Il 12 ottobre 1492 Cristoforo Colombo sbarcò su una piccola isoletta caraibica che battezzò San Salvador, aprendo la strada all’esplorazione di un nuovo, immane continente. Navigava per conto dei cristianissimi sovrani Ferrando d’Aragona e Isabel di Castiglia, che dopo un lungo corteggiamento da parte sua avevano finalmente deciso di finanziare l’idea di raggiungere le Indie passando da Occidente invece che da Oriente.
I due monarchi della nascente monarchia spagnola – fino a quel momento divisa nei due Stati di Castiglia-León e Aragona – nutrivano un grande timore di perdere denaro in quell’impresa, perciò i fondi stanziati nella prima spedizione permisero l’armamento di appena tre caravelle, con poche dozzine di uomini di equipaggio. Relativamente sacrificabile, tutto sommato. Il rischio maggiore – pelle compresa – l’avrebbe assunto il visionario genovese, ma in caso di successo le prospettive di ricchezza ingolosivano molto la coppia reale.
Il problema è che le terre appena scoperte avevano già i loro numerosi abitanti – forse 80 milioni in tutto il continente dall’Alaska alla Terra del Fuoco, con 14 nel solo Messico – con società, culture e religioni proprie.
Per quanto il Tratado de Tordesillas, firmato tra i delegati di Spagna e Portogallo nel 1494 sotto l’alta autorità e benedizione del papa Alessandro VI, meglio conosciuto come Rodrigo Borgia, avesse diviso il mondo al di là dell’Atlantico in due netti segmenti appannaggio di conquista esclusiva per le due potenze marittime iberiche, questo pezzo di carta non valeva nulla per i potenti e fieri popoli locali, che si opposero con tutte le forze a tale arbitrio giunto dal gran mare salato orientale.
Perciò, dopo i primi contatti, gli spagnoli misero in atto un crescendo sempre più alto di dinamismo militare, aprendo l’età de “los conquistadores”, che perdurò dal 1519 al 1550 circa. Quella che andremo a vedere oggi sarà relativa al Messico, riservandoci il Perù in un futuro articolo.
Procederò a narrare i fatti per sommi capi, per poi andare ad affrontare quello che è a mio parere ben più importante, ovvero l’analizzare le ragioni di questo sorprendente – e reiterato – successo.
Hernán Cortéz era un avventuriero di trentaquattro anni che aveva intravisto l’opportunità di arricchirsi e al contempo elevare la sua posizione puntando sui favolosi racconti sentiti durante le prime esplorazioni dello Yucatán, che parlavano di un ricchissimo e potente regno all’interno del Messico.
Pieno zeppo di debiti, con una serie di scandali alle spalle, che lo misero in collisione con il governatore di Cuba Diego Velásquez de Cuéllar, partì quasi da fuorilegge con 11 navi, 100 marinai, 400 soldati, 16 cavalli e una dozzina di pezzi d’artiglieria alla volta del continente, dove fondò Villa Rica de la Vera Cruz e bruciò – in un episodio rimasto celebre – tutte le imbarcazioni, per evitare diserzioni, ben consapevole che a La Havana lo aspettava la cella o peggio.
Con questi presupposti, tra la primavera e l’estate del 1519, incominciò un’impresa che nel breve volgere di due anni portò alla dissoluzione del più potente impero del centro America, secondo in tutto il grande continente solo a quello Inca.
Il primo scontro non si svolse però contro gli aztechi, bensì contro migliaia di guerrieri otomi. Il pugno di spagnoli, supportati da poche centinaia di ausiliari nativi cubani, travolse e mise in fuga l’immensa massa nemica.
La notizia si diffuse subito a macchia d’olio e giunse fino a Tenochtitlán, la capitale azteca, dove l’imperatore Motecuhzoma II Xocoyotzin rimase scosso e al contempo indeciso sul da farsi. Cortéz, va detto, giocò bene le sue carte. Supportato dall’abilità linguistica di Malintzin, una nobildonna india che gli spagnoli rinominarono doña Marina, comprese che l’impero azteco, per quanto potente, era molto odiato dai suoi vicini, e queste divisioni tra i nativi giocavano a suo vantaggio.
Perciò, da un lato si comportò in maniera amichevole con gli inviati di Motecuhzoma, accettando l’invito a recarsi come ospite a Tenochtitlán, dall’altra strinse una segreta alleanza con i tlaxcala e i loro alleati, acerrimi nemici degli aztechi, capaci di fornirgli non solo portatori, cibo, basi e rifornimenti, ma soprattutto migliaia di esperti guerrieri per rinfoltire le sue schiere.
A novembre, dopo la fastosa accoglienza ricevuta nella capitale azteca, Cortéz catturò Motecuhzoma, paralizzando per un certo lasso di tempo ogni tipo di reazione del suo poderoso esercito e della popolazione cittadina – che contava circa 100-150.000 abitanti, che aveva pari in Europa solo la Costantinopoli dei turchi, mentre Londra e Parigi raggiungevano appena i 40 e i 60.000 abitanti al massimo.
Consapevole di non avere i numeri sufficienti per prevalere definitivamente, Cortéz lasciò il suo luogotenente Pedro de Alvarado in città con 200 uomini – più il prigioniero e ormai imperatore fantoccio Motecuhzoma – e si diresse verso la costa, dove andava ad intercettare una spedizione militare giunta per arrestarlo e sostituirlo con Pánfilo de Narváez, uomo di fiducia del governatore Velásquez.
Cortéz, portatosi appresso tutto l’oro e i gioielli che aveva trafugato a Tenochtitlán riuscì a corrompere i soldati di quest’ultimo, promettendo loro gloria, terre e ricchezze per tutta la vita loro e dei loro discendenti. Il suo azzardo ebbe successo e gli fruttò ben 900 uomini e 60 cavalli, oltre che falconetti e bombarde, balestre, archibugi e polvere da sparo.
Nel frattempo, però, Alvarado si era fatto sfuggire la situazione di mano. La sua intolleranza religiosa, che lo portò ad attaccare i sacerdoti e i templi aztechi, oltre che le pubbliche umiliazioni che inflisse all’imperatore, lo privarono dell’unica protezione che rimaneva tra lui e le decine di migliaia di indios inferociti.
Se, come la leggenda vuole, all’inizio gli spagnoli erano stati visti come esseri divini o inviati leggendari del dio Quetzalcóatl, il serpente piumato, ora erano considerati per quello che erano: predoni e conquistatori.
Gli aztechi dichiararono decaduto Motecuhzoma ed elevarono sul trono il valente Cuitláhuac, che guidò il suo popolo in quella che gli spagnoli soprannominarono la Noche Triste. La notte del 30 giugno 1520 Alvarado e Cortéz, che era giunto anch’egli in città, furono costretti ad abbandonarla con una serie di furiosi e allucinati combattimenti tra le strade rialzate che separavano Tenochtitlán dalla terraferma, costruita com’era sul lago Texcoco.
In quella notte di sangue e sconfitta i conquistadores pagarono un durissimo pedaggio. Persero metà dei soldati europei, 2/3 dei preziosissimi cavalli e tutti i cannoni, che gli aztechi buttarono nel lago per evitare un loro futuro uso, oltre che migliaia di alleati tlaxcala e lo stesso Motecuhzoma, ormai solo l’ombra di se stesso, ucciso da una pietra vagante.
A questo punto, però, nell’ora più buia per gli spagnoli, giunse inaspettatamente in loro aiuto la natura, con una devastante epidemia di vaiolo portata probabilmente dagli uomini di Narváez.
“Quando i cristiani si trovarono stremati dalla guerra, Dio pensò bene di mandare il vaiolo agli indiani e nella città scoppiò una grande pestilenza”
Francisco de Aguilar, ufficiale di Cortéz
Gli effetti, per gli aztechi – ma in generale per tutti gli indios, compresi gli alleati di Cortéz, fu devastante. I epidemiologici moderni stimano che nel biennio 1520-1521 perì quasi la metà della popolazione del Messico centrale, un flagello che interessò i popoli più civili e inurbati, rendendoli facile preda degli spagnoli.
Il condottiero ottenne così non solo il tempo per rifiatare e organizzarsi, ma anche un altro vantaggio. I capi tlaxcala e alleati, che cadevano anche loro come mosche, vennero via via rimpiazzati con uomini della tribù di sua scelta, che rafforzarono ancora di più la sua leadership su quei popoli che ben presto sarebbero stati assoggettati a loro volta.
Ci volle un anno di preparazione per sferrare l’assalto finale. Ricevuti rinforzi e rifornimenti da Cuba, dove ormai si era compreso che Cortéz era un male necessario, egli studiò la strategia migliore per prendere la capitale.
Tenochtitlán non era fortificata come le città italiane, andaluse e francesi a cui gli spagnoli erano abituati. La sua difesa si basava sulle acque del lago e sulle strade rialzate, che diventavano delle strettoie su cui potevano essere create barricate atte a fermare i cavalli e ridurre la superiorità tecnologica europea, garantendo il tempo alle migliaia di guerrieri e cittadini di fare il tiro al bersaglio con frecce, giavellotti e pietre.
Le acque del Texcoco erano presidiate da centinaia di canoe azteche, perciò Cortéz fece realizzare 13 brigantini “smontabili” sulla costa, che vennero trasportati per centinaia di chilometri nell’entroterra dagli alleati indios e rimontati velocemente in una zona protetta del lago. I brigantini erano piccoli velieri a fondo piatto, con due alti castelli a prua e a poppa, su cui erano posizionati una trentina di uomini tra archibugieri, balestrieri e artiglieri, con cannoni di bronzo, falconetti e colubrine caricate a mitraglia.
Alti più di un metro sul livello dell’acqua, manovrabili sia con le vele che con delle pagaie, i brigantini diventarono delle fortezze corazzate che, inabbordabili per le basse canoe azteche, si muovevano come testuggini demoniache sparando, speronando e capovolgendo le fragili imbarcazioni avversarie. Dopo aver portato scompiglio e morte tra la marina avversaria, vennero affiancate dalle canoe degli alleati tlaxcala che completarono l’opera, garantendo la totale supremazia sulle acque del Texcoco agli assedianti.
A questo punto gli spagnoli poterono tagliare i rifornimenti di acqua dolce della città, assicurati dai un grande acquedotto – l’acqua del lago era salmastra – e spazzar via a suon di cannone le barricate delle strade rialzate, dove si riversarono i cavalieri e gli spadaccini coperti di acciaio provenienti dalla Castiglia, dal León, dalla Galizia, dall’Extremadura, dall’Andalusia e migliaia di tlaxcala e altri indios, che coronavano il sogno di distruggere gli odiati e temuti nemici aztechi.
Cuauhtémoc, nipote di Motecuhzoma e successore di Cuitláhuac – stroncato dal vaiolo – venne catturato e prontamente ucciso. Fu l’ultimo imperatore. Gli spagnoli, padroni del campo, si trovarono in mano non più una capitale, ma un immenso cimitero fumante. Gli edifici civili e di culto, gli acquedotti, i mercati, i moli erano in rovina. La popolazione ridotta a poche migliaia di abitanti. Hérnan Cortéz ne fece la capitale della Nuova Spagna con il nome di Ciudad de México, nome che porta ancora oggi.
Ma quali furono le ragioni di questa insperata vittoria? Per secoli gli storici si sono avvicendati nel formulare numerose teorie, alcune volte individuando un fattore specifico oppure un insieme di più elementi. Nel mio caso ho una mia personale visione, che vedremo ora assieme.
Il successo dei conquistadores, soprattutto contro le due più grandi e potenti civiltà precolombiane – aztechi e inca – risiede in tre fattori principali:
- le malattie infettive europee
- la superiorità tecnologica
- il differente approccio culturale alla guerra
Le popolazioni amerinde, fino all’arrivo di Colombo, conoscevano numerose malattie – alcune delle quali passarono in Europa – quali pinta, sifilide, epatite, poliomielite, tubercolosi, polmonite e parassitosi intestinale. Eppure non avevano mai sperimentato vere e proprie pandemie come in Asia ed Europa – basti pensare alla Peste Nera del ‘300 – in quanto le loro città o insediamenti non avevano molti animali domestici o mandrie troppo grandi, che erano spesso i focolai delle epidemie dell’epoca.
La mortalità del vaiolo e altre amenità nel Vecchio Continente era sì endemica, ma uccideva all’incirca “solo” tra il 3 e il 10% della popolazione. I livelli raggiunti nelle isole caraibiche, in Messico, in Sud America e più avanti in Nord America andarono dal 30 al 50%, con picchi superiori nei luoghi più densamente popolati.
In più, finché gli indios non iniziarono ad unirsi ai bianchi creando la stirpe creola, questi rimasero sempre potenzialmente infettabili. Giusto per fare un esempio, tra il 1520 e il 1600 vi furono ben 14 epidemie in Messico e 17 in Perù, tra cui vaiolo, tifo, influenza e difterite, con una media di una ogni 4 anni e mezzo.
I primi a sperimentare questa catastrofe virale furono gli arawak di Hispaniola. Questi erano tra i 100 e i 200.000 prima del 1492. Fin da subito gli indigeni iniziarono a morire. Nel 1507 giunse il vaiolo – le malattie precedenti erano forse morbillo, tifo o influenza – che colpì a più riprese nel 1518-1519 (fu quello che venne portato in Messico, a dare una mano a Cortéz).
Già nel decennio successivo, erano sopravvissuti poco più di 1.000 individui indigeni sull’isola. Nel 1548 appena 500. Pochi anni dopo gli arawak risultavano completamente estinti.
In quanto al secondo fattore vincente, metterei da parte la voce “polvere da sparo”, che risultò decisiva solo in pochi momenti – come la battaglia navale con i brigantini – e per il resto esercitò più che altro un iniziale effetto psicologico sul nemico, per concentrarmi sul combinato disposto di acciaio, cavalli e cani da guerra.
Partendo dagli ultimi, va detto che gli indios conoscevano i cani. La specie presente in America era però di piccola taglia, non abbaiava e veniva fatta ingrassare con granoturco per essere poi servita a tavola. I cani spagnoli erano invece addestrati alla caccia di cinghiali e orsi – anche dell’uomo – e alla guerra. Bulldog, mastini e levrieri che attaccavano ululando e ringhiando, atterrendo i nativi e permettendo ai loro padroni di stanare i nemici anche in mezzo a montagne e foreste.
Se i cani da battaglia risultavano terrificanti per gli amerindi, ancora di più lo furono i cavalli. Questi non erano i grandi destrieri da guerra utilizzati nei conflitti continentali, bensì gli stalloni più piccoli dell’Andalusia, di stirpe araba. Anche i loro cavalieri erano armati in maniera più leggera, alla jineta – comunque sempre ben protetti da maglie, scudi, elmi e corazze d’acciaio – cosa che permetteva di essere più agili, veloci e in ultima parola duttili nei difficili terreni dell’America centrale e meridionale.
I cavalli ebbero un ruolo veramente decisivo, sia per l’effetto psicologico che per la praticità tattica sul campo di battaglia. Un cavaliere troneggiava sopra un indio per quasi due metri – compreso il pennacchio sull’elmo – e poteva comodamente vibrare tremendi fendenti dall’alto verso il basso con spade di acciaio di Toledo – il migliore del mondo – che mozzavano teste e arti, oppure impalare il nemico da lontano con lance lunghe dai 3 ai 4 metri, ben oltre la portata delle corte spade di legno e ossidiana azteche, le maquahuitl.
Un pugno di cavalieri spagnoli creava un immenso scompiglio nelle dense formazioni nemiche, letteralmente mutilando e calpestando gli avversari, per poi raggiungere e abbattere i capi – facilmente identificabili per i vistosi e multicolori copricapi e indumenti – e mandando così in rotta interi reparti, che in una società gerarchicamente rigida e tribale come quella azteca – e anche inca – una volta che veniva abbattuto il comandante si riteneva concluso il combattimento.
In tal modo si poterono sconfiggere eserciti di decine di migliaia di guerrieri con appena 200-300 soldati europei, supportati da poche migliaia di alleati locali.
Nel corpo a corpo e anche nell’attacco a distanza gli spagnoli godevano sempre di un immenso vantaggio. Gli aztechi avevano armi con la punta in ossidiana – affilatissima, ma che perdevano velocemente il filo e si spezzavano facilmente sugli elmi e i pettorali d’acciaio iberici – o peggio in legno indurito dal fuoco – sic! – e vestivano armature di cotone o maguey trapuntate dette ichcahuipilli, immerso in acqua salata per renderlo più rigido. Se queste potevano andar bene per proteggersi dalle loro armi, nulla potevano contro la durezza e l’affilatura dell’acciaio europeo, che le trapassava come fossero burro. Viceversa, le loro armi si infrangevano o rimbalzavano sulle armature spagnole.
Unica arma veramente pericolosa, molto temuta dai conquistadores, erano le fionde. Le piccole pietre da loro utilizzate, scagliate con precisione e in numero tale da oscurare il cielo, potevano raggiungere le parti scoperte di occhi e bocca, giungendo a ferire gravemente o uccidere anche un soldato corazzato.
Uccidere. Ecco il problema principale. Ultimo, ma non per importanza, punto di sostanziale differenza tra questi due mondi antitetici è l’approccio culturale alla guerra.
Per gli aztechi il conflitto aveva un valore rituale. Si combatteva non per l’annientamento dell’avversario, la sua conquista o assimilazione, bensì per fare prigionieri e ricevere tributi in oro, gioielli, cioccolato, gomma, cotone, pelli e piume di uccello per adornare Tenochtitlán. Ogni anno si inviavano alle tribù da attaccare scudi, armi e mantelli specifici, che simboleggiavano la formale dichiarazione di guerra. Gli spagnoli, più pragmatici, non si attennero di proposito a queste regole di bon ton locale, cogliendo di sorpresa Motecuhzoma e i suoi.
Altro aspetto cruciale. Il guerriero azteco non otteneva alcun riconoscimento o avanzamento di grado uccidendo i nemici. Il suo vero obiettivo era catturarli vivi, per sacrificarli al dio Huitzilpochtli nelle grandi piramidi della capitale. Questi era detto lo “Stregone Colibrì” e veniva identificato con il Sole, un combattente che conduceva un’eterna battaglia in favore degli esseri umani giorno dopo giorno, facendo sorgere i vivifici raggi dorati in una continua – ma non scontata – rinascita.
Per ottenere questo risultato, però, aveva bisogno di sacrifici che rigenerassero la sua forza e per gli aztechi non c’era nulla di più prezioso del sangue umano. Per tale ragione gli aztechi catturavano vivi i nemici, per immolarli a questo dio potente e sanguinario. Ovviamente c’era una scala di valore nel sacrificio e un aristocratico, un capo o un guerriero avevano più valore di un povero contadino.
A causa di tale ragione, per buona parte del conflitto, gli aztechi si sforzarono di catturare vivi gli spagnoli, perdendo numerose occasioni per annientarli con la sola preponderanza numerica, subendo nel contempo perdite umane enormi. Anche perché i più valorosi guerrieri, con maggior esperienza, erano quelli che attaccavano per primi e, cercare di catturare uno spagnolo che mulinava con grande abilità una spada di acciaio di Toledo era un’ardua impresa. I migliori combattenti amerindi furono falciati fin da subito a causa di questa tattica suicida, frutto di una differenza culturale incolmabile tra pragmatismo europeo e ritualismo indio.
Gli uomini di Cortéz, infatti, dimostrarono un senso pratico tutto occidentale che risultò essere il punto più decisivo di tutti, a mio parere, nel determinare non solo il fato delle Americhe, ma anche i seguenti tre secoli di supremazia totale europea verso gli altri popoli del globo.
L’era delle grandi esplorazioni e conquiste era alle porte.
Alberto Massaiu
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