La dirompente espansione islamica, come peraltro la storia generale del Medio Oriente e della Persia, è da noi affrontata in maniera superficiale e poco dettagliata, specialmente nei primi anni decisivi. Ricordo ancora che nel mio manuale del liceo si parlava di Muhammad e della nascita dell’Islām (due-tre pagine) e poi si passava con nonchalance direttamente a Carolus Magnus, per poi far apparire magicamente la triade delle invasioni del IX secolo di ungari ad est, vichinghi a nord e saraceni a sud. Ovviamente, il focus era come al solito incentrato sulla nostra Europa Occidentale, dimenticando che le civiltà vere, evolute e sofisticate dell’epoca, stavano molto più ad Oriente.
Per questo il mio obiettivo di oggi è lo scoprire assieme che cosa accadde nella prima metà del VII secolo in Mesopotamia, Siria, Armenia, Azerbaijan e Persia interna.
Come è stato possibile che un popolo sconosciuto alla grande storia come quello arabo – non che non esistesse, ma era sempre rimasto diviso tra tribù di ricchissimi mercanti e quelle poverissime di predoni del deserto, e non aveva mai lasciato un segno politico tangibile rispetto ai ben più potenti e temibili vicini – sia riuscito, in appena dieci anni a raggiungere l’Indo (644 d.C.) e in sessanta l’Atlantico (698-710)?
Non solo, nel processo sbriciolò le due più grandi superpotenze della nostra parte di mondo come l’Impero Romano d’Oriente, che sopravvisse a malapena perdendo però territori popolosi e ricchissimi tra cui Siria, Palestina, Egitto, Libia e Africa Cartaginese, e soprattutto la Persia sasanide, fiera avversaria per secoli di Roma. L’agonia di questo Stato, che si rifaceva agli antichi achemenidi, dinasti che avevano governato quasi tutto il mondo conosciuto a cavallo tra il VI e il IV secolo a.C., durò una ventina d’anni e si concluse definitivamente nel 651, ai confini del loro impero, a Merv.
Non indagherò in questa sede la nascita dell’Islām, che potete però approfondire in quest’altro mio articolo, piuttosto inizierò evidenziando che mai nella storia un popolo conobbe un momento più propizio all’espansione.
I due pezzi da novanta della regione, Costantinopoli e la Persia, si erano infatti dissanguati per oltre vent’anni in una guerra devastante che aveva esaurito le risorse economiche di entrambi (trovi l’articolo in dettaglio qui). Il conflitto si era infine concluso nel 628 con una vittoria completa, seppur salatissima, dei romani. L’imperatore Flavius Heraclius era infatti riuscito, dopo una serie di estenuanti campagne, a sconfiggere definitivamente gli antichi avversari presso Ninive, annichilendo il loro ultimo esercito in uno scontro campale e portando alla deposizione del tenace avversario Khusraw II, vittima di una congiura interna.
Ad ogni modo i popoli di entrambe le fazioni erano esausti da quel continuo guerreggiare, in più Heraclius per vincere aveva galvanizzato il suo popolo elaborando la versione 1.0 della “Guerra Santa” contro i “pagani” persiani, che veneravano il fuoco sacro di Ahura Mazdā, dio della luce al vertice della religione zoroastriana.
Questo atteggiamento zelante si andò a ripercuotere sulle comunità cristiane di Siria e specialmente dell’Egitto, in cui si praticava il credo monofisita, considerato a Costantinopoli una vera e propria eresia. Le milizie “liberatrici” romane instaurarono un regime d’intolleranza e persecuzione verso i locali, nel tentativo di restaurare una severa ortodossia. Per questo motivo, unito anche alla reintroduzione dell’odiato sistema di tassazione imperiale – in quel momento perfino più esoso del normale visto che c’erano tutti i guasti della guerra da riparare – le popolazioni di quelle terre poco fecero per sostenere il loro legittimo imperatore quando giunsero gli invasori musulmani.
In Persia le cose stavano persino peggio. Nel breve volgere di appena quattro anni, dal 628 al 632, una violentissima crisi istituzionale portò all’avvicendamento di una decina di figure al trono tra membri della casata di Khusraw II, generali che si erano distinti nel conflitto contro i romani e membri della corte imperiale. Nel frattempo il paese veniva scosso da epidemie e carestie, con anche qui un rapace fisco che tartassava le popolazioni per pagare i danni di guerra pattuiti con Costantinopoli in quanto Nazione sconfitta nell’ultimo conflitto. Questo avvicendarsi di shāhanshāh sul trono che regnavano per pochi mesi per poi venire brutalmente deposti e in genere assassinati, anche l’autorità di Ctesifonte sulle province e i governatori si andò ad affievolire.
Come ho detto, condizioni ideale per qualsiasi ambizioso leader animato da spirito di conquista.
Il successore di Muhammad alla guida dell’Islām, Abū Bakr, ma soprattutto il suo volitivo e abilissimo successore, ʿUmar ibn al-Khaṭṭāb, furono gli artefici del grande balzo della loro nuova religione al di là dei deserti dell’Arabia, fino ai confini del mondo.
La penetrazione musulmana nel vicino Medio Oriente si può, in estrema sintesi, dividere in circa quattro passaggi:
Fase 1: le incursioni per saggiare il terreno –> 633-635 d.C.
Fase 2: lo sfondamento del fronte romano e persiano –> 636-637 d.C.
Fase 3: l’invasione della Persia e collasso dello Stato sasanide –> 638-644 d.C.
Fase 4: Fine della dinastia e di ogni resistenza organizzata -> 645-651 d.C.
Abū Bakr aveva già deciso di inviare il suo migliore comandante, Khalid ibn al-Walid, con alcune migliaia di guerrieri a saggiare le frontiere dei due grandi stati settentrionali nel 632, ma questi dovette attendere almeno un altro anno per spingere fino in fondo le sue prime incursioni che puntavano ad inglobare le tribù arabe che proteggevano i confini desertici di Costantinopoli e della Persia. Questo ritardo fu dovuto alla cosiddetta Ḥurūb al-ridda o “Guerra della Ridda”, in cui molti clan della penisola arabica che si erano sottomesse a Muhammad consideravano concluso il rapporto personale di sudditanza in seguito alla morte del carismatico leader, segno che il suo carisma era stato forte ma non così attraente da cementificare tutte le fazioni locali.
Ad ogni modo Khalid trionfò sui ribelli e al contempo guidò le spedizioni ai margini settentrionali dell’Arabia, ad est verso le foci dell’Eufrate e ad ovest verso il Sinai e la Palestina. Le due grandi potenze che dominavano quei luoghi non avevano mai pensato di fortificare il loro desertico fronte meridionale, tenuto sotto controllo da tribù arabe cristianizzate come i ghassanidi per conto di Costantinopoli e zoroastriane o comunque fidate come i lakhmidi per conto di Ctesifonte.
Le prime incursioni furono un successo. Molti arabi locali, uniti da vincoli di parentela o di commercio con gli invasori, non opposero una grande resistenza e talvolta si convertirono e unirono ai cugini meridionali. I lakhmidi caddero quasi subito nell’orbita musulmana, sguarnendo il fronte meridionale persiano, aprendo le porte della Mesopotamia all’invasione di 18.000 guerrieri di fede islamica. I primi bottini attirarono ulteriori combattenti a nord e ben presto i persiani dovettero far fronte ad un avversario abbastanza sicuro di sé da affrontarli in campo aperto, e non solo con le consuete tattiche mordi e fuggi tipiche dei nomadi.
Khalid fu forse il più abile generale della sua epoca. Le cronache musulmane riferiscono che egli vinse ben sette battaglie in appena quattro mesi –reputo improbabile che fossero veri e propri grandi confronti in campo aperto, mentre è più realistico considerarli piccoli scontri di frontiera con reparti isolati o improvvisati – tra cui quella di Dhat al-Salasil, di al-Madhār e infine di ʿAyn al-Tamr. Dopo queste vittorie egli aveva preso e messo a sacco numerosi insediamenti tra cui al-Hira, centro del potere lakhmide, che scomparve dalla storia come realtà indipendente, sciogliendosi nel crogiolo del califfato in espansione.
Nell’autunno del 633, dimostrando una dinamicità sorprendente, Khalid affrontò in una serie di battaglie – forse ancora scontri – separate un grande esercito persiano che si stava ammassando per buttarlo fuori dalla Mesopotamia. Quello che mi preme segnalare in questa sede e che la minaccia musulmana aveva persino fatto unire gli storici nemici romani e persiani, in quanto a Firaz egli affrontò e sconfisse un’armata combinata di entrambe le potenze più i loro ausiliari arabi cristiani.
Ad ogni modo il vincitore della decennale guerra precedente, l’imperatore Heraclius, aveva deciso che avrebbe messo fine a questa fastidiosa grande incursione di arabi pagani – nessuno aveva ancora ben chiara la portata del cambiamento che era avvenuto nelle ormai città sante di Medina e la Mecca – mettendo insieme, presso Antiochia, un grande esercito di veterani. In più, egli propose al nuovo sovrano di Persia Yazdegerd III un matrimonio dinastico che li unisse nella causa, offrendogli sua nipote in moglie.
Per tale motivo, visto che i persiani sembravano indeboliti, Khalid decise di muovere in Siria con circa 10.000 guerrieri, lasciando in posizione passiva il resto nelle terre conquistate in Iraq sotto la guida del comandante beduino al-Muthannā. Questi dovette subire la controffensiva di Ctesifonte, che riottenne il controllo di molti centri perduti e sconfisse diverse forze musulmane tra il 634 e il 635, all’interno di una strategia corale concordata con Costantinopoli per dividere il fronte degli invasori e schiacciarli con il peso delle loro truppe migliori, stavolta ben mobilitate e disposte a battaglia.
Il biennio 636 e 637 risultò fatale a causa di due grandi scontri campali – stavolta certi, avvalorati dalle effettive entità numeriche dei contendenti – in cui la grande alleanza subì l’impensabile: una duplice sconfitta dei due bracci della tenaglia che doveva annientare gli invasori.
Il primo si svolse sul fiume Yarmuk. Questa serie di scontri che perdurò ben sei giorni con alterne vicende nella Siria meridionale, vide l’annientamento totale del meglio che l’Impero Romano poteva schierare sul campo. Almeno 50.000 regolari imperiali – le stime moderne variano da un minimo di 20.000 ad un massimo di 80.000 circa – si fronteggiarono con un numero inferiore di avversari che ammontava tra 15.000 e i 25.000.
Complice la divisione tra i comandanti Theodoros Trithyrios, l’armeno Vahan e l’arabo ghassanide Jabala ibn al-Ayham, l’assenza di Heraclius e la pessima scelta di un terreno desertico come area di confronto, le forze faticosamente messe in piedi dall’imperatore furono annientate nell’agosto del 636, con la perdita di almeno il 50% degli effettivi schierati e, ancora più decisiva, del successivo abbandono dell’alleanza dei ghassanidi, che dopo quella batosta si unirono ai cugini meridionali.
«Anche se Yarmuk è poco nota oggi, è una delle battaglie più decisive della storia umana […] Avessero prevalso le forze di Heraclius, il mondo moderno sarebbe così diverso da essere irriconoscibile»
– George F. Nafziger, da “Islam at War” –
L’imperatore romano, dimentico del suo passato valore in cui era stato capace di ribaltare le sorti del conflitto con la Persia, fu preso dallo sconforto e abbandonò al suo destino la Siria, la Palestina e l’Armenia, dando disposizioni affinché venisse fortificata l’Anatolia sui Monti del Tauro e l’Egitto – quest’ultimo accorgimento si rivelò inutile, in quanto i musulmani vi dilagarono nel triennio 639-642 – e spostando tutte le reliquie più importanti dell’area a Costantinopoli.
A questo punto, a causa del crollo della volontà di resistere del possente Impero Romano, le forze del khalīfa ʿUmar vennero concentrate contro il già indebolito fronte persiano. Un esercito composto da nuovi volontari giunti dall’Arabia e dal meglio dei veterani delle recenti campagne si riunì sotto gli ordini di Saʿd ibn Abī Waqqāṣ. Erano all’incirca 30.000 tra fanti e cavalieri, e dovettero affrontare il fior fiore delle armate reali persiane sotto la guida del valido generale Rustam, il migliore rimasto alle dipendenze del sovrano Yazdagert III.
Questi aveva radunato un’armata almeno doppia rispetto agli avversari, tra cui annoverava cavalleria catafratta, arcieri montati ed elefanti da guerra indiani. Anche qui, come sullo Yarmuk, la battaglia si svolse in più giorni di scontri nel febbraio del 637. I primi due i persiani attaccarono con forza e vigore, giungendo quasi alla vittoria e infliggendo numerose perdite agli avversari. Compreso, però, che era la figura di Rustam ad animare le schiere nemiche, il comandante musulmano guidò una temeraria carica verso il centro persiano all’inizio del terzo giorno, uccidendo il generale e facendo così crollare il morale dei suoi uomini, che vennero massacrati, scapparono e si arresero a migliaia. Lo stesso stendardo imperiale, il Drafsh-i Kāwiyān, cadde in mani islamiche mentre Yazdagert III si rifugiava al di là dei Monti Zagros, nella Persia interna.
Le sconfitte dello Yarmuk e di al-Qādisiyya segnarono la fine della collaborazione tra i due ex nemici e il punto di svolta del conflitto. I musulmani erano ormai padroni dell’Iraq, del Sinai, della Giordania, della Palestina, del Libano e della Siria, disegnando un cuneo d’acciaio in tutto il Medio Oriente, dai deserti meridionali fino alle pendici montuose del Caucaso.
Il vincitore di al-Qadisiyya, Saʿd, prese rapidamente sia Babilonia che Ctesifonte, ponendo fine alla lunga storia della capitale persiana con un saccheggio favoloso. Mai gli arabi avevano visto una città tanto ricca, lussuosa, sofisticata. Per trovare qualcosa di simile a quello che avvenne quel giorno bisogna andare fino al sacco crociato di Costantinopoli del 1204 (qui la storia in un mio articolo) o a quello mongolo di Baghdad del 1257. Si narra che il bottino fu talmente vasto da poter distribuire ad ogni guerriero musulmano la favolosa cifra di 12.000 dirham – più di 200.000 euro attuali – e oltre 40.000 nobili e cittadini furono venduti come schiavi.
Birtha e Budh-Ardhashīr, nel nord della Mesopotamia, ancora rimanevano sotto il controllo persiano, perciò ʿUmar ordinò ai suoi comandanti di prenderle, in modo da garantire il pieno controllo di queste piazzeforti centrali per il commercio e la difesa della regione. Dopo alcune battaglie e assedi che durano diversi mesi questi centri caddero. Le due città verranno ribattezzate Tikrit e Mossul. In quest’ultimo luogo venne creato un miṣr, ovvero un campo fortificato popolato da soli guerrieri musulmani che doveva garantire la purezza dei fedeli – che non si dovevano mischiare con la popolazione “pagana” locale – e dei luoghi di controllo strategici nelle terre conquistate. Diversi miṣr divennero più avanti città vere e proprie come Il Cairo in Egitto, Kairouan in Tunisia e Kufa e Bassora in Iraq.
A questo punto sembra – ma potrebbe essere solo propaganda – che il khalīfa ʿUmar fosse pago dell’espansione ottenuta e preferisse tenere il mare, il deserto e le montagne di Caucaso, Tauro e Zagros come confini della umma, la comunità dei fedeli.
Pare invece che, riorganizzate le sue forze, il sovrano Yazdagert III – al contrario del più passivo Heraclius – avesse deciso di riprendersi quello che era appartenuto ai suoi antenati, compresa la sua profanata capitale. Non aveva del tutto torto ad essere ottimista: i suoi domini spaziavano ancora per tutta la Persia propriamente detta, l’Azerbaijan, l’Afghanistan, il Pakistan e parte di quelle che ora sono state le Repubbliche Turche sovietiche nell’Asia Centrale. Armate truppe a cavallo in gran numero, quello che sarà l’ultimo Re dei Re zoroastriani ordinò incursioni in Mesopotamia con il fine di rendere instabile la regione e predisporre una futura opera di riconquista. A questo punto entrò in scena Hormuzan, un grande aristocratico agli ordini dello shāhanshāh, che guidò le sue armate in questa parte del conflitto. Tanto fece che ʿUmar ordinò di inseguirlo al di là degli Zagros. Questi combatté, strinse tregue e le infranse con i comandanti islamici della Mesopotamia tra il 638 e il 640.
Alla fine i governatori dei miṣr militari di Kufa e di Bosra, ʿAmmār b. Yāsir e Abū Mūsā al-Ashʿarī, scesero in campo con i loro veterani, sconfiggendo e catturando Hormuzan e spedendolo alla corte di ʿUmar come consigliere, dopo l’obbligatoria – anche se probabilmente artificiosa, come alcuni fatti futuri sembrano provare – conversione all’Islām. D’abbrivo i generali musulmani presero l’antichissima Susa nel 641, che dopo due mesi di resistenza si arrese in Gennaio.
Ancora, nonostante le continue vittorie, sembra che il khalīfa desiderasse la pace con quello che rimaneva della Persia, recitando queste parole: «Mi auguro che ci sia una montagna di fuoco tra noi e i persiani, in modo che né loro si impossessino di noi, né noi si impossessino di loro». Sfruttando quel tempo di respiro, in cui Yazdagert pose la sua capitale nella lontana Merv, all’epoca Antiochia in Margiana nell’attuale Turkmenistan, i persiani armarono il loro ultimo, poderoso esercito, con cui contavano di riprendersi la Mesopotamia una volta per tutte.
La battaglia che pose la parola fine ad ogni resistenza organizzata della Persia si svolse nella piana di Nahâvand, in Media, nel 642. Lo scontro vedeva l’ormai classico disallineamento numerico: 30.000 musulmani contro 80-100.000 persiani. Il comandante Pērōz Khusraw aveva occupato una buona posizione difensiva sulle alture. Dopo una serie di schermaglie sembrò che i primi si ritirassero in disordine, consapevoli di non poter sconfiggere gli avversari. A questo punto i persiani commisero l’errore d’inseguire l’odiato nemico, considerato in rotta. Era ovviamente una trappola. In una stretta gola poco lontano gli uomini di Pērōz furono circondati e massacrati. Tutti i più valenti e importanti nobili rimasti agli ordini di Yazdagert III furono uccisi o presi prigionieri. Era la fine.
Senza più forze organiche, con il resto del paese sfiduciato e l’autorità ridotta al lumicino, l’ultimo Re dei Re, protetto e protettore del dio della luce Ahura Madza, non poté far altro che fuggire, tallonato da eserciti islamici che, stavolta, non avevano la minima intenzione di fermarsi. Il khalīfa ʿUmar aveva infatti maturato la decisione che non ci sarebbe mai stata tregua tra la umma e una Persia zoroastriana, perciò l’unica soluzione era l’occupazione di ogni suo lembo di territorio, a costo di muovere per migliaia di chilometri fino ai suoi estremi confini.
Nel 642 e 644 le armate arabe avanzarono in un vastissimo piano strategico che comprendeva l’altopiano iranico, l’Azerbaijan e le regioni che un tempo avevano fatto parte dell’antico regno greco-macedone della Bactria. L’impresa, contando che negli stessi anni truppe musulmane muovevano alla conquista anche dell’Egitto, ha dell’incredibile. ʿUmar seppe infatti pianificare e controllare attraverso ordini dettagliatissimi offensive che si svolgevano lontanissime dalla sua residenza di Medina, mantenendo un ferreo controllo su ognuno dei suoi generali che operavano in luoghi remoti che egli non vide mai. Per tale ragione ʿUmar fu a mio parere il più abile dei successori di Muhammad, vero artefice dell’espansione islamica ai quattro angoli del mondo allora conosciuto.
La campagna finale iniziò dopo attenti preparativi nel 642, approfittando del collasso psicologico dei persiani, che pensavano di essere stati abbandonati da Ahura Madza. Isfahan cadde dopo un assedio di pochi mesi, poi l’intera regione del Tabaristan, il cui governatore si arrese in cambio della conferma del suo titolo e il pagamento della jizya, la tassa che i non musulmani dovevano pagare per vivere sotto la protezione del khalīfa.
A quel punto mossero con parte delle forze verso Azerbaijan e Armenia, che caddero tra la fine del 643 e la fine del 644, mentre a sud presero Fars e infine l’antica capitale di Persepoli. La sua caduta fu come la presa di Roma da parte dei visigoti nel 410. Questa, infatti, non esercitava alcun potere politico da tempo, ma era il centro spirituale e luogo dei sepolcri delle dinastie dei Re dei Re.
A quel punto non rimanevano che le regioni del Kerman e del Makran, quest’ultimo confinante con il Sindh. I guerrieri fedeli ad Allāh erano quindi giunti alle porte dell’India dopo un’incredibile cavalcata verso Levante. Qui affrontarono il potente rājan di Rasil agli inizi del 644 che, nonostante avesse messo in campo un grande esercito, venne puntualmente sconfitto. I musulmani giunsero così all’Indo, che per quel momento venne considerato il confine naturale migliore per la fede islamica.
Nel frattempo altre forze marciavano verso il Sistan e il Khurasan, a nord, dove i guerrieri arabi presero Alessandria di Arachosia – l’attuale Kandahar, in Afghanistan – tra il 643 e il 644 e infine Merv, ultima roccaforte e sede dello shāhanshāh dei persiani.
La fine di questa fase di concluse con il totale annichilimento della Persia, il cui sovrano Yazdegert III si era rifugiato temporaneamente in Cina. Nel Novembre 644 morì assassinato ʿUmar, il grande architetto di quella spettacolare espansione, si dice ucciso proprio da quel Hormuzan che aveva elevato al rango di consigliere personale. Gli succedette alla guida dell’immenso impero ʿUthmān, che dovette fronteggiare numerose rivolte nei territori appena conquistati.
Queste erano state fomentate dall’ancora non domo Yazdagert III che, non avendo ricevuto aiuti in Cina, tentò di portare dalla sua i bellicosi clan militari turco-mongoli dell’immensa Ferghana e Transoxiana. Ormai, però, i suoi sforzi erano senza speranza. Unita un’ultima forza presso il fiume Oxus, venne sconfitto e, dopo una breve fuga, ucciso presso Merv, che aveva per breve tempo rioccupato, nel 651.
Fu questa data a segnare la fine di una lunga agonia iniziata nel 633, neanche vent’anni prima, nelle sabbie alle foci dell’Eufrate. Da quel momento cessò ogni resistenza organizzata, e salvo occasionali rivolte nessun shāhanshāh ufficiale guidò più forze armate regolari alla riconquista della patria perduta. Vi sono però due corollari interessanti, che inserisco alla conclusione di questo articolo.
Nelle città principali, per convinzione o indottrinamento più o meno forzato, buona parte della popolazione – ma soprattutto le antiche élite aristocratiche – si convertirono abbastanza velocemente alla nuova religione. Nonostante ciò, gran parte della popolazione rurale o dei luoghi più remoti conservò le sue tradizioni religiose fino ad almeno il IX-X secolo. I vari khalīfa si dimostrarono infatti molto tolleranti, ben consapevoli di essere una piccola minoranza etnico-religiosa che, per quanto vittoriosa sul campo, risultava una goccia nel mare rispetto ai persiani. Ben presto gli zoroastriani ottennero lo status di Ahl al-Kitab, ovvero “Gente del Libro” come ebrei e cristiani, tollerati e protetti dietro il pagamento di una tassa che divenne una delle migliore fonte di entrate per l’impero.
«Lo zoroastrismo, in seguito, continuò ad esistere in molte parti dell’Iran. Non solo nei paesi che furono sottomesse relativamente tardi sotto il giogo musulmano ma anche in quelle che erano diventate province dell’impero musulmano fin dai primi tempi. In quasi tutte le province iraniane si trovavano i templi del fuoco – i majūs venerano molti templi del fuoco in Iraq, Fars, Kerman, Sistan, Khurasan, Tabaristan, al Jibāl, Azerbaigian e Arran»
– Estratto dagli scritti dello storico al-Mas’udi, X secolo d.C. –
I musulmani avevano conquistato la Persia, ma ben presto la superiore cultura di questi ultimi andò a sostituire le rozze tradizioni beduine dei primi in una versione orientale di quello che accadde a Roma con la civiltà ellenistica. L’originalità della cultura persiana sopravvisse alla conquista e i suoi abitanti – partendo dalle sue classi dirigenti – si sentirono sempre superiori e diversi rispetto agli altri musulmani, per quanto ormai uniti dalla stessa religione.
Fu forse la memoria di questa antica consapevolezza ad animare l’adesione in massa dei persiani alla versione sciita dell’Islām durante il XVI secolo, in contrapposizione ai turchi e agli arabi rimasti sunniti. Una linea di divisione che permane ancora oggi.
Alberto Massaiu
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