori lancieri del nord, si aprì un sanguinoso varco tra le pesanti formazioni luterane, falciando tutto intorno a loro con le loro lunghe asce da combattimento.
Ma fu sui fianchi che si decise la battaglia. Qui i contingenti di cavalieri romani e alleati riuscirono, con l’appoggio di disciplinate raffiche di fucileria dei fanti, a spezzare le formazioni dei corazzieri svedesi e boemi del fianco destro tedesco, mandandolo così in rotta e incalzando il centro. Montecuccoli fu lesto a spedire nella mischia centrale tutte le sue riserve, attaccando sul fianco i migliori reparti di fanteria del Reich.
A nulla valse lo sfondamento a destra effettuato da Pappenheim, perché venne bloccato dai rinforzi della Guardia Imperiale a cavallo inviati da Germanikos, che ristabilirono lo status quo ante e permisero alle forze di Piccolomini di riorganizzarsi e tornare in linea.
Dopo sei ore di combattimenti Albrecht III si avvide del suo fallimento, che rischiava di trasformarsi in una devastante sconfitta, visto che il centro stava per cedere e le sue riserve erano troppo poche per ricostituire i fianchi indeboliti dalle lunghe e sanguinose cariche. Decise quindi di portare avanti le sue linee relativamente fresche di moschettieri, appoggiate da reparti di dragoni smontati, che con il loro fuoco dovevano ricoprire la ritirata delle sue truppe pesanti.
Germanikos, notata la manovra, decise di passare all’offensiva, muovendo fanti e cavalieri all’attacco e spazzando velocemente via le truppe leggere tedesche. Quest’azione, coronata dal successo, non poté però impedire lo sganciamento della crema dell’armata imperiale germanica.
La vittoria romana era netta, ma non decisiva, inoltre le perdite erano state pesanti per entrambi gli schieramenti, con una preponderanza di caduti, feriti e prigionieri per i tedeschi. Un anziano Theodoros Mouzalon riporta nelle sue memorie sulla prima parte della guerra che vi furono 5.000 perdite per i romani e 13.000 per i protestanti, contando anche i prigionieri. Un’altra fonte, questa volta tedesca, conta 5.500 caduti per i primi e 10.000 tedeschi, ma non parla di prigionieri, quindi le cifre di Mouzalon, peraltro sempre molto analitico nei suoi scritti, le prendiamo per buone.
Dopo lo smacco subito la coalizione tedesca iniziò a sfaldarsi, con i nobili cattolici che spinsero l’ormai anziano Albrecht ad una trattativa, sacrificando la Transilvania, sulla quale sarebbe sceso un dominio condiviso tra Valacchia e Moldavia, sotto la ristabilita tutela romana sulla regione.
In base a questi termini Germanikos accettò di firmare una tregua, anche perché era necessario un suo intervento in altre aree, sopratutto in Italia, dove Louis XIV spadroneggiava da mesi, dopo aver completamente conquistato le terre transalpine della Gallia romana.
Louis si era comportato molto bene e, nonostante la giovane età, con l’ausilio di buoni generali e valenti consiglieri francesi e stranieri aveva condotto un’azione magistrale.
Nell’aprile del 1652 aveva sconfitto le raccogliticce forze del magister militum Ercole Colonna presso Marsiglia, e bloccando i passi alpini aveva impedito ai rinforzi comandati da Kastriotas e Dracula di giungere in soccorso e attaccarlo da tergo mentre assediava la città. Nello stesso mese la flotta francese, con l’aiuto di qualche vascello inglese e olandese, aveva sconfitto una forza navale giunta in soccorso di Marsiglia. Il prestigio della marina imperiale raggiunse così il suo minimo storico.
Ai primi di maggio, complici dei traditori all’interno delle mura, l’esercito francese entrò nella città, occupandola. Colonna e 7.000 regolari furono presi prigionieri e inviati in Borgogna, mentre Louis passava alla seconda parte del piano, ovvero l’invasione dell’Italia stessa.
Dracula e Kastriotas, divise le loro forze, presidiavano i valichi alpini, ma l’8 giugno le avanguardie francesi trovarono un valico non segnato dalle mappe e sguarnito, da dove passò segretamente tutto l’esercito invasore. Alcuni anni dopo, gli storici francesi che riportarono di quell’impresa, dissero che probabilmente era stato lo stesso passaggio attraverso il quale il leggendario Carolus Magnus aveva invaso la penisola quasi mille anni prima, eludendo le guarnigioni longobarde di Adelchis e Desiderius.
La notte del 16 giugno sorpresero le ignare truppe romane agli ordini di Andronikos Kastriotas, sbaragliandole nella battaglia di Susa. I pochi superstiti si ricongiunsero alle forze di Mircea Dracula, che dovette indietreggiare fino a Torino. Laggiù le demoralizzate forze imperiali si videro attaccate da quasi 40.000 alleati, che le costrinsero ad una manovra di ripiegamento per evitare di perdere l’unica armata campale rimasta nella penisola.
Tra la fine di giugno e il mese di luglio i francesi furono occupati a prendere fortezze e città in Piemonte e Liguria, dove solo Alessandria e Genova rimasero in mani romane.
Ad agosto, Kastriotas e Dracula riuscirono a radunare a Milano, richiamando rincalzi, rinforzi e guarnigioni, circa 36.000 soldati, con i quali marciarono verso Alessandria, per liberarla dall’assedio posto da Louis. Nella battaglia che ne seguì i francesi subirono la loro prima sconfitta. Ripiegati verso Torino, vennero raggiunti da un nuovo contingente di 20.000 uomini, con i quali costrinsero nuovamente i romani alla ritirata in Lombardia.
L’assedio di Alessandria, difesa da Filiberto di Savoia, divenne una leggenda che ricordò quella di Tunisi del 1489. Infatti gli italiani si difesero strenuamente, utilizzando le appena trenta bocche di fuoco per respingere gli assalti di preponderanti forze nemiche per ben due mesi. Né il piombo, né l’oro, né la fame piegarono i romani nella roccaforte, che tennero la piazza con le unghie e con i denti, rigettando le numerose proposte di resa.
Quando a fine settembre, ricevuti rincalzi e rifornimenti dai Balcani, i due comandanti imperiali mossero verso la città con 50.000 soldati, la cittadina era ancora sotto il dominio imperiale.
Louis dovette togliere le tende e ripiegare, abbandonando persino Torino.
In quei giorni scoppiò una rivolta generale nelle città italiane in mano francese, dove il popolino si sollevò contro gli invasori al grido di “Roma Victor!”. Le bandiere con l’aquila bicipite tornarono a sventolare su mura e torri, mentre le milizie romane si riappropriarono della regione. Due secoli di buon governo avevano ripagato con gli interessi la lungimiranza dei governanti mandati da Costantinopoli o scelti nelle province.
La resa dei conti, con la presenza del principe Germanikos stesso, avvenne presso i valichi del Piemonte il 10 ottobre. In una giornata di nebbia e pioggia la cavalleria romana agganciò la retroguardia francese, facendola a pezzi. Louis decise di dare battaglia, ma l’impeto e il numero degli imperiali fu decisivo, mettendo in rotta le sue tanto vantate truppe e distruggendo le speranze della coalizione sul continente.
Quasi in concomitanza con la vittoria di quel giorno arrivarono buone nuove dalla Spagna, infatti un giovane ufficiale chiamato Hernan da Cordoba, che aveva sostituito l’anziano Niccolò Doria alla guida della difesa della penisola iberica, aveva finalmente ricacciato indietro la truppe inglesi. Ci erano volute due battaglie e la guerriglia del popolo, che era stato terrorizzato dalla propaganda romana sulle atrocità che compivano i protestanti puritani, per fiaccare le efficienti e molto motivate soldatesche agli ordini di Robert Cromwell, che avevano invaso Galizia e Navarra.
L’impero aveva ristabilito l’ordine e la pace sui suoi domini europei, ma la guerra navale era passata completamente in favore degli alleati, che avevano saccheggiato e preso molte rocche e città strategiche in Colombia e negli oceani.
La roccaforte di Panama, le isole di Nuova Creta, Aghios Ioannes e Aghios Mikhael nei Caraibi messe a sacco, la Florida invasa dalla Virginia inglese, Città del Capo presa dagli olandesi, Goa e le dodekapolis in India assediate a più riprese, l’Indonesia e Formosa quasi tutte travolte, alcuni coloni inglesi insediati in Basilia settentrionale e orientale, che ribattezzarono Australia.
I galeoni britannici, francesi, svedesi e tedeschi spadroneggiarono nei mari dal 1651 fino al 1658 con occasionali battaglie, mentre il conflitto proseguiva con solo alcuni strascichi in Europa. Nel 1653 Germanikos dovette condurre una campagna in Francia, riprendendo la Gallia romana e invadendo la Borgogna, da dove fu respinto da un esercito coalizzato anglo-franco-tedesco a Digione.
Nello stesso anno una piccola squadra navale romana sbarcò delle truppe in Cornovaglia, facendo sollevare i sostenitori della monarchia, per cercare così di allontanare l’attenzione della repubblica dai territori d’oltremare.
La rivolta, capitanata dal duke di Buckingham in nome del sovrano in esilio Charles II, prese alcune città locali, si spostò in Galles dove trovò sostenitori tra i locali, ma venne duramente sconfitta presso Winchester in agosto, e poi nuovamente a Cardiff in ottobre. I romani furono presi prigionieri e trattati rispettosamente, i realisti no. Le teste di quaranta nobili furono esposte per tre mesi presso il ponte davanti alla Torre di Londra.
Nel 1654 Germanikos, con i suoi alleati valacchi, moldavi e ucraini, sconfisse un esercito coalizzato tedesco-svedese in alta Ungheria, poi invase l’Austria e ottenne una pace separata con Austria e Baviera, che per poco non si staccarono dal Reich. Albrecht III, malato di gotta e ormai molto anziano, stava perdendo rapidamente la sua energia e il figlio non arrivò mai al suo livello di pericolosità.
Quest’ultimo si fece infatti sconfiggere presso Innsbruck nel 1655 da Mircea Dracula e l’anno dopo, presso Augusta, venne respinto dai bavaresi-asburgici in un tentativo di rimettere in riga i suoi recalcitranti vassalli cattolici. Con una nuova invasione della Francia Germanikos si assicurò la pace con Louis, che decise di ristabilire lo status quo ante, riconsegnando tutte le città e le fortezze prese in Europa e negli altri continenti, tranne alcuni possedimenti nel nord della Colombia e qualche isola caraibica.
Albrecht III spirò nel novembre del 1656, esattamente un anno prima di Romanos, che agonizzava a Costantinopoli da sette anni, colpito da una terribile e debilitante malattia. Suo figlio e omonimo, ebbe immediatamente problemi sia per l’elezione, sia per i soliti problemi dottrinali, perciò decise di firmare la pace con l’impero in quell’anno, liberando il blocco dell’Atlantico, riconsegnando le conquiste marittime e liberando tutti i prigionieri di guerra.
Con lui uscirono di scena i corsari scandinavi e olandesi, lasciando isolata l’Inghilterra.
La repubblica era stata l’inizio delle sventure dell’Impero Romano, perciò fu più che naturale che Germanikos volesse prendersi proprio con essa la sua rivincita. Fin dal 1652 a Costantinopoli era stato ospitato Charles II Stuart, ora era arrivato il momento di utilizzarlo per rovesciare l’arrogante Cromwell, che d’altro canto era malato anche lui di gotta e si diceva prossimo alla morte.
Il figlio Robert non era alla sua altezza esattamente come Albrecht IV di Germania non era alla pari del padre. Germanikos, invece, stava dimostrando un’energia degna dei più grandi imperatori del passato.
Nel 1657 morì Romanos e Germanikos venne incoronato basileus ad Aghia Sophia la notte di Natale. Il suo primo discorso pubblico, pronunciato in seguito alle superbe richieste di pace avanzate dalla repubblica inglese, che prevedevano la completa cessione di isole e basi occupate dalle loro flotte in sei anni, si concluse con una minaccia diretta all’inviato di Londra: “Signor ambasciatore, quando le parole non bastano più, la politica la fanno moschetti e cannoni”. Inutile dire che quella stessa giornata la delegazione repubblicana abbandonò la Regina delle Città.
Qualche mese dopo, davanti alla popolazione festante, venne allestita una flotta di 200 galeoni da guerra, affidata in comando a Ippolito Farnese, e un esercito di 30.000 soldati affidato al magister militum per occidentem Andronikos Kastriotas e a Charles II. Germanikos sarebbe voluto partire con loro, ma le relazioni con il nuovo shāh Ismail IV stavano declinando velocemente e la sua attenzione si doveva concentrare ad oriente.
Nella notte di Natale del 1658, in onore della loro fedeltà, investì Radu Dracula e Stephan Asen dei titoli di prinkeps di Valacchia e Moldavia, oltre che di exarchoi di Transilvania. In tal modo Germanikos dava uguale prestigio ad entrambi ma al contempo creava un terreno di disputa tra loro che riduceva la possibilità di creare un forte Stato unito e indipendente a ridosso delle frontiere imperiali. Inoltre il basileus diventava l’unica entità capace di dirimere le varie controversie di giurisdizione, agendo da arbitro e quindi, di riflesso, da vero signore di uno scacchiere vitale per la difesa contro polacchi, tedeschi o ungheresi.
Tra il 1659 e il 1660 scoppieranno le prime schermaglie tra le truppe persiane e romane, ma per fortuna fu evitato il conflitto, anche grazie all’intermediazione di Tahmasp, fratello minore di Ismail, che era stato educato per dieci anni a Costantinopoli e preferiva le trattative con l’impero piuttosto che un conflitto aperto.
Nella primavera del 1660 il basileus e Tahmasp si incontrarono ad Antiochia per trattare alcune questioni molto delicate, e gli accordi sarebbero durati se nel 1661 lo sfortunato fratello fu ucciso in seguito ad una congiura di palazzo da parte di notabili persiani. Lo stesso Ismail rischiò la vita e la sua vendetta fu terribile: 500 tra nobili, mercanti, militari e religiosi vennero decapitati, squartati, strangolati o impalati nella pubblica piazza o nelle loro abitazioni.
Ma il risultato finale, quello a lungo termine, fu che in assenza di un così valente e lungimirante consigliere e diplomatico, la guerra incominciò davvero, tre anni dopo.
Tornando alla grande spedizione del 1657, i due comandanti Farnese a Kastriotas, entrambi uomini navigati, di notevole esperienza e, cosa non da poco vista la alta competitività tra le alte gerarchie romane, grandi amici tra loro, iniziò con i migliori auspici. Per la fine dell’estate avevano ripulito il Mediterraneo occidentale dal naviglio inglese e da qualche corsaro francese sopravvissuto, ricostituendo la Pax Romana nel Mare Nostrum.
La loro strategia, lungi dall’avventatezza e dal vigore di Germanikos, era pignola, precisa e implacabile. La loro avanzata era paragonabile ad un fiume di lava, lento ma inesorabile. Attaccavano sempre in superiorità numerica, viaggiavano vicini e presso la costa, si rifornivano con regolarità e riparavano i danni nei porti e nelle basi romane. Utilizzarono la prima fase mediterranea delle operazioni per rifar prendere fiducia e guadagnar esperienza ai loro nuovi marinai dopo le tante sconfitte accumulate nei precedenti dieci anni.
Il loro lavoro fu titanico, ma si comportarono splendidamente, ottenendo ottimi risultati. Il 5 settembre 1657 sconfissero una flotta inglese presso Tangeri, sbloccando Gibilterra e la via degli oceani.
Ora si trattava di renderla sicura, perciò i due decisero di svernare in Spagna, dove avrebbero apportato migliorie e potenziato il loro organico bellico per l’anno successivo. Respinsero in ottobre un’ennesima flottiglia che cercava di mettere a sacco la Galizia e il Portogallo, inoltre si accattivarono le simpatie della popolazione proclamando feste e distribuzioni di cibo al popolo in molte cittadine e villaggi.
Ippolito Farnese, dotato di uno spiccato senso religioso e di una tolleranza molto rara a quei tempi, si fece una grande nomea in quei luoghi, soprattutto per i suoi atti di carità. Tra le tante cose, fece erigere a sue spese due ospedali, un orfanotrofio e due chiesette durante la breve permanenza spagnola.
Anche Charles II si fece notare dalla popolazione per i suoi modi molto galanti e cavallereschi, che venivano apprezzati sia dalle dame, sia dalla valente nobiltà locale. In più la presenza di un sovrano, anche se al momento senza regno, colpì molto la penisola, che da oltre un secolo era solo una provincia dello sterminato Impero di Roma.
Nel 1658, appena si riaprì la stagione della navigazione, i tre decisero di puntare immediatamente verso le coste britanniche, dove si sperava nell’appoggio di realisti cattolici, oltre che delle popolazioni gallesi, irlandesi e scozzesi, che avevano in odio il puritano e intollerante governo di Londra.
La dittatura, ora che Oliver Cromwell stava morendo, si era inasprita, con Robert che con l’appoggio dei militari aveva instaurato un vero e proprio stato di polizia, limitando libertà e diritti civili e politici. Tra il 1656 e il 1657, nonostante le vittorie navali della repubblica, erano scoppiate rivolte realiste e parlamentariste nelle Midlands, nel Kent, in Irlanda e Scozia, tutte stroncate da un esercito stabile che oramai superava i 50.000 uomini.
Il 27 maggio del 1658, nottetempo, la flotta romana sbarcò truppe e rifornimenti in Irlanda, dopo un lungo giro in mare aperto per evitare la temuta marina inglese. Immediatamente scoppiò una rivolta in tutta l’isola, con migliaia e migliaia di locali che assaltarono le guarnigioni di Cromwell. Fu quindi gioco facile per Andronikos e Charles impadronirsi delle piazze di Dublino, Cork, Galway e Kilkenny. Solo Belfast, dove parte della popolazione era protestante e vi era stazionata una guarnigione di 8.000 soldati con 40 bocche da fuoco, vi fu una vera e propria resistenza.
Per giugno sbarcarono 7.500 rinforzi repubblicani nei pressi della città, comandati da Thomas Hook, un fanatico puritano. Le sue forze si scontrarono con la X Legio e un reparto di volontari irlandesi, che opposero una fiera resistenza e gli inflissero una dura sconfitta, ma questi riuscì a guadagnare la città con 2.000 superstiti.
La campagna militare andava a gonfie vele, infatti in luglio la flotta romana respinse un’incursione di vascelli britannici, ottenendo una vittoria significativa in termini materiali e fondamentale per il morale. Dopo un ennesimo assalto, in cui partecipò anche Charles II, Belfast capitolò. Ci fu un eccidio di protestanti, con le loro case sventrate e bruciate e i cattolici che si davano da fare per vendicare anni e anni di prevaricazioni sull’Irlanda da parte del governo di Londra.
Charles II si fece incoronare nella cattedrale di Dublino con il titolo di sovrani d’Inghilterra, Irlanda, Galles e Scozia, proclamando la nascita di un nuovo stato, il Regno Unito. Questo discorso paritario infiammò gli animi di tutti, che inneggiarono al nuovo sovrano con impeto. Il novello monarca stava applicando i principi che avevano reso così stabile l’impero, garantendo la parità di diritti e obblighi a tutti i diversi popoli che componevano i suoi domini, evitando che un’etnia soverchiasse l’altra creando astio e rivolte.
Il suo discorso, esplosivo per i suoi contenuti, ebbe i suoi echi sull’isola maggiore, dove il regime di Cromwell favoriva grandemente gli inglesi a scapito delle altre minoranze, che erano giudicate rozze, barbare ed eretiche da Londra.
Robert Cromwell decise di aspettare lo sbarco, optando per non arrischiare le sue forze in un’invasione di un isola tanto ribelle come l’Irlanda. Charles e Andronikos non si fecero attendere, e nel 1659 passarono in Galles, accolti da una popolazione festante. Le loro fila si ingrossarono di reclute e volontari, raggiungendo i 50.000 tra romani, realisti inglesi, irlandesi e gallesi.
Questa imponente armata si scontrò a Chester con 36.000 repubblicani, che in un primo momento sembrarono prevalere sui realisti, ma l’intervento della X e della XIX Legio ristabilì l’equilibrio, mentre i volontari travolsero il fianco sinistro puritano, al grido di “For God and the King”, decidendo la giornata in favore dei monarchici.
Charles voleva puntare direttamente su Londra, ma Robert aveva allestito una serie di fortezze e guarnigioni sulla via che sarebbe costato troppe perdite in assedi e attacchi frontali, con il rischio di un attacco alle spalle da parte di numerosi contingenti sparsi a nord. Il magister militum propose invece di proteggersi completamente le spalle, occupando la Scozia e aggiungendo magari nuove truppe reclutate tra quelle bellicose popolazioni.
Alla fine Charles diede il suo assenso. Lasciarono quindi parte degli uomini a proteggere la flotta e i territori conquistati in Galles e Irlanda e si diressero verso la Northumbria, sgominando nelle battaglie di Lincoln e Durham le forze repubblicane agli ordini di Jonathan Wolsey, che nell’ultima ci rimise anche la vita.
Robert aveva compreso che la partita si sarebbe giocata lassù nel nord, perciò era sbarcato con 20.000 uomini ad Edimburgo, dove si era unito alle forze agli ordini del generale scozzese Lucius Sutherland. Charles II si era stabilito a Dunbar, dove aveva ricevuto gli inviati di nobili e dei clan delle Highlands. Tra l’inverno e la primavera del 1660 le schiere realiste si videro ingrossate da almeno 6.000 guerrieri dei clan scozzesi, giunti dalle terre alte e basse, dai villaggi e dalle isole.
Le descrizioni che ne fece Andronikos Kastriotas nelle sue memorie sono entusiaste in quanto a morale e impeto, ma impietose in quanto a disciplina e armamento. Rimase molto colpito dal kilt e dal Tartan, rispettivamente la gonna tradizionale e la sacca con i colori della propria famiglia che proteggeva l’inguine degli highlander.
A suo parere sembravano uomini usciti dall’antichità più barbarica, in quanto pochissimi di loro erano dotati di moschetti, mentre i più brandivano solo pesanti spade con impugnature a gabbia e piccoli scudi tondi. Andavano in battaglia ululando come indemoniati, senza organizzazione o disciplina, ma ignoravano il dolore e la paura. Il comandante romano decise di potenziarli, utilizzando quei mesi invernali per inquadrarli in reparti, dotarli di armi moderne e metterli agli ordini di ufficiali romani.
I risultati non si fecero attendere. Nella battaglia di Stirling del 6 maggio 1660 furono proprio i contingenti scozzesi ad impattare per primi la linea puritana, e lo fecero alla loro maniera. Prima scaricarono disciplinatamente due raffiche verso il nemico, poi gettarono via i moschetti e, in barba agli ordini dei loro comandanti, sguainarono le spade e caricarono.
Fu una scena di altri tempi, dove demoni assetati di sangue si aprirono un sanguinoso varco tra le disciplinate linee inglesi della New Model Army. Fu in quel momento che Kastriotas e Charles ordinarono l’avanzata generale, che venne faticosamente contenuta in alcuni settori e nel complesso travolse i reggimenti repubblicani.
Robert decise di salvare una situazione disperata con una carica della sua potente cavalleria, ma dopo aver impattato irlandesi e inglesi, mettendone in rotta molti, si vide attaccato dagli scozzesi che, una volta aver spazzato via tutto quello che gli si era parato di fronte, si lanciarono – a piedi! – sui corazzieri e i dragoni puritani, oramai fermi una volta esaurito il loro impeto. Fu una strage. Le pesanti lame degli highlander sventrarono cavalli e cavalieri, al suono di cornamuse e terribili grida celtiche da guerra.
Entrarono in campo le riserve repubblicane, che riversarono una serie di raffiche di fucileria sugli scozzesi, che si dovettero riparare in un avvallamento li vicino, lasciando fuggire i reparti montati nemici sopravvissuti. Ma oramai la spinta dei monarchici e dei romani era troppo forte, infatti i telebolontarioi legionari aprirono un fuoco d’infilata sulle riserve di Robert, infliggendo numerose perdite agli avversari, che ruppero in più punti la formazione.
Era il momento aspettato dagli scozzesi che per quel giorno, come se fossero in uno stato di grazia, sembrava non potessero essere fermati da nessuno. Caricarono nuovamente all’arma bianca, ricoprendo in breve tempo i quaranta metri che li separavano dalla truppa repubblicana, che poté sparare una sola, imprecisa, raffica.
L’impatto fu di nuovo tremendo, e questa volta fu appoggiato dai fanti romani e da una coorte di kataphraktoi. Era veramente troppo, per chiunque. I soldati di Robert si diedero ad una disperata fuga, inseguiti dai drakonarioi e dagli ussari croati, bosniaci e serbi di Andronikos.
Il bilancio finale fu devastante per la causa di Londra: 10.000 morti, 6.000 feriti e 5.000 prigionieri. I romani e i loro alleati avevano avuto appena 3.000 perdite, quasi tutte scozzesi. Andronikos scrisse fiumi e fiumi di parole per elogiare questi straordinari combattenti, immaginando di poterli schierare negli eserciti imperiali, magari perfino come un contingente della guardia.
Nel frattempo la lotta proseguì a nord senza ulteriori intoppi e tutta la Scozia cadde in mano realista in meno di un mese, con le sole fortezze di Perth e Aberdeen che resistettero fino a settembre.
Il sovrano e il Kastriotas si spostarono così nelle Midlands, dove con la presa di Nottingham si assicurarono la sicurezza completa dell’area per i primi dell’autunno. Era arrivato il momento della resa dei conti. L’oramai agonizzante Oliver Cromwell, eroe dei puritani e della Guerra Civile, fu portato in lettiga sul campo di battaglia dal figlio, per rincuorare le truppe oramai demoralizzate. Fu presso Oxford che si decisero le sorti della repubblica dittatoriale inglese. Il 10 novembre, in una rara giornata serena anche se fredda, 38.000 romani e monarchici si scontrarono con 37.000 repubblicani.
La battaglia, molto pesante in termini di vite umane, fu decisa da scozzesi e irlandesi, che sfondarono il fianco sinistro puritano con l’ausilio di poche migliaia di sardi della XIX Legio. Nel momento culminante Cromwell venne colpito da due palle di moschetto nella lettiga dove era adagiato e dalla quale impartiva ordini. Spirò dopo un’agonia di due giorni.
Il figlio Robert, visto che tutto era ormai perduto, si lanciò con pochi seguaci verso le guardie del sovrano, cercando la morte sua o trovando quella dell’avversario. Leggenda vuole che i due abbiano incrociato le lame, ma è più probabile che un corazziere inglese abbia colpito Cromwell sotto l’ascella destra, arrivando al polmone e facendolo morire all’istante.
Alla vista della bandiera repubblicana caduta nella polvere lo scoramento si diffuse tra i pochi reparti che resistevano ancora in alcuni settori del campo, che cercarono un’impossibile fuga negli acquitrini locali, che finì con le operazioni di rastrellamento che si effettuarono nei giorni seguenti.
Il conto del macellaio vide 4.800 caduti tra i realisti e 8.000 tra i repubblicani, oltre a migliaia di prigionieri.
Andronikos chiese clemenza per quei valorosi soldati, ma Charles fu inflessibile, perlomeno con i comandanti, che vennero tutti impiccati o decapitati. Subito dopo iniziò un’epurazione a Londra, il fulcro della rivolta, che si concluse con quasi mille arresti e duecento condanne alla pena capitale.
Ristabilito l’ordine e la monarchia, il sovrano dichiarò immediatamente una pace eterna e l’alleanza con Costantinopoli, la restituzione di tutte le conquiste fatte dalla marina inglese in quegli anni e in cambio ricevette la concessione di alcune basi d’attracco privilegiate per le compagnie commerciali britanniche, tra cui le celebri Columbian e Indian Company, che praticavano traffici molto redditizi in India, Caraibi e nel Pacifico. Kastriotas, a nome del basileus, accettò.
La Guerra delle Cinque Nazioni, con i suoi strascichi quasi decennali, era finalmente conclusa. Costantinopoli poteva guardare di nuovo al futuro con gioia e speranza.
Alberto Massaiu
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