Konstantinos XV aveva passato le ultime settimane rinchiuso nelle sale del Palazzo Sacro, urlando ordini a destra e sinistra, programmando di volta in volta mobilitazioni militari, condanne a morte, piani allucinati per riprendere in mano la situazione, facendo voti al Signore o bestemmiando ferocemente.
Il 20 gennaio, durante una gelida giornata invernale, Thomas Palaiologos arrivò sulla sponda anatolica del Bosforo. Tre giorni prima Ioannes Kastriotas aveva posizionato le sue truppe davanti alle porte cittadine del Teichos Alexiakon. Due giorni dopo i comandanti ribelli si incontrarono a Gallipoli, dove accolsero tutti gli ufficiali dell’esercito e della marina stanchi del dispotismo del folle sovrano e preoccupati per il futuro di Roma. Quel giorno venne stretto un patto con il quale la casta militare decise di unire le forze per restaurare la pace, l’integrità e il prestigio dell’Impero Romano.
I generali qui convenuti decisero di eleggere un duce supremo, recuperando un’antichissima magistratura romana repubblicana per i tempi di grave crisi, quella del dictator, che avrebbe riunito il grado di comandante di tutto l’esercito, della flotta e della macchina dello Stato. Di fatto quest’uomo avrebbe governato l’impero in vece del basileus fino alla conclusione di quell’ora oscura, lasciando al sovrano solo un potere nominale e cerimoniale.
La scelta cadde naturalmente su Thomas Palaiologos visto l’esperienza, il nome della casata e l’ascendente sulle masse. Thomas aveva quarantacinque anni, non un uomo di grande fascino esteriore ma dotato di un’immensa forza di volontà, una fede cieca nello Stato romano, nella Chiesa Ecumenica e nell’esercito. Allo stesso tempo era gelido, pratico e disciplinato, con una spiccata propensione per la strategia e le manovre in condizioni critiche. Insomma, la persona giusta per quel momento drammatico per i romani.
La sua prima mossa fu di conquistare la capitale ed eliminare Konstantinos XV. Lo fece con la sua consueta efficienza e con il minimo spargimento di sangue possibile. Infatti contattò alcuni ufficiali dei vareghi e degli athanatoi, che per una miscela di odio, timore e avidità, fecero in modo che la notte del 25 gennaio il basileus rimanesse isolato dai suoi uomini più fedeli in un ala del palazzo.
All’orario convenuto otto sicari vennero sguinzagliati e con rapida professionalità eliminarono Konstantinos. Si dice che questi fosse talmente ubriaco che non capì la serietà della sua situazione fino a quando non vide i lacci con i quali lo strangolarono. In quel preciso momento, per un attimo, i fumi dell’alcol si diradarono e mostrarono la pasta di questo governante, che si mise a piangere come un bambino, implorando pietà e promettendo onori e ricchezze in cambio della sua vita.
Inutile dire che le sue proposte caddero nel vuoto, e nel cupo silenzio che seguì egli comprese che la sua vita di dissolutezze era giunta al termine.
Chissà quali furono i pensieri che albergarono nella sua mente in quegli ultimi secondi. Avrà pensato al fratello Ioustinianos, contro il quale aveva combattuto una guerra spietata? O al nemico in amore e in governo, Leon Dalassenos, da lui assassinato? Oppure ai figli Romanos e Ioannes, ancora rinchiusi nelle carceri dell’Eptapyrgion per suo ordine? Solo Nostro Signore lo sa, e vi fonderà il proprio giudizio nel giorno in cui tutti noi resusciteremo in carne e spirito.
Forse nella sua bontà lo avrà perdonato ma noi, da studiosi di storia, non possiamo che deplorare il suo operato di uomo e di imperatore, che tante pene ha causato ai suoi simili e al dominio dei Cesari.
La mattina del 26, sotto un pallido sole, Thomas entrò nella Regina delle Città accolto dal giubilo generale.
Romanos e Ioannes vennero immediatamente liberati e in giornata consacrati e incoronati ad Aghia Sophia da un raggiante patriarca. La popolazione si lasciò andare ad un giorno di festeggiamenti, mentre i nuovi sovrani confermavano i titoli e il potere del loro salvatore e proclamandolo patrikios e kaysar, megas logothetes, magister militum praesentalis e megas droungarios. Thomas univa ora nelle sue mani poteri quasi assoluti, e li coronò entrando anche nella famiglia imperiale, visto che vennero programmate le sue nozze con Eirene, sorella dei basilei.
Con il suo primo provvedimento venne sciolta con infamia la Cohors Praetoria, ormai detestata in tutto l’impero, facendo ritornare la guardia alle consuete tre distinzioni. La seconda azione fu la proclamazione dello stato d’assedio e d’emergenza.
Questo comportava la requisizione di tutti i beni atti alle attività belliche senza indennizzo, la mobilitazione generale, il prestito forzoso fatto dai ricchi e dalla chiesa alle casse imperiali e lo stabilimento di un rigore assoluto nella società affrontare la tempesta.
La popolazione dimostrò un senso civico e un’abnegazione incredibile, sopportando queste privazioni con uno spirito che avrebbe inorgoglito i loro antenati lottando, pregando e lavorando per il fine ultimo della salvezza dell’Impero Romano. Già a marzo Thomas disponeva di dodici nuove legioni, 1.000 cannoni, 80 navi da guerra e molto oro per pagare, armare e sostentare gli uomini nelle campagne future.
Il primo obiettivo fu quello di recuperare l’oriente e ristabilirvi i confini.
Il 1° aprile, con 130.000 uomini e 280 cannoni, mosse verso il cuore dell’Anatolia a marce forzate. Entro metà mese ebbe i primi scontri con le avanguardie russe e persiane, ma un combattimento serio lo sostenne solo il 29 presso Adana, dove ricacciò indietro 50.000 persiani.
Sfruttando la situazione favorevole lasciò un forte nerbo di truppe a presidiare i passi montani della Cilicia e marciò a nord per incontrare i russi. Questi ultimi avevano diviso le forze in quattro armate: una presso Cesarea per bloccare eventuali sortite da sud, una sul Mar Nero per assediare Trebisonda, un’altra in posizione avanzata per penetrare in Anatolia centrale e infine una in Armenia e Georgia di retroguardia.
Thomas puntò per prima cosa a quest’ultima. Il suo piano era infatti quello di isolare la via dei rifornimenti terrestri alle grandi masse di uomini che stazionavano nell’interno montagnoso della Cappadocia e per ottenere tutto questo gli bastava affrontare l’esercito più debole dei russi.
Con l’ausilio di esperte guide armene e di un monaco mechitarista utilizzò dei passi montani sconosciuti ma agibili perfino per i cannoni da campagna, giungendo così alle spalle del nemico ignaro.
Il 18 maggio gli hosarioi e i drakonarioi imperiali piombarono sul campo nemico seminando il caos. Mentre i primi reggimenti zaristi tentavano di dispiegarsi comparve la fanteria di linea romana, che riversò un ordinato fuoco di fila sui disorganizzati ranghi avversari. I fanti russi spararono una sola e disorganizzata raffica, poi fuggirono in massa e vennero massacrati dai cavalleggeri imperiali e dai furiosi montanari georgiani e armeni che avevano subito le peggiori angherie durante il periodo di occupazione.
La mattina dopo l’esercito russo non esisteva più e tutti i passi e le vie del Caucaso erano saldamente in mano romana.
La trappola fu completata dalla Neon Nautikon, che bloccò i pochi rifornimenti marittimi che i nemici tentarono di far arrivare dalla conquistata Crimea. Tempo un mese e la situazione russa divenne intollerabile, con i pochi assalti respinti dalle forti e motivate truppe imperiali saldamente trincerate sui monti.
I primi di giugno, con una calura insopportabile, poco cibo, acqua contaminata e zero medicinali, nei campi russi in Cappadocia e Ponto scoppiò nuovamente l’epidemia che aveva falcidiato i ranghi l’anno prima, ma con effetti ancora più virulenti.
In breve erano morti migliaia di uomini, centinaia di bestie da soma e cavalli da guerra, non c’era più polvere da sparo e indumenti. I 100.000 russi presenti nello scacchiere si squagliarono come neve al sole, mentre un esercito di rinforzo che sopraggiungeva dalle piane del Kazan venne sbaragliato presso Teodosiopoli. Il 29 giugno il comandante supremo russo si arrese con 40.000 sopravvissuti a Cesarea. L’invasione nemica dell’Anatolia era finita.
Thomas, sempre pratico, decise di risolvere il problema persiano non facendo la guerra in casa propria, ovvero riconquistando caposaldo per caposaldo la Siria, il Libano la Mesopotamia e la Palestina, ma invase direttamente con 100.000 uomini la Persia, puntando su Tabriz e poi su Isfahan come aveva fatto più di mille anni prima il grande Eraklios.
La strategia ottenne gli effetti sperati. Con le capitali minacciate lo shāh Shahrokh richiamò i suoi eserciti in patria, lasciando quasi tutte le conquiste e tentando di fare barriera contro l’invasione.
Ma non ce la fece.
Tabriz cadde il 17 luglio, cinque giorni dopo 80.000 persiani furono sbaragliati sul Tigri e per fine mese i romani erano alle porte di Isfahan. Inutile dire che il sovrano safavide chiese un’immediata pace, restituì tutte le terre prese e diede l’assenso al ritorno dei principi filo-romani ai confini. Inoltre, cosa fondamentale per Thomas, gli fornì ingenti quantità d’oro per evitare il sacco della capitale, oltre a 150 moderni cannoni e 30.000 moschetti ultimo modello comprati di recente agli inglesi.
Il pericolo in oriente era stato sventato, segno che con una forte giuda l’esercito era in grado di fronteggiare qualsiasi nemico.
Ma per Thomas, esattamente come con il suo predecessore Eugenio di Savoia, non ci fu tregua: il 15 aprile, a Roma, Achille Barberini e Alessio Borghese avevano stretto un’alleanza e avevano dichiarato la rinascita della ResPublica Romanorum, autoproclamandosi consules. Fu così restaurato il Senato e immediatamente le armate d’Italia, stufe di essere governate da un sovrano straniero e ancora memori dell’assassinio del loro amato comandante Leon Dalassenos, giurarono fedeltà al nuovo regime.
Tutta l’Italia con Sicilia, Corsica e Sardegna venne in brevissimo tempo assoggettata all’antica capitale. I consensi nella popolazione aumentarono quando l’esercito repubblicano sconfisse francesi e austriaci in Emilia e Lombardia, cacciandoli dalla penisola.
Naturalmente Thomas non poteva permettersi una secessione interna, soprattutto in una regione che era simbolicamente così importante per l’impero. In settembre, dopo un estenuante viaggio fatto per terra e per mare, il grande comandante romano stabilì la sua base operativa a Tessalonica, per organizzare la campagna di rioccupazione italiana.
Per prima cosa andavano protette le frontiere di nordest, perciò a Costantinopoli vennero ricevuti gli emissari della tzarina per trattare una pace generale con la Russia. Le condizioni da loro proposte erano durissime: annessione dell’intera Ucraina alla Russia, protettorato sulla Crimea e permessi di passaggio di flotte militari russe sugli stretti del Bosforo.
Konstantinos XV avrebbero capitolato a tutti i punti senza un attimo di esitazione, ma per fortuna Thomas aveva incaricato Ioannes Kastriotas di effettuare un’incursione in Crimea con la flotta e le truppe di marina, per far capire che l’impero sarebbe stato pronto alla guerra ad oltranza in caso di un’eccessiva intransigenza russa nelle trattative.
L’operazione colse un grande ed insperato successo.
Il 25 settembre cadde con un assalto notturno Chersonesos. Il 30 vennero attaccati i depositi militari russi ad Azov e vennero bruciate 38 imbarcazioni nemiche. Ai primi di ottobre, ricevuti dei rinforzi, Ioannes sconfisse la cavalleria cosacca presso Teodosia e il 14 vi fu una battaglia vicino al Vallum Tartarorum che arrise alle forze romee. I comandanti della tsarina dovettero evacuare tutta l’area quando le armate russe vennero sconfitte dai prussiani di Friedrich II e dai suoi alleati polacchi in Curlandia.
Infatti anche il gioco delle alleanze era cambiato.
Con la dipartita di Konstantinos XV i monarchi europei avevano rivisto le loro strategie. L’Inghilterra, la Prussia e la Polonia si erano schierate con Costantinopoli contro l’alleanza di Russia, Francia, Austria e Sassonia. Inoltre la ResPublica Romanorum, oramai riconosciuta da Francia e Austria che avevano fatto la pace in cambio di alcune terre di confine, si era dichiarata neutrale ed estranea al conflitto in corso. Liberati i loro eserciti dalla penisola Parigi e Vienna poterono così impiegarli in altri settori, soprattutto in Germania contro la Prussia e nei Balcani contro le forze transilvane, valacche, moldave e romane.
La loro strategia era volta ad un duplice intervento. La prima potenza e la sua alleata Sassonia avrebbero impegnato tutte le loro risorse sul fronte tedesco, dove Friedrich stava cogliendo vittorie su vittorie. La seconda si sarebbe occupata del presupposto traballante Impero Romano e dei suoi deboli alleati balcanici, attraverso una manovra che avrebbe permesso agli alleati di impossessarsi del cuore di Balcani e Carpazi.
La prima a muoversi fu la Francia ma ad attenderla c’era Friedrich II di Prussia, riconosciuto in seguito alle sue gesta bellica come der Grosse o “il Grande”. E grande lo fu davvero, visto che con le sue azioni traghettò il suo paese nel grande palcoscenico delle potenze europee, nonostante le dimensioni ridotte dei suoi territori e i pochi sudditi.
L’impero si salverà soprattutto grazie alla decisa opera di Thomas Palaiologos ma anche per merito di Friedrich, che tenne a bada decine di migliaia di potenziali aggressori russi e francesi, allontanandoli dai confini romani.
Dal 1748 il sovrano prussiano aveva mietuto tre vittorie sul campo e occupato Dresda, Lipsia, Riga, Vilnius, Smolensk, Praga e Monaco, anche se le ultime tre le aveva dovute abbandonare per la controffensiva nemica, e si accingeva ora a muovere di nuovo nel cuore della Germania, con obiettivi Praga e Vienna.
Il comando francese, che aveva ben chiare le sue intenzioni, aveva radunato un’imponente armata in Turingia, volta a creare un muro invalicabile per i 38.000 prussiani che avanzavano.
Una caratteristica di Friedrich, oltre alla freddezza e all’imperturbabilità, era la spregiudicatezza. La sua raggiungeva i livelli pari ad un giocatore d’azzardo. D’altro canto stava sfidando tre tra le più grandi Nazioni dell’epoca, ognuna delle quali poteva superare in grandezza il suo Stato con una sola delle sue province, ed era alleato con due potenze come l’Inghilterra e Roma, dove la prima era più interessata a guerreggiare i francesi nelle colonie d’oltremare, e la seconda era in piena guerra civile e in evidente declino.
Ma se degli inglesi gli interessava solo il denaro che gli fornivano per pagare soldati e armamenti, si può invece dire che aiutava l’impero per motivi sentimentali.
Infatti in tenera età era stato educato nella fredda e austera reggia di Königsberg o di Berlino, un luogo non adatto ad un giovane molto sensibile come era lui in principio. Le sue uniche passioni erano la poesia e la cultura latina e greca, di cui era un fervente seguace. I suoi racconti preferiti erano quelli di guerra relativi a Pelopidas ed Epameinondas di Tebe, Alexandros il macedone o Iulius Caesar, ma anche personaggi più moderni come Alexios VI o Eugenio di Savoia, di cui aveva studiato le tattiche di guerra e letto le memorie alcuni anni prima.
Quando aveva assistito al cinico attacco mosso da tutte le parti per distruggere un impero antico e glorioso come quello romano, sferrato in un momento in cui non poteva difendersi al meglio in quanto squassato da lotte intestine, il suo spirito si era ribellato e aveva deciso di schierarsi in sua difesa.
Si dice che quando un ministro gli consigliò che era meglio approfittare della situazione e spartirsi una parte delle spoglie del debole Stato romano, questi lo abbia fissato con uno sguardo di ghiaccio, fulminandolo con queste parole: “Mai e poi mai un uomo d’onore dovrebbe colpire un gigante caduto, e non c’è mai stato e mai ci sarà un gigante che potrà stare al passo con la grandezza del dominio degli augusti di Roma”.
Ma l’ultimo lancio di dadi che stava per compiere aveva tutte le caratteristiche di un suicidio politico-militare. I francesi avevano mobilitato per l’occasione 60.000 uomini a cui si aggiungevano 12.000 austriaci, 10.000 bavaresi, 8.000 sassoni e altre svariate migliaia di soldati tedeschi che provenivano da tutto il Reich.
Ma Friedrich, un vero genio dell’arte militare, gli sbaragliò tutti in un’unica, epica battaglia presso Erfurt il 7 ottobre del 1750, utilizzando una nuova tattica detta ordine obliquo, che permetteva ad eserciti piccoli di affrontarne altri molto più grandi, concentrando di volta in volta un numero superiore di effettivi in una sola area dello scontro, ottenendo la supremazia locale e distruggendo il nemico pezzo per pezzo.
Ad Erfurt rimasero sul terreno o vennero presi prigionieri 36.000 uomini, al contraprezzo di 5.000 prussiani morti o feriti. Fu un trionfo che paralizzò gli alleati su quel fronte e li scoraggiò in tutti gli altri, cosa che fece rifiatare i romani e soprattutto Thomas Palaiologos.
Quest’ultimo aveva dovuto rimandare la partenza per l’Italia, viste le terribili notizie che arrivavano da Transilvania e Valacchia.
In questi Stati, così vitali per la cerniera difensiva danubiana dell’impero, si erano riversati fin da maggio migliaia di austriaci. Ora, dopo aver finalmente portato i ranghi al completo, l’esercito che stava puntando sulle Siebenbürgen era un vero e proprio rullo compressore animato dallo spirito di conquista più viscerale. 48.000 fanti di linea, 13.000 irregolari croati e magiari a piedi, 5.000 corazzieri e 9.000 tra cavalleggeri e dragoni, oltre che 90 cannoni tra pezzi da campagna e mortai da assedio.
Contro una tale forza d’urto gli eserciti transilvani, valacchi e moldavi non potevano quasi nulla, tranne che tentare una difesa simbolica sul campo e una leggermente più decisa rintanati all’interno delle robuste fortezze strategiche innalzate nei secoli grazie ai finanziamenti ricevuti da Costantinopoli.
Thomas dovette rimandare i propositi di riunificazione italiana e marciare di nuovo a nord, per tamponare l’ennesima falla apertasi nello scafo di quella barca alla deriva che era diventata in quel momento l’impero.
Le legioni, i cannoni e ogni effettivo disponibile vennero spostati dall’Epiro, dalla Macedonia, dalla Tracia e dalla Serbia per farli concentrare in un punto di raduno presso Bucarest. Laggiù Vlad IX di Valacchia, insieme a Konstadin IV di Moldavia e a Zsigmond II Szapolyai di Transilvania giurarono nuovamente fedeltà a Costantinopoli e misero a disposizione i loro soldati per vincere la lotta.
Gli austriaci vennero bloccati a sud del Danubio, ma penetrarono in forze in Transilvania, che era la ridotta difensiva più avanzata ed esposta, sconfinando in Moldavia e cercando di sfondare il Limes settentrionale romano.
Thomas venne ferito ad un braccio durante la battaglia di Silistra e rischiò di perderlo per una brutta infezione, ma infine riuscì a bloccare gli avversari al di fuori della Bulgaria. Ci vollero poi tre mesi per ricacciarli indietro dalla Valacchia e da una parte di Moldavia e Transilvania.
Solo ai primi dell’inverno le armi cessarono di far fuoco, con i romani sulla difensiva ma almeno padroni di quasi tutti i territori perduti negli anni precedenti e con una situazione militare mille volte migliore rispetto a quella degli ultimi tempi.
Naturalmente mancava l’Italia e la maggior parte dello Stato cuscinetto ucraino che era ancora in mani russe, ma per ora un’azione volta a raggiungere questi due obiettivi sarebbe stata poco più che un sogno. Il risultato, anzi il grande risultato ottenuto dalla forza e dallo spirito della casta militare e dall’abnegazione e fede della popolazione, avevano salvato e reso di nuovo sicuro il cuore dell’impero, mettendo al sicuro l’Anatolia, i Balcani e i ricchi themata orientali.
I due giovani basilei Romanos e Ioannes potevano guardare al nuovo anno che veniva con una rinnovata fiducia. Una speranza, ovvero quella di veder restaurato il prestigio della Nazione e di trovare una pace favorevole che gli avrebbe dato il tempo di risistemare i disastri compiuti dal genitore.
Il 1752 si presentava quindi come un anno di spartiacque, ma in generale i contendenti pensavano che il conflitto sarebbe presto giunto al termine. I fatti dimostreranno che tutti loro sbagliavano e la contesa, che passerà alla storia come Guerra dei Sei Anni, si concluderà solo nel 1755. Ma analizziamo con calma la situazione dei belligeranti in quell’inverno.
La Prussia era padrona incontrastata del nord Europa, con due eserciti stanziati uno in Lituania (più piccolo) e uno in Sassonia (più grande e sotto il comando diretto del re), entrambi invitti e padroni di città, crocevia e rocche strategiche. Nonostante questa incommensurabile prova di forza il paese si trovava al limite estremo delle sue capacità economiche, demografiche e militari, tanto che sarebbe bastata una sola sconfitta a mettere in crisi tutto il sistema.
L’Austria e la Francia erano messe in condizioni peggiori in ambito militare, viste le batoste subite e l’abbandono delle ricche città del nord Italia. Come contraccambio avevano però un’immensa forza economica e bellica ancora tutta da sfruttare, anche se la Francia entrerà durante il conflitto in una crisi economica tale che non si spegnerà fino alle rivoluzioni di fine secolo.
L’Inghilterra, forse unica tra tutte le fazioni in lotta, era all’apogeo del suo potere e del suo successo: la sua flotta aveva sbaragliato tutti i rivali aiutata la sua antica avversaria romana, dato scacco matto alla marina francese in India e America settentrionale. Il suo esercito aveva ottenuto due grandi vittorie in Quebec e puntava su Montreal e Toronto. Aveva sconfitto una coalizione di principi indiani riforniti da Louis XV a Calcutta, garantendosi l’influenza sulla parte settentrionale del subcontinente. La sua economia tra embarghi, cattura di flotte mercantili, guerra di corsa e tributi era alle stelle. Re George poteva stare tranquillo e felice nella sua reggia, aspettando gli sviluppi continentali europei.
La Polonia era oramai poco più di un vassallo della Prussia tanto quanto la Sassonia lo era della Francia, e operava come un vasto Stato cuscinetto contro Austria e Russia, oltre che come bacino di reclutamento e fonte di tributi per Berlino.
Infine la Russia, gigantesco colosso con infrastrutture non al livello degli avversari, continuava ad ammassare armate in Ucraina, Polonia e Lituania, ma senza riuscire a realizzare i suoi grandi obiettivi strategici. L’economia, mai ricca, era ora messa a dura prova e alcuni gelidi inverni negli anni successivi porteranno alla morte per inedia di decine di migliaia di contadini, facendo quasi scoppiare una rivolta generale tra le masse povere, oltraggiate dall’opulenza della corte zarista.
E l’Italia?
La penisola si crogiolava nella sua indipendenza, nel suo governo repubblicano e nel suo esercito che si diceva pronto a difendere fino alla morte il resuscitato governo dei patres conscripti, ovvero i senatori dell’Antica Roma.
Nel 1752 un’ambasciata venne inviata a Costantinopoli per stabile una tregua e ottenere un riconoscimento formale dello Stato, ma sia i basilei, sia Thomas, respinsero senza neanche ricevere i “traditori”, lasciandoli detto che avrebbero trattato solo una resa incondizionata e che presto le legioni si sarebbero radunate per domare la riottosa provincia italiana.
Per tutta risposta Alessio Borghese aveva guidato un’invasione del nord Africa, occupando Cartagine e Algeri, inoltre con una piccola flotta si era diretto verso la Spagna, oramai tagliata fuori dal centro costantinopolitano, sperando in una facile conquista di quella ottima postazione sull’Atlantico. Sostenuto dai francesi e da una fazione indipendentista iberica prese Barcellona, Saragozza e Valencia, ma venne bloccato dall’eroica resistenza di Nuova Cartagine e dalle truppe dello strategos Sebastián de Eslava.
I portoghesi rimasero fedeli all’impero e il generale, un fedelissimo di Thomas con il quale aveva servito nelle guerre precedenti, poté coordinare un’efficace difesa che si protrasse fino alla fine del conflitto.
Nel 1752 le ostilità vennero aperte dalla Prussia in modo spettacolare. A Narva, una potente fortezza sul Baltico, 26.000 prussiani prevalsero su 48.000 russi, costringendoli a ripiegare su San Pietroburgo. Pochi giorni dopo, raggiunti dalle truppe di guarnigione inglesi della Finlandia, posero l’assedio alla capitale nemica, costringendo la corte zarista a trasferirsi a Mosca, lontana dal cuore del conflitto.
Sembrava che la Nazione russa fosse prossima al collasso, perciò Thomas decise di spostarsi nel teatro ucraino con la crema dell’esercito, lasciando una robusta schiera a sorvegliare i Balcani con a capo Ioannes Kastriotas. Le legioni travolsero un’armata russa dietro l’altra con una facilità sorprendente, soprattutto a causa dello stato di confusione che aleggiava nel centro di comando zarista, ancora in trasloco e scosso dall’abbandono della capitale.
Thomas aveva visto giusto. In pochi mesi tutta la Crimea, L’Ucraina e una parte del Caucaso orientale cadde in mano romana, e solo una decisa offensiva austriaca nei Balcani costrinse le truppe imperiali a fermarsi e a non marciare su Mosca. Il dictator dovette fare così dietrofront e tornare a Costantinopoli, seguito a ruota da sette legioni. Il secondo centro di potere russo era salvo, e la tzarina poté così rifiatare e concentrarsi sull’arginamento degli ormai detestati prussiani.
Maria Theresia, sovrana d’Austria e Ungheria, realizzando lo stato di crisi dell’alleato orientale aveva deciso di scatenare una feroce offensiva a sud. A tal fine chiese agli alleati francesi e tedeschi di lanciarne un’altra a nord, in modo da costringere entrambi i nemici a diminuire la pressione ad est.
100.000 asburgici erano semplicemente troppi per i 42.000 soldati, per buona parte reclute o alleati, che componevano le forze del Kastriotas. Questi dovette barattare lo spazio in cambio del tempo, cedendo terreno con una ritirata combattuta che rallentò e logorò il nemico.
Per attuare questa strategia, in attesa del ritorno di Thomas, il comandante romano dovette usare i suoi reparti migliori di cavalleria e artiglieria tra cui drakonarioi, ussari valacchi e moldavi e cosacchi ucraini, oltre che il meglio delle batterie a cavallo della Guardia Imperiale, distaccate in via straordinaria da Costantinopoli.
Al sopraggiungere della stagione estiva gli austriaci avevano occupato saldamente la Transilvania ma non si erano spinti oltre, visto che il Kastriotas aveva letteralmente blindato i valichi dei Carpazi appoggiandosi alle possenti fortezze locali e alle postazioni trincerate presidiate da reparti scelti a cavallo e a piedi.
In Valacchia e lungo il Danubio, invece, aveva posto il proprio campo principale, per sorvegliare la principale via d’invasione dell’area. Aveva inoltre reso difficile il superamento di quella zona pianeggiante con l’espediente di allagare la zona deviando il fiume in alcuni punti, creando una serie di paludi che rendevano difficile, faticoso ed estremamente lento l’attraversamento.
Il comandante asburgico Leopold von Daun decise allora di sfondare la cerniera difensiva molto più a ovest, assediando Belgrado, la città-fortezza cardine del sistema difensivo imperiale dei Balcani. Le operazioni ossidionali durarono due mesi, giusto il tempo necessario per concentrare tutte le truppe disponibili e aspettare il rientro di Thomas.
La mattina del 29 agosto 80.000 romani mossero verso le postazioni austriache, costringendo i nemici a togliere le tende con una battaglia di manovra che li mise infine con le spalle al fiume.
Thomas aveva elaborato una strategia particolare che aveva sperimentato in Ucraina, in cui l’esercito avrebbe operato con contingenti misti di cavalleria, fanteria e artiglieria mobile ai lati, in modo da agire in maniera indipendente sui fianchi, mentre il centro sarebbe stato costituito dalla classica linea di fanti appoggiata dai cannoni, che avrebbe svolto il ruolo d’incudine.
Daun non ebbe scampo visto la sua logica molto convenzionale. 50.000 dei suoi uomini rimasero sul terreno o vennero fatti prigionieri, mentre i vincitori lamentarono circa 10.000 perdite tra morti e feriti.
Sembravano le scene a cui i romani si erano abituati con Eugenio di Savoia e l’entusiasmo esplose in ogni angolo dell’impero, eternato in numerosi pamphlet, arazzi, affreschi e quadri.
I giorni che seguirono la battaglia di Belgrado furono un’ubriacatura nella capitale e nei themata, dove la gente scese per le strade e nelle piazze, sventolando bandiere con l’aquila bicipite e arruolandosi volontaria nelle legioni o nella marina. Il consenso politico raggiunse il suo culmine, con pubbliche manifestazioni di devozione alla Vergine Theotokos-Odegetria, eterna protettrice della città di Konstantinos e ai santi guerrieri Demetrios e Georgios.
Gli imperatori Romanos e Ioannes, davanti ad una folla sterminata di 200.000 persone assiepata all’interno dell’Ippodromo, dichiararono che presto sarebbe arrivata la pace e la vittoria generale. Promisero che entro sei mesi anche l’Italia e l’occidente secessionista sarebbero tornati sotto l’alveo imperiale, mentre le truppe romane si sarebbero spinte fino a Vienna, Parigi e Mosca con una spettacolare manovra a tenaglia orchestrata con le truppe prussiane dell’alleato Friedrich, celebrato con il titolo di amicus populi romani, a cui venne dedicata una statua equestre, unico tra i sovrani stranieri a meritare questo onore, nell’antico Phoros di Konstantinos.
Il loro fu però un eccesso di ottimismo.
Nel settembre del 1752 si verificò infatti un duplice trauma. L’armata prussiana stanziata in Sassonia, l’unica che si frapponeva tra i francesi e Berlino, venne sconfitta rovinosamente a Frankenhausen. Friedrich dovette abbandonare in fretta e furia il fronte russo per dirigersi con i suoi veterani verso il Brandeburgo, ma tallonato dai cavalleggeri zaristi perse un terzo degli uomini e quasi tutta l’artiglieria, spostando di nuovo l’ago della bilancia dalla parte degli alleati.
Infatti, nonostante questi ottenesse una splendida vittoria campale presso Wittenberg, era ormai circondato tra da decine di migliaia di francesi, tedeschi e russi a sud, ovest ed est. Questi ultimi vennero ritardati mediante il sacrificio imposto da Friedrich ai suoi alleati-vassalli polacchi, che vennero falcidiati in un’azione di retroguardia senza speranza di riuscita.
Alla fine sarà solo l’inverno a salvare il sovrano di Prussia, visto che sarà così duro e terribile da bloccare praticamente qualsiasi operazione bellica sopra Vienna.
Thomas decise di sfruttare il periodo di tregua invernale per un’audace invasione dell’Italia.
Con 43.000 veterani e 50 cannoni sbarcò a Brindisi in novembre, travolgendo le guarnigioni dislocate in Puglia.
Nella penisola operava il Barberini visto che il suo collega era in Spagna, perciò solo la metà delle forze ribelli erano a disposizione in quel teatro bellico. Thomas ne approfittò, muovendo a nord seguendo l’antica via romana che portava all’Urbe e lasciandosi alle spalle tutti i centri minori e le guarnigioni avversarie. Infatti egli sapeva benissimo che quella era una questione politica, e le secessione sarebbe terminata con la sconfitta campale dell’armata nemica o la presa della capitale.
Presso Montecassino s’incontrò quindi con le forze repubblicane, contro le quali si confrontò ed ebbe numerose scaramucce fino ai primi di dicembre. Il 6 entrambe le schiere decisero d’impegnarsi in uno scontro di linea, che fu un successo per i romani. Oltre la metà dei ribelli rimasero sul terreno o vennero presi prigionieri, facendo sparire l’unica vera e propria forza combattente della ResPublica.
Il dictator aveva visto giusto ancora una volta, e il suo premio fu di entrare nella Civitas Aeterna in trionfo, scortato dalle insegne imperiali, che ricominciarono a sventolare sulla penisola mano a mano che l’esercito avanzava verso settentrione al seguito dei pochi sbandati dell’armata nemica e del Senato, che aveva installato una capitale provvisoria a Milano e contavano in aiuti austriaci e francesi.
Louis XV non poté credere alla sua fortuna quando gli venne chiesto d’inviare un esercito in Italia. La sua dinastia aveva avuto come obiettivo storico fin dall’epoca di Charles VIII l’occupazione delle prospere regioni della Lombardia, perciò fu con grande cortesia che i delegati del Senato vennero accolti a Versailles, dove fu stipulata un alleanza eterna con la ResPublica.
Tra il 24 e il 25 marzo, con ancora i passi congelati, 32.000 francesi entrarono in Piemonte e occuparono presto la Liguria, entrando a Milano ai primi di aprile. Thomas era a Bologna quando lo venne a sapere, e marciò a tutta velocità per chiudere la pratica italiana per poi spostarsi sul più delicato scacchiere dei Balcani, per poter alleggerire la pressione sulla Prussia.
Inoltre, nello stesso anno, per risollevare le esauste finanze statali di Costantinopoli vennero offerte ulteriori colonie all’Inghilterra in cambio di un ingente somma di denaro e un duplice attacco rivolto sia nei territori d’oltremare di Louis, sia all’area tedesca, mediante l’invio di flotta e truppe regolari e mercenarie per risollevare lo stremato alleato prussiano.
George della dinastia degli Hannover, dopo una discussione con i suoi ministri, accettò. Buona parte dell’Australia, della Nuova Inghilterra – ribattezzata Zelanda, alcune isole e basi nel Pacifico, nei Caraibi e in India passarono di mano, facendo la fortuna dell’impero coloniale britannico in espansione.
Il sacrificio era stato grande, ma i risultati lo furono altrettanto. Infatti 5.000 britannici e 20.000 mercenari olandesi, svedesi e tedeschi sbarcarono in Pomerania con armi e rifornimenti, concedendo una ventata di ottimismo a Friedrich, mentre la flotta francese, dopo aver subito delle dure sconfitte, si dovette ritirare dal Canada e permise un’avanzata generale che fece crollare la resistenza organizzata in Nord America. Con i finanziamenti ottenuti i romani poterono riattivare lo sforzo bellico che era di nuovo giunto al limite e organizzarono una duplice offensiva nei Balcani e in Ucraina.
Purtroppo quanto erano stati grandi i risultati raggiunti in Italia, tanto furono deludenti quelli negli altri settori. Nei Balcani, infatti, era caduto in battaglia Ioannes Kastriotas e il suo sostituto Mavrikios Psellos, benché dotato di più uomini e mezzi, non riuscì a rimpossessarsi della Transilvania, che rimase in salde mani austriache fino alla fine del conflitto e non tornerà sotto influenza romana fino a Napoleone I.
In quanto al fronte settentrionale il magister militum Niccolò di Sangro aveva progettato un’avanzata fino a Mosca, per occupare la capitale nemica, ma venne bloccato dalla resistenza russa e dall’inverno, che gli costò migliaia di morti, gelati dal terribile freddo russo. Nel 1754 i romani erano imbottigliati a Smolensk, circondati da una nuova armata zarista che era rimasta tranquilla e riparata durante l’inverno. Dopo quattro mesi d’assedio di Sangro si arrese con 23.000 uomini, spazzando via tutti i risultati ottenuti fino ad allora nelle frontiere ucraine.
Per fortuna il conflitto stava per raggiungere il suo epilogo.
Una serie di battaglie cruciali determinarono la sua fine: sui Laghi Masuri Friedrich il Grande travolse per l’ennesima volta i russi e tre mesi dopo i francesi a Zwickau. Thomas vinse una duplice battaglia in terra italica a Mantova e a Vercelli, rendendo di nuovo sicure le frontiere della penisola, ma non riuscì a riprendere l’Alto Tirolo e la Provenza, che rimasero in mani nemiche. Nei Balcani lo Psellos vinse di misura a Timișoara ma venne respinto all’altezza di Alba Iulia, rendendo virtualmente impossibile la riconquista della Transilvania ma stabilizzando il fronte su una lunga linea che andava dal Danubio ai monti dei Carpazi. Infine i britannici cacciarono definitivamente i francesi dal Canada e dall’India settentrionale.
Il 1755 vide quindi le trattative di pace svolgersi con sempre maggior intensità, che risultava inversamente proporzionale a quella impiegata nei combattimenti, che oramai servivano unicamente a stabilire una posizione di forza maggiore nelle trattative, ma non vere e proprie nuove conquiste territoriali.
L’unica vera e propria offensiva che si svolse quell’anno fu quella mossa dalla Russia in Ucraina, effettuata per tentare di approfittare del collasso militare romano a Smolensk per impossessarsi del paese prima della dichiarazione di tregua. Thomas si trasferì immediatamente con le migliori truppe disponibili a Chersonesos, per poi muovere verso Kiev a marce forzate. Per l’ennesima volta era stato chiamato a difendere l’impero in quel lontanissimo fronte di guerra, ma non si scoraggiò.
Tra il 12 maggio e il 18 luglio respinse tutte le forze che la tsarina gli inviò contro al prezzo di gravi perdite, che flagellarono soprattutto i suoi veterani più esperti, ma alla fine riuscì a bloccare i nemici il tempo necessario per raggiungere la data del cessate il fuoco generale.
Era il 19 luglio del 1755, la guerra era finalmente conclusa. l’Impero di Roma era salvo.
Alberto Massaiu
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