Sulla carta, non c’era alcuna speranza per i due alleati. I teorici militari davano un tempo di resistenza della Polonia di appena quattro settimane in caso d’invasione congiunta da più fronti. La Francia, invece, si pensava potesse resistere fino ad un anno.
L’esercito tedesco sbalordì il mondo con una mobilitazione e un’azione talmente rapida che, in appena sei giorni, gli permise di entrare a Varsavia bruciando sul tempo i suoi alleati, annettendosi manu militari l’intera Polonia.
L’Austria-Ungheria e la Russia rimasero con il becco asciutto, e decisero di fermare la propria mobilitazione, in attesa che Berlino concludesse la faccenda con i francesi. Le cose, però, si rivelarono tutt’altro che semplici rispetto al rapido annichilimento dei polacchi.
Conscio di avere un esercito più piccolo, il governo di Parigi aveva affidato a Joseph Jacques Césaire Joffre la missione di realizzare la più imponente e tecnologicamente avanzata difesa statica del mondo. L’idea era semplice. Creare una linea di forti, casematte, ostacoli, ferrovie, tunnel, telegrafi sotterranei e postazioni di artiglieria leggera e pesante che permettessero un tiro incrociato devastante che, mettendo al sicuro i soldati sotto tonnellate di cemento armato, avrebbe bloccato anche il più agguerrito esercito nemico.
L’opera era stata inaugurata nel 1889 ed era stata ultimata, per l’esorbitante cifra di quattro miliardi di franchi, solo nel 1907. Un altro miliardo era stato speso per crearne una più leggera anche a sud, contro un possibile attacco portato avanti dall’Impero Romano. Ad ogni modo, il fronte più pericoloso era considerato quello che andava, per 400 km, dal Lussemburgo fino alla Svizzera, entrambi paesi neutrali.
Gli strateghi dello Stato Maggiore tedesco, primo tra tutti l’erede del grande Von Moltke – che non aveva però ereditato l’abilità e l’ingegno del più famoso zio – avevano ideato due piani. Il primo prevedeva un assalto in più punti della Linea Joffre, che doveva mascherare l’attacco principale che l’avrebbe sfondata per poi condurre le armate germaniche fino a Parigi. Il secondo, invece, prevedeva il suo aggiramento attraverso i neutrali Belgio, Olanda e Lussemburgo, cosa che, però, avrebbe inevitabilmente condotto all’entrata in guerra della Gran Bretagna – loro protettrice naturale – e, forse, persino di Costantinopoli.
Visto l’azzeramento della minaccia ad est, si decise di evitare quest’ultima eventualità, puntando ad attacchi frontali supportati da migliaia di pezzi d’artiglieria.
Lo sviluppo tecnologico dell’epoca, però, avvantaggiava enormemente i difensori. Ai primi di maggio furono combattute una serie di battaglie di confine tra Metz, Nancy, Épinal e Belfort. La I, la III, la IV e la VI armata tedesca impattarono violentemente il fronte con un milione e mezzo di effettivi e 1.800 cannoni. A fronteggiarle stavano la I, la II e la V armata francese, che tennero duro causando enormi perdite al nemico.
A parte alcuni scontri di cavallerie nelle fasi iniziali, la guerra di movimento che aveva sorpreso il mondo solo poche settimane prima si era ben presto arenata in una sorta di continuo assedio che proseguiva per tutta la frontiera.
Presso Amnéville, poco a sud della frontiera con il Lussemburgo, in due giorni l’alto comando tedesco lamentò 75.000 tra morti, feriti, prigionieri e dispersi. In cambio di questa carneficina erano stati conquistati tre forti, quattro villaggi e una striscia di terreno di circa 40 km.
Le tattiche di fanteria, infatti, si rifacevano ancora troppo alle guerre del secolo precedente, fondate sulla memoria delle gesta del grande imperatore romano Napoleone I. Ben presto, però, i generali dovettero rivedere questo approccio, constatando che il volume del fuoco di fucili, mitragliatrici e cannoni caricati a shrapnel mieteva un numero esorbitante di vite quando si avanzava in linea.
Ad ogni modo, agli strateghi tedeschi non rimase che puntare tutto sulla loro schiacciante superiorità nel campo delle artiglierie. Nell’estate del 1911 vennero concentrate sulla linea del fronte più di 3.500 bocche da fuoco, a cui si aggiunsero nell’ottobre dello stesso anno dei mostri frutto dell’incredibilmente avanzata industria siderurgica teutonica: i Grosse Bertha. Questi ultimi erano degli obici capaci di sparare ad oltre 10 km di distanza proiettili da 850 kg.
Nonostante gli ingentissimi danni che erano capaci di causare al nemico, i francesi tennero duro, anche grazie all’arrivo di finanziamenti e volontari da Belgio, Olanda e Gran Bretagna. Il kaiser lamentò la cosa come una violazione della neutralità di questi ultimi, ma Londra ribatté che “Non vi era stato, da parte del Governo di Sua Maestà, alcun desiderio o volontà di venire coinvolti nel conflitto in corso”.
Nel frattempo, tra le altre grandi potenze, sembrava che la faccenda dovesse finire là. Il magas logothetes Eleutherios Venizelos ebbe a dire che la “situazione” in Occidente era il solito azzuffarsi tra barbari, ma che presto – visto lo stallo in corso – si sarebbe giunti ad un armistizio. I primi ministri di Vienna e San Pietroburgo, ora che avevano perso la possibilità di ingrandirsi a spese del comune vicino polacco, non avevano la minima intenzione di sacrificare la loro migliore gioventù nei campi di Francia.
Insomma, in molti pensavano che ogni cosa sarebbe finita entro Natale, probabilmente ai danni della sola Varsavia.
Ma i tedeschi la pensavano diversamente. Desideravano mettere la parola fine al potenziale nemico francese, di cui desideravano ardentemente incamerare le colonie in Africa e Asia. Perciò mobilitarono i loro servizi segreti per condurre un audace piano per coinvolgere Costantinopoli nel conflitto.
Per prima cosa, con la massima segretezza, vennero finanziati diversi movimenti nazionalisti francesi nei themata romani della Gallia Narbonense e dell’Aquitania che portarono ad attacchi terroristici a Bordeaux, Tolosa e Lione. Le bandiere imperiali vennero date alle fiamme e vennero assaltate le caserme e i magazzini militari. Solo nella cosmopolita Marsiglia, che da oltre 500 anni apparteneva stabilmente all’impero, fu possibile mantenere l’ordine.
Parigi, già impegnata in una lotta per la sopravvivenza, fece involontariamente il gioco di Berlino quando propose una mediazione con coloro che, come scrisse il premier ministre Clemenceau, erano “i nostri cari cugini d’oltre-frontiera”. Queste parole furono viste dal governo di Costantinopoli come una velata minaccia che presupponeva un sostegno francese (e non tedesco) alla ribellione. Nel Senato scoppiò una violenta discussione tra i membri della linea dura, che volevano ripristinare l’ordine con la forza imponendo la Legge Marziale nei themata transalpini e delle scuse formali da parte dei francesi, e quella orientata al dialogo, che voleva concedere una maggiore autonomia ai territori occidentali e la possibilità di doppio passaporto per chi avesse voluto risultare sia romano che francese.
A questo punto il colpo da maestro. Il kaiser Wilhelm II in persona scrisse un memoriale che venne inviato segretamente alla basilissa Theodora, in cui proponeva di invadere da sud la Francia, schiantando così le sue difese con un attacco alle spalle. In cambio del sostegno per chiudere “in modo rapido, pietoso e definitivo questa e tutte le altre guerre”, il sovrano tedesco avrebbe concesso quasi tutto il territorio metropolitano francese a Costantinopoli, ripristinando, come ebbe a dire: “L’antico imperio dei Cesari in Gallia”. Lui si sarebbe accontentato delle colonie e di una striscia di terra extra nello Champagne, e aggiustamenti alla frontiera dell’Alsazia-Lorena.
La proposta doveva rimanere celata, ma entro una settimana una serie di indiscrezioni, forse complici delle spie britanniche, fecero venire a galla il tutto.
La Gran Bretagna proclamò che, nonostante il suo desiderio fosse la pace, non avrebbe tollerato un allargamento del conflitto. Venizelos, che non voleva guastare gli ottimi rapporti commerciali con Londra che perduravano da oltre sessant’anni tra le due Nazioni, si oppose nettamente alla proposta di Berlino. Purtroppo, l’influenza del marito dell’imperatrice, il prinkeps Georgij Romanov, la spinse verso la guerra, chiedendo le dimissioni dell’abile primo ministro e dichiarando lo stato di pre-mobilitazione.
A questo punto il prime minister Asquith mise in allarme la Royal Navy e l’esercito sparso per tutte le colonie nel mondo, stringendo il 21 dicembre un trattato di alleanza e mutua protezione con la Parigi. Il giorno dopo inviò un ultimatum alla corte imperiale, dichiarando che se entro il 24 non si fosse bloccato l’invio di truppe ed equipaggiamenti a Marsiglia, sarebbe stata la guerra.
Per tutta risposta, fu Costantinopoli a dichiararla per prima il 22, mentre 500.000 legionari irrompevano al di là dei confini meridionali della Francia. Come previsto, sottoposta ad un’attacco alle spalle, il fronte in Alsazia-Lorena cedette. Liberi di muoversi, i tedeschi avanzarono con determinazione, catturando quasi 300.000 soldati mentre si congiungevano ai romani presso Besançon.
Il governo francese dovette abbandonare Parigi e, sfruttando la marina britannica, evacuò il continente con circa 650.000 soldati. Per il 31 gennaio una parata militari di legionari romani e soldati tedeschi sfilava sotto la Tour Eiffel in trionfo.
Il 1912 iniziava con quella che sembrava una pace in terra europea, con la seria minaccia che la flotta romano-tedesca potesse tentare uno sbarco anfibio nella stessa Gran Bretagna. Inspiegabilmente, però, tutti i contendenti sembrarono fermarsi. Non furono compiute grandi operazioni e nelle colonie, luogo in cui si sarebbe potuta svolgere una guerra su scala planetaria, le armi rimasero reciprocamente in silenzio.
Questo mistero, forse dovuto al fatto che Berlino e Costantinopoli pensavano che i giochi fossero fatti, e che Londra alla fine avrebbe accettato lo status quo continentale se non fosse stata minacciata nei suoi domini d’Oltreoceano, condusse il conflitto in una fase di stati che perdurò per diversi mesi.
In verità, nella totale ignoranza dei suoi nemici, la Gran Bretagna preparava la sua rivincita.
La diplomazia inglese, infatti, stava operando su più fronti nella più assoluta segretezza. Da un lato, infatti, stava stringendo accordi con il Giappone e gli Stati Uniti per portarli a loro volta nel conflitto, mentre dall’altro corteggiava gli stessi alleati russi e austriaci della Germania perché cambiassero fronte con una giravolta diplomatica.
Quelli che passarono alla storia – quando vennero resi pubblici dai comunisti romani nel 1915 – come i Protocolli Segreti di Oxford, furono una serie di promesse che vennero fatte (spesso in contrasto tra loro) a uomini di Stato austriaci, ungheresi, boemi, russi, polacchi, francesi, spagnoli, portoghesi e perfino romani nell’ottica di scardinare il nuovo ordine continentale creato dall’alleanza di Roma e Berlino.
I tedeschi diedero una grossa mano in tal senso in quei mesi, in quanto – resi arroganti dalla vittoria – si comportarono con sufficienza con gli alleati di Vienna e San Pietroburgo. Alla loro richiesta di compensazione territoriale in Polonia, secondo gli accordi di alleanza stretti alla vigilia del conflitto pochi mesi prima, i primi si rifiutarono sdegnosamente, argomentando che la terra si ottiene con il sacrificio del sangue, non con vuote parole.
Per tenersi buona Costantinopoli, però, la diplomazia germanica fece di tutto per corteggiare il marito della basilissa, allontanandolo dall’influenza dei parenti alla corte dello tzar. Invitato a Berlino come rappresentante della corona per la parata della vittoria che si tenne il 24 marzo del 1912 (simbolicamente un anno dopo l’attentato che aveva portato alla guerra), venne insignito del grado di hochfürst (Alto Principe) dell’impero e insignito della Eisernes Kreuz di prima classe. Venne trattato come se fosse lui l’imperatore romano, cosa che toccò grandemente il suo ego visto che tutti sapevano quanto il ruolo di mero principe-consorte gli stesse stretto.
Quando egli tornò a Costantinopoli un mese dopo era diventato un fervente filo-tedesco, entrando in rottura con i parenti di San Pietroburgo, che al contrario stavano covando rancore verso il sempre più tiepido alleato. Londra seppe far rinascere le antiche ambizioni russe per l’Ucraina, i principati danubiani e il Caucaso, promettendo inoltre di lasciar loro mano libera in Estremo Oriente e in parte dell’Asia Centrale.
A Vienna, invece, venne prospettato un allargamento fino all’Adriatico con Slovenia, Croazia, Bosnia e Serbia, oltre che parti della Polonia e della Transilvania.
Al contempo, gli inglesi avevano deciso di puntare sull’unico punto debole dell’Impero Romano, ovvero i potenziali movimenti separatisti che, seppur gestiti bene fino a quel momento, covavano in parte nelle élite locali della penisola iberica, della Francia e persino dell’Italia, ispirate da pensatori nazionalisti rifugiatisi in Gran Bretagna nella seconda metà dell’Ottocento, come Manuel García Prieto, Afonso Augusto da Costa, Gaston Doumergue e Giuseppe Mazzini.
L’idea era quella di indebolire il fronte interno di Costantinopoli, per poter far sbarcare delle truppe nella penisola iberica e poi, se le cose fossero andate per il meglio, giungere in Francia meridionale e perfino in Italia.
Servivano però rinforzi, e il miglior candidato in tal senso divennero ben presto gli Stati Uniti d’America. Potenza considerata da tutti di medio rango dopo la catastrofe della Guerra Civile, più interessata agli affari che alla grande politica del mondo, era però il classico caso di gigante dormiente.
Con delle frontiere protette da due oceani, con a nord il Canada britannico e a sud lo Stato Cliente romano del Mexico squassato da una guerra civile che divideva i latifondisti dai popolani con simpatie anarchico-socialiste, era di recente passato sotto la guida di un presidente di origini italiane che voleva cambiare il futuro del suo paese: Frank Ferrara.
Figlio di una famiglia di emigrati che si era elevata dal nulla durante la corsa all’oro in Alaska e le trivellazioni di petrolio in Texas, Mr. Ferrara aveva l’ambizione di trasformare gli Stati Uniti nel paese guida del nuovo continente. A lui i britannici promisero mano libera tra gli Stati Clienti di Costantinopoli in quella che era definita ancora come “Grande Colombia Romana”, ovvero un insieme di paesi frutto delle conquiste imperiali del XVI secolo, formalmente indipendenti da metà ottocento ma legati alla figura del basileus – che rimaneva il capo di Stato di ognuno di essi – e agli interessi politici, economici e militari della città che sorgeva sulle rive del Bosforo.
A contropartita immediata, Londra avrebbe ceduto l’arcipelago delle Hawaii, che controllava da qualche decennio, e avrebbe proceduto al riconoscimento dell’acquisizione americana dell’Alaska, acquistato alla Russia in bancarotta pochi anni prima.
In cambio chiesero un milione di reclute americane per la “Liberazione dell’Europa” dal gioco del misticismo e della tirannia.
Al Giappone, invece, vennero promesse numerose colonie romane e tedesche nel Pacifico, mano libera in Manciuria e in Corea, oltre che il riconoscimento di Potenza pari alle altre Nazioni Occidentali. A loro veniva richiesta la copertura del fronte orientale e un simbolico invio di 150.000 soldati sul fronte russo europeo nella grande offensiva che sarebbe scattata di sorpresa alla fine dell’estate.
Mancava un casus belli per far partire il nuovo domino che, a cascata, avrebbe trasformato il conflitto europeo in uno veramente globale. E questo arrivò nella torrida estate del 1912, quando una congiura di palazzo portò alla morte il principe consorte della basilissa, Georgij Aleksandrovič Romanov, trascinando il mondo verso il baratro della guerra totale.
Alberto Massaiu
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