Napoleone convocò tutti i diplomatici d’Europa a Milano per trovare i termini di una pace generale di cui sarebbe stato l’indiscusso arbitro. Invitò anche i delegati prussiani che, per quanto non avessero partecipato al conflitto, erano stati indirettamente suoi alleati indebolendo le posizioni in Germania dell’Austria con la loro politica espansionista. Nei suoi piani l’obiettivo era quello di stringere un forte legame contro il comune avversario a Vienna, in modo da poter contare sul formidabile esercito prussiano in vista di future guerre.
Franz II acconsentì subito alla proposta del basileus, ma fu più difficile trovare un’intesa con le orgogliose corti di Londra e San Pietroburgo. Napoleone, allora, inviò truppe fino all’Hannover, terra tedesca da cui proveniva la famiglia reale britannica, e lo occupò come mezzo di pressione. Inoltre ordinò una sfilata navale davanti a Dover, minacciando di bombardare Southampton con le due fortezze galleggianti che avevano fatto capitolare Brest. A questo punto anche George III si arrese all’evidenza, facendo scendere a più miti consigli anche lo tzar, che si accodò a sua volta.
Le trattative si svolsero nell’inverno del 1804, che fu un trionfo per l’imperatore di Roma e Costantinopoli, anche se l’onerosità delle clausole da lui imposte gettarono i semi di futuri conflitti.
L’Impero Romano si annetteva quasi tutta l’Ungheria al di sotto del Danubio, oltre che parte della Carinzia e tutto il Tirolo italiano, a cui aggiungeva le terre consegnate da Parigi l’anno precedente. Tutti i monarchi del continente dovettero riconoscere il giovane Louis XVII come signore di Francia e la Gran Bretagna dovette restituire le colonie a lui sottratte nei quattro angoli del mondo, salvo Pondicherry in India e Haiti nei Caraibi. La Russia accettò, seppur a denti stretti, la rinascita di un’Ucraina indipendente come era stata un secolo prima, e in cambio ottenne l’abbandono, da parte dei romani, del sostegno ai separatisti del Caucaso e la riconsegna di alcune fortezze di confine e specialmente di Rostov, ma dovette rinunciare sia a Kiev che a Char’kov.
Ivan Orlyk divenne il nuovo prinkeps di Ucraina con il nome greco di Ioannes I, e venne solennemente incoronato dalle mani stesse del basileus nella cattedrale di Sant’Ambrogio, a Milano, il 25 Dicembre del 1803, e in seguito con una cerimonia gemella nella Pasqua dell’anno successivo a Kiev.
Napoleone impose anche al kaiser di Vienna di accettare l’annessione dei due ducati di Mecklenburg-Schwerin e Hessen-Kassel alla Prussia. Credeva così di fare un favore al suo sovrano Friedrich Wilhelm III, ma in verità se lo inimicò. Il gesto, non concordato tra gli ambasciatori delle due parti, ma portato avanti in maniera autonoma dalla diplomazia di Costantinopoli, venne letto sia dal suo stato maggiore che dalla sua bella e volitiva regina, Louise di Mecklenburg-Strelitz, come un gesto di arrogante superiorità, quasi il favore di un sovrano con un suo vassallo, piuttosto che di due possibili alleati posti sullo stesso piano.
I prussiani, infatti, si sentivano pronti per un’eventuale guerra contro l’Austria. Anzi, contavano di affondare ancora di più il colpo ingrandendosi in Hannover, che era invece stato temporaneamente occupato dai legionari romani, bloccando inconsapevolmente – o forse no, visto come precipiteranno le cose – il loro slancio.
Ad ogni modo, con la sua mossa Napoleone si era fatto nemica anche l’ultima grande potenza continentale rimasta, che lo portò ad essere terribilmente isolato dal punto di vista diplomatico. Ma questo fatto, in quel momento di successo, fu sottovalutato dal sovrano trionfante, che proclamò ufficialmente il suo da poco nato erede come caesar d’Italia, che da allora divenne per tradizione il rango affidato al principe ereditario della corona imperiale fino ai giorni nostri.
Chiusi i lavori a Milano, Napoleone decise di scendere fino a Roma per celebrare un trionfo ricalcando le orme dei suoi augusti predecessori. Decise di far sfilare con sé i migliori reparti che si erano distinti nei vari teatri di guerra, con alla loro testa i generali e ufficiali che indossavano nuove divise, sfarzosissime e di gusto classicheggiante, secondo la moda che si stava affermando in quegli anni.
L’idea dell’imperatore era infatti quella di “occidentalizzare” l’Impero Romano, sostituendo gli usi millenari dell’oriente con le recuperate tradizioni dell’ovest, tra cui l’uso della lingua latina per i codici normativi, la burocrazia, i titoli della burocrazia e dell’esercito. Decise anche di far cadere in disuso il termine basileus, preferendo quello di imperator oppure di augustus. Le malelingue dissero che la sua scelta era dovuta al fatto che egli parlasse un pessimo greco, provenendo da una sperduta isola ai margini dell’impero. Napoleone, quando gli giunsero queste voci, rispose con un’alzata di spalle, affermando che anche il grande Ioustinianos non era mai stato una cima con la lingua di Sparta e Atene e che lui , d’altro canto, era il sovrano di Roma, la cui lingua madre era il latino.
Il suo trionfo fu un successo, con i 300.000 abitanti dell’Urbe che lo accolsero fastosamente, mentre egli entrava in città secondo l’antica consuetudine che venne per l’occasione rivisitata in chiave moderna. Napoleone indossava infatti la vestis triumphalis, il costume del dio Iupiter, di cui proprio in quegli anni stava ricostruendo l’antico tempio sul Campidoglio, e guidava un carro decorato con scene militari di epoca classica e mitologiche sbalzate in oro e argento su placche di legno e avorio intagliato. I finimenti dei quattro cavalli, splendidi stalloni arabi e andalusi, erano realizzati in drappi di porpora e borchie d’oro, e ogni animale risultava incoronato a sua volta di lauro.
Era adornato di un grande e ampio manto di porpora ricamato d’oro e di pietre preziose detto toga picta, poggiato sopra un’altra veste bianco candido, impreziosita anch’essa da decorazioni in fili d’oro in rilievo detta toga palmata. Nella mano destra teneva un ramoscello di lauro, simbolo di vittoria, e nella sinistra uno scettro di avorio con un’aquila in cima.
Infine una ghirlanda di foglie dello stesso albero gli incoronava la fronte, mentre il viso era tinto di vermiglio, simbolo della divinità capitolina, una caratteristica che piacque molto al popolino. Al suo fianco, sopra il carro, si trovavano due attendenti in alta uniforme che tenevano sulla sua testa una corona d’oro massiccio, realizzata in forma di foglie di quercia.
Tutta era stato recuperato con l’aiuto di studiosi quale il letterato Ugo Foscolo, Alessandro Manzoni e Wolfgang von Goethe, che avevano analizzato passo-passo i lavori redatti nel secolo appena concluso da Johann Joachim Winckelmann sull’arte e la tradizione classica greco-romana. La simbologia del potere, un vero pallino dell’imperatore, doveva essere perfetta quanto le coreografie dell’evento.
L’aquila dello scettro era infatti l’uccello sacro a Iupiter, la quercia era l’albero a lui associato e il volto della sua statua veniva regolarmente tinto di rosso durante le feste del passato. Si diceva infatti che il tempio capitolino del dio fosse stato eretto da Romolus stesso presso una sacra quercia, venerata dai pastori, a cui il re appendeva le spoglie da lui vinte in battaglia al nemico.
Allo stesso modo cento ufficiali scelti dei reggimenti della Guardia Imperiale e dei reparti meglio distintisi in battaglia portavano le bandiere e gli stendardi dei nemici vinti, che vennero condotti tra le grida di due ali del popolo fino al tempio in costruzione sul Campidoglio, e deposte davanti alla statua crisoelefantina alta 12 metri di Iupiter stesso, in avorio e oro, realizzata da Antonio Canova nel 1802 per il nuovo edificio intitolato a Iupiter Optimus Maximus. Le aquile dell’Austria e della Russia, i gigli dorati delle truppe realiste di Francia, gli stemmi dei principi di Germania e persino tre Union Jack britanniche cadute nelle sue mani in seguito alla resa di Brest vennero deposte ai piedi del padre degli dei.
In un adattamento dell’antico uso di portare le armi dei vinti dentro al tempio, Napoleone decretò che oltre duecento cannoni di bronzo strappati ai nemici sarebbero stati fusi per realizzare la decorazione del tetto, alto 20 metri dal suolo, come lo era stato nei tempi antichi, prima del saccheggio da parte dei vandali nel 455 d.C.
Al di là dello sfarzo e della calorosa accoglienza ricevuta, il sovrano non fu contento dello stato in cui trovò la Urbs Aeterna. La definì come una città caotica e raffazzonata, piena di squallidi edifici e strade strette indegne del centro più prestigioso del mondo. Portò quindi avanti un titanico piano di opere pubbliche per trasformare Roma in una capitale degna del suo antico nome.
Formò quindi una commissione straordinaria di esperti ingegneri coadiuvati da storici, filologi e artisti, a cui affidò il difficile compito. Promise carta bianca per tutto, dalle autorizzazioni all’aspetto finanziario, supportato dall’afflusso di capitali derivanti dai danni di guerra pagati dai nemici sconfitti in quegli anni.
L’idea era di far rifiorire la città di marmo celebrata nelle Res Gestae di Octavianus Augustus. Vennero abbattuti interi quartieri medievali e rinascimentali, comprese tutte le case e le botteghe costruite nell’area dell’Anfiteatro Flavio, del Circo Massimo, del Capitolino, del Campidoglio e dei fori. Vennero espulsi gli ordini monastici e sconsacrate le chiese che avevano occupato gli antichi templi ed edifici classici in quelle aree, per lasciare spazio a nuove arterie che tagliavano perpendicolarmente i punti panoramici che andavano restaurati come indicato negli antichi documenti, trattati e codici.
Da un lato, infatti, Napoleone voleva riportare in vita la bellezza antica dell’Urbe, ma dall’altra voleva avere anche spazi più salubri e razionali in cui organizzare parate e celebrazioni senza congestionare la capitale.
Ricostruì la Curia Iulia, sede dell’antico senato romano, sconsacrando la chiesa di Sant’Adriano al Foro Romano che era stata installata nel 630 d.C. da papa Honorius I sopra le rovine del prestigioso edificio. Sempre in quell’area fece innalzare il tempio di Vesta, in cui venne acceso di nuovo il fuoco sacro alla dea e istituito un collegio di vestali, tratte tra le vergini della miglior aristocrazia dell’impero, che dovevano proteggerlo dagli 8 fino ai 18 anni. Al fianco del tempio fece realizzare una statua di bronzo di Iulius Caesar, esattamente nel luogo in cui la tradizione voleva fosse stato bruciato il corpo del dictator perpetuus dopo il vile assassinio subito presso la Curia di Pompeius.
Sempre nel Foro Repubblicano restaurò gli archi trionfali di Septimius Severus e Titus, l’antica Regia, il Tempio di Saturno, quello dedicato ai Dioscuri, gli dei gemelli Castoris e Pollucis che proteggevano la città da tempo immemore, l’area del Lapis Niger in cui si pensava fosse morto lo stesso mitico fondatore della città, Romulus, la Basilica Iulia e i Rosta da cui, un tempo, si erano cimentati i più grandi politici e oratori dell’antichità.
In una seconda fase edilizia, curata negli anni dal 1808 e il 1812, si lavorò invece sul Palatino, dove venne riportato in vita il complesso palaziale imperiale abbandonato da un millennio e mezzo, ribattezzato col nome di Domus Augustana. Questo venne ricollegato al restaurato Circo Massimo, l’ippodromo, esattamente come era stato rivisitato e preservato a Costantinopoli.
Negli stessi anni i cantieri furono attivi anche in altre aree della capitale, in cui vennero restaurati i fori di Traianus, Augustus, Nerva e Vespasianus, l’Anfiteatro Flavio – in cui vennero organizzate corride, esibizioni di destrezza a cavallo, concerti, opere teatrali e spettacoli volti a celebrare la grandezza dell’impero e del suo sovrano – e il Templum Urbis, dedicato alle dee Venus Felix e Roma Aeterna, abbattendo purtroppo nel processo la splendida basilica di Santa Francesca Romana, realizzata tra il IX e il XII secolo.
Questo era stato un tempo il più grande edificio sacro della città con i suoi 145 metri in lunghezza e 100 metri in larghezza, le duecento colonne e i 30 metri di altezza. Ora risultava terzo, dietro solo a San Pietro in Vaticano e San Giovanni in Laterano, sede del patriarcato. Il tempio consisteva in due celle adiacenti, dotate di sfarzose e decorate absidi con marmi e mosaici. Ognuna di queste ospitò di nuovo la statua di una dea, seduta su di un trono di marmo. Nella prima Venus Felix, dea dell’amore e fondatrice della Gens Iulia, in quanto madre di Aeneas. Nella seconda Roma Aeterna, la dea che personificava lo Stato Romano. Anche queste vennero commissionate ad Antonio Canova, che venne ribattezzato il Pheidías redivivo.
Nel 1815, per celebrare la conquista della Francia e la sconfitta sul mare della Gran Bretagna, Napoleone restaurò l’Ara Pacis, il Mausoleo di Augustus e quello di Hadrianus, smantellando la fortezza di Castel Sant’Angelo, e infine il Pantheon, anch’esso trasformato di nuovo in un tempio dedicato a tutti gli dei, a cui aggiunse in maniera paritaria anche delle statue di Gesù Cristo, Allāh, Yahweh, Viṣṇu, Śiva, Buddha e perfino Amaterasu-ōmikami, divinità da cui pensavano di discendere gli imperatori giapponesi.
Rifondò infine, rivisitandolo in chiave sacrale e militare, il perduto culto di Mithra. I suoi aderenti potevano essere solo soldati che si erano distinti in battaglia e avevano diritto a tutta una serie di privilegi civici ed economici come eroi di guerra dell’impero. A prima vista, a parte il nome, non era altro che una semplice scopiazzatura degli ordini cavallereschi medievali comuni anche alle altre corti europee, ma ben presto la fratellanza assunse delle sfumature segrete ed esoteriche che la contrapposero ad un’altra istituzione diffusasi nei paesi del nord e nelle colonie americane: la Massoneria.
Al di là della passione per la classicità antica, Napoleone non dimenticò la praticità moderna. Realizzò infatti un complesso di contrafforti per proteggere una volta per tutte la città dalle piene del Tevere. Allargò e lastricò le strade, spostò tutti i cimiteri fuori dalle chiese e monasteri, recintandoli e dotandoli di ferree regole igienico-sanitarie. Introdusse, grazie alla collaborazione dell’ingegnere scozzese William Murdoch, l’illuminazione pubblica a gas sia a Roma che a Costantinopoli, che stabilirono il primato in questa innovazione tecnologica nel 1812. Promosse l’adozione di questa tecnologia in ogni altro centro dell’Impero Romano e perfino nelle colonie, che alla sua morte nel 1835 era il paese meglio “illuminato” al mondo, seguito da Gran Bretagna, Francia, Prussia e Stati Uniti.
Ad ogni modo il suo zelo costruttivo e riformatore gli creò numerosi nemici sia all’esterno che all’interno. La Chiesa Ecumenica lo vedeva ormai con il fumo negli occhi, ma anche le frange più conservatrici della nobiltà non lo stimavano, per quanto fossero indebolite dall’immissione di nuovi aristocratici provenienti dalla borghesia e dall’esercito, i due settori più vicini alla politica dell’imperatore.
Napoleone venne scomunicato ben tre volte nella sua vita, alternando riappacificazioni e ritorsioni con leggi, espropriazioni ed esili di alti prelati. Alla fine, nel 1832, venne firmato un concordato che separava nettamente il Cristianesimo, che venne legalmente equiparato ad ogni altra religione all’interno dello Stato Romano. Fu una mezza vittoria per entrambe le parti, in quanto quest’ultimo si vedeva formalmente riconosciuta una “preminenza affettiva” legata all’alleanza millenaria che aveva legato i patriarchi ai basilei di Costantinopoli.
La cosa che, però, sorprende di più, e che tale programma venne portato avanti in mezzo al marasma che stravolse, per l’ennesima volta, la cartina del Vecchio Continente. Nel 1805, infatti, la Prussia, che nei piani di Napoleone doveva diventare il puntello di un sistema per tenere a bada i nemici austriaci e russi, si alleò a questi ultimi e invase l’Hannover con 100.000 soldati. Iniziava così la Guerra della Seconda Coalizione.
Alberto Massaiu
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