Il rumore del primo colpo del pesante martello fece sussultare i tre uomini. Un pezzo di marmo si staccò dalla grande statua, crollando sul pavimento mosaicato sopra il quale erano stati posti dei tappeti di vimini, per evitare di danneggiare le delicate tessere colorate.
Il segretario del vescovo, padre Johannes, si contorceva nervosamente le mani, sconvolto da quanto stava avvenendo. Gli scappò un sospiro: “Che barbarie, mio Dio. I morti vanno rispettati…”.
Queste parole scossero i due laici al suo fianco. Il più alto e giovane rimase in silenzio, ma l’altro si voltò a rassicurare il religioso: “Ordini superiori, padre. Per un bene più alto, ricordatelo”.
Johannes si accorse di essersi sbilanciato troppo e si pentì di non essersi morso la lingua. Erano tempi bui quelli, tempi in cui la parola “tradimento” era di casa: “Non mi fraintendete, dominus. Ho visto i documenti. Ho verificato i sigilli. Sia il nostro buon rey sia gli arcivescovi di Castel di Caller, Sasser e perfino della nostra stessa Aristanis hanno concordato tutto ciò. Non parlo dell’opportunità politica dell’atto, ma solo del rispetto delle anime dei defunti”.
L’uomo che aveva parlato si sistemò il farsetto, allontanandosi un poco dagli operai che stavano proseguendo con la loro opera di distruzione. Si avvicinò al religioso e sorrise con fare amichevole, nel tentativo di rasserenarlo: “Come è scritto qui” e indicò la pesante borsa che portava a tracolla, da cui spuntavano alcune pergamene: “Le spoglie mortali di tutti loro verranno riseppellite in terra consacrata, seppur in forma anonima. Nessuno vuole privar loro della possibilità di accedere al Paradiso, ma solo di fare danno con la loro memoria qui in terra”.
Queste parole smossero l’uomo alto, che fino ad allora era rimasto silente, limitandosi di tanto in tanto a scuotere la testa quando vedeva distruggere delle opere d’arte così belle. Lui era là in veste di fine studioso, affinché redigesse una relazione segreta di quanto era stato posto in essere, da consegnare direttamente al sovrano d’Aragona. Questo ufficio lo aveva costretto ad assistere a numerosi scempi umani e artistici in ogni angolo dell’isola, ma con quella notte il suo fardello gli sarebbe stato tolto dalle spalle. Corrugò le labbra in un sorriso amaro: “Immagino che il nostro buon rey, che Nostro Signore lo abbia in gloria, abbia calcolato tutto per evitare ulteriori disgrazie a questa terra travagliata. Eppure…”.
“Eppure, cosa?” lo incalzò il primo uomo, inarcando le sopracciglia.
“Qui stiamo cancellando la storia, senyor. Almeno quattro secoli di vicende umane, se non di più. Mi domando se sia giusto arrogarci un tale diritto”.
Era un’affermazione pericolosa, ben più grave di quella espressa in precedenza da padre Johannes, che infatti si ritrasse dall’uomo alto, come se questi potesse trasferirgli una qualche malattia. La malattia dei traditori. Nonostante tutto, l’altro uomo non si scompose troppo, limitandosi a stringersi nelle spalle: “Comprendo quanto dite, senyor de Gerp. Non siete il solo ad apprezzare l’arte e la storia. Dirò di più, c’è un certo fascino in quella dei nostri sudditi sardi, ed è un gran peccato la volontà di cancellarla” poi fissò i suoi occhi in quelli del suo interlocutore: “Eppure voi avete visto gli effetti che può causare alla corona. Voi c’eravate, appena pochi mesi fa, a Macumere. Voi avete visto le insegne dell’Alagon con l’albero deradicato. Voi avete sentito il grido di battaglia dei ribelli”.
A queste parole l’uomo alto chinò il capo, terminando quanto l’altro aveva iniziato: “Arborea… Arborea…”
“Esattamente!” confermò l’altro: “Non sono bastati settant’anni di guerra, la grande battaglia di Seddori e perfino due atti giuridici con valore legale a sedare i loro animi fieri”.
“Due?” domandò padre Johannes, incuriosito. Lui veniva dalla Toscana ed era giunto in Sardegna da pochi anni, perciò era digiuno delle sue vicende.
“Il primo fu firmato a San Martino il 29 Marzo dell’Anno di Nostro Signore 1410 da Leonardo Cubello, che accettava di cedere alla corona buona parte dell’antico giudicato ribelle di Arborea in cambio del titolo di marchese di Aristanis e del Goceano per lui e i suoi figli” elencò, indicando con il pollice della mano destra l’uomo alto. Poi sollevò l’indice: “Mentre il secondo fu firmato ad Alguer il 17 Agosto di dieci anni dopo da Guillaume, terzo visconte di Narbona e ultimo titolare della corona giudicale. In cambio di 100.000 fiorini d’oro cedette ogni pretesa al trono al predecessore del nostro buon rey, Alfons il Magnanimo”.
“Fu un grave errore fidarsi dei Cubello” intervenne l’altro, incrociando le braccia: “Erano nella linea di successione dei Bas-Serra, nostri fieri nemici e legittimi sovrani d’Arborea. I semi della loro futura ribellione vennero piantati allora”.
“All’epoca si pensò di attuare la massima latina del divide et impera, mio senyor de Villamarì. Sfruttare le divisioni politiche tra gli arborensi ci permise di prendere Aristanis senza combattere, cosa che non ci è sempre venuta bene contro i sardi”.
“Avete ragione senyor de Gerp” assentì l’ufficiale regio: “Ho perso degli antenati nella battaglia di Santa Anna, quando don Pedro Martinez de Luna è stato sbaragliato dalle mute del judike Mariano e del figlio Ugone. Inoltre…”
CRASH!
Il dialogo fu interrotto dallo schianto dell’ultima parte del bassorilievo. Della statua coronata rimasero solo dei tristi brandelli sparsi sul pavimento. Un operaio, un robusto scavatore forgiato da anni nelle miniere di Villa Ecclesiae, si rivolse verso di loro: “Domini, il grosso è fatto. Procediamo con l’estrazione del sarcofago?”
Padre Johannes rabbrividì, e senza proferir verbo si limitò ad assentire. Subito dopo tre altri uomini si diedero da fare a spostare la pesante lastra sopra la quale era stata un tempo collocata la statua ormai distrutta. Bartholomeu de Gerp e Joan de Villamarì si sporsero a guardare, rapiti da una morbosa curiosità, i resti dell’uomo che più di tutti aveva fatto tremare i regnanti d’Aragona.
L’iscrizione recitava: MARIANVS, REX SARDINIAE ET CORSICAE, IUDEX ARBOREE, VICECOMES BASSIS, COMES GOCEANI ET DOMINUS MARMILLAE. Il Gerp l’aveva annotata con un mezzo sorriso in un taccuino che portava sempre con sé per ogni evenienza, segnandosi mentalmente che l’ambizione del grande Mariano IV era andata ben oltre la realtà, in quanto non era mai riuscito a coronare il proprio sogno di diventare re di Sardegna e Corsica come millantato sulla sua lapide tombale.
Con un grugnito, gli operai spostarono finalmente la copertura del sarcofago, mostrando i resti al suo interno. Tutti e tre gli uomini si sporsero in avanti trepidanti, ed ebbero un sussulto quando videro il corpo.
“È quasi integro. Che sia protetto da qualche maleficio?” squittì padre Johannes, facendosi più volte il segno della croce.
“Suvvia padre, un uomo di Fede come voi dovrebbe essere lontano da simili superstizioni. I misteri della preservazione della carne sono ancora poco compresi da noi mortali, anche se in Italia pare ci siano uomini di scienza che stanno indagando – seppur guardati a vista dalle autorità ecclesiastiche – sui cadaveri” lo prese in giro Bartholomeu: “Magari l’aria chiusa del sarcofago lo ha preservato dalla corruzione. Tutto qui”.
Le sue parole non sembrarono rassicurare per nulla il religioso, che si limitò ad ordinare agli operai di spostare il corpo in una delle ultime casse di legno ancora vuote che stavano disposte per tutta la navata. Giusto per andare sul sicuro, innaffiò con abbondante acqua santa ogni parte della procedura, esattamente come aveva fatto con tutte le altre salme.
“Aspettate” intervenne Joan de Villamarì, chinandosi sui resti del defunto, stretto in un mantello bianco decorato con motivi floreali in oro: “Questo lo prendo io, come prova che tutto sia stato compiuto” e sfilò, con un movimento rapido ma rispettoso, il grande anello con l’effige della casata d’Arborea, un albero deradicato, dalle mani guantate del grande sovrano.
“Lo invierete al nostro buon rey?” domandò de Gerp, incuriosito.
“Certamente. Metteremo la parola fine a questa triste vicenda una volta per tutte. Che non rimanga nulla su cui i sardi possano in futuro poggiare la loro memoria”.
“Così sia” assentì, con il cuore diviso tra la fedeltà alla corona e una romantica malinconia, lo studioso: “Forse è proprio la soluzione migliore per evitare che venga sparso altro sangue innocente”.
“Lo è, mio buon amico. È il prezzo politico con cui ho barattato la vita dei ribelli legati a don Leonardo, che ora stanno in custodia a Xativa invece che morti, con le teste infilate ben incatramate su delle picche ed esposte in bella mostra a Castel di Caller, come avrebbe voluto il virrey Nicolò Carroz”.
“Don Nicolò è stato, nostro signore lo abbia in gloria, protagonista delle ultime sventure che hanno flagellato la Sardegna tanto quanto il ribelle don Leonardo” affermò de Gerp con una punta di mestizia nella voce: “La sua volontà di allargare i propri possedimenti, la gelosia verso i marchesi di Aristanis e le malversazioni verso i sudditi sardi della corona hanno risvegliato in loro lo spirito della ribellione, assieme al ricordo dell’Arborea. Senza di lui, negli ultimi dieci anni, avremmo avuto la pace invece che disordine e guerra”.
“Convengo solo in parte con voi, mio caro amico” gli disse il de Villamarì, toccandogli fraternamente una spalla: “Il marchesato di Aristanis era troppo pericoloso in quanto esistente. Troppo simile all’antico giudicato, troppo ricco, troppo indipendente, troppo attaccato al suo retaggio. I Cubello prima, e il loro ultimo discendente don Leonardo poi, si sono sempre sentiti più degli alleati alla pari che dei veri e propri vassalli del rey d’Aragona. Basti pensare che, poco prima della battaglia di Macumere, sia Genova che il duca di Milano avevano promesso aiuti per restaurare i Doria nel nord e i Visconti in Gallura, ricreando parte di quel sistema giudicale che abbiamo faticato tanto per mandare nell’oblio”.
“Questo lo capisco, mio senyor de Villamarì. E che il mio cuore ha pianto tanto in questi mesi, quando ho dovuto assistere alle distruzioni sistematiche perpetrate in ogni angolo di questa bella isola. Non un affresco, non un quadro, non una statua e persino tutti i documenti delle cancellerie giudicali sono stati distrutti o trasferiti a Barcelona, per finire negli archivi reali. E ora, a sommo sfregio finale, non lasciamo in pace neanche i loro morti”.
“Mi dispiace senyor de Gerp. Sono d’accordo che è dura, ma è la via migliore per evitare futuri lutti e tragedie. I sardi devono dimenticare, aiutati da noi che li governiamo, per non mantener vivo quell’orgoglio che potrebbe portarci noie in futuro. Dobbiamo addormentare la loro coscienza attraverso la non conoscenza, per il loro bene e soprattutto il nostro. È il triste fardello che impongono i dominatori sui dominati”.
Detto questo, ad un cenno del de Villamarì le casse vennero portate fuori. Erano diverse dozzine e vennero caricate in numerosi carri che sarebbero partiti verso più direzioni, per essere seppelliti in forma anonima in conventi e monasteri di campagna sparsi per tutta la Sardegna, in cui ben presto si sarebbe cancellato il ricordo di quanto era avvenuto in quella singola notte in cui quell’ultimo atto si era compito. Bartholomeu sapeva che in quelle ore altri terzetti come il suo, composti da un ufficiale regio, uno studioso e un religioso, si erano recati in Gallura, nel Logudoro e nelle rovine di Santa Igia per fare portare avanti la stessa opera con le tombe regali degli altri giudicati.
Nulla era stato lasciato al caso e non un solo brandello di memoria era stato preservato. Un brivido gli scosse la schiena, consapevole di esser parte di un’azione che, nel bene o nel male, stava cambiando la storia per quella terra in cui era nato e che amava, nonostante la sua fedeltà andasse a regnanti d’oltremare.
Volse un’ultima volta lo sguardo verso l’interno della cattedrale di Aristanis, poi cercò di spaziare verso il palazzo e la cancelleria giudicale, ormai spogli da ogni rimembranza e pronti a trasformarsi nella sede del governatore regio e in una prigione. Sospirò, traendo conforto da un pensiero che in quel momento valeva per gli scomparsi giudici sardi ma che in futuro, forse, avrebbe imposto il suo pedaggio anche sui vincitori catalano-aragonesi.
SIC TRANSIT GLORIA MUNDI
Alberto Massaiu
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