Cercare di riassumere in un articolo quanto avvenne tra il 66 e il 73 d.C., cercando al contempo di indagarne le cause profonde, è molto complesso. Questo perché la Giudea del tempo, o Terra Santa come verrà nominata nel Medioevo, o ancora la Palestina e l’Israele dei nostri tempi recenti, era da tempo una polveriera.
Terra di passaggio tra i grandi imperi delle prime civiltà, divideva gli egizi dalle ricche città della Siria e della Fenicia, ed era passaggio obbligato per chiunque volesse mantenere il controllo delle vie commerciali e carovaniere che andavano dalla Mesopotamia all’Arabia, dal Nilo all’Anatolia e al Mar Mediterraneo.
Per questo motivo, fin da quando gli ebrei vi si installarono in una data incerta con buona probabilità risalente al periodo delle invasioni dei popoli del mare – XIII o XII secolo a.C. -, i loro potentati vissero vite brevi, sanguinose e movimentate, alle prese con invasioni e conflitti esterni (ed interni) continui.
Avvicinandoci al periodo che ci interessa, dopo la cosiddetta cattività babilonese – determinata dalla presa di Gerusalemme da parte di Nabû-kudurri-uṣur (conosciuto da noi italiani per l’opera verdiana Nabucodonosor), la distruzione del tempio e la deportazione tra il Tigri e l’Eufrate – e il ritorno grazie alla tolleranza – e alle interessate considerazioni strategiche – dei persiani, ben presto gli ebrei dovettero vedersela contro un altro invasore: i greco-macedoni di Alexandros e dei suoi successori.
Per buona parte del III e del II secolo a.C. la terra degli ebrei venne così rimpallata tra il trono dei seleucidi e quello dei tolomei. Nel 168 a.C. Antiochos IV Epiphanes sembrò vicino alla vittoria, in quanto riuscì ad invadere l’Egitto stesso, arrivando fino ad Alessandria. Fu però bloccato dalla sempre più ingombrante Res Publica Romana che, dopo aver annientato le ultime sacche di resistenza macedone a Pidna, stava sviluppando un soft power diplomatico sul Mediterraneo orientale.
La città capitolina oppose un veto alla conquista del sempre più decadente Egitto tolemaico, ed Antiochos dovette tornare scornato nella sua capitale di Antiochia, in Siria. Sulla strada, però, decise di rimettere al loro posto i suoi recalcitranti sudditi ebrei, che a suo dire non lo avevano sostenuto a dovere nella campagna appena andata in fumo. Come massimo atto di spregio spogliò del suo tesoro il tempio di Yahweh a Gerusalemme, ma soprattutto lo dedicò a Zeus Olympieion e alla sua corte divina di stampo ellenico.
Il suo gesto, dettato dalla superbia e dalla poca consapevolezza della forza di una fede monoteista, ebbe l’effetto della classica accensione di una miccia dentro una polveriera.
Uno dei più alti membri della classe sacerdotale ebraica, Yehudah ha-Makabi – o Giuda Maccabeo – guidò una violenta rivolta che perdurò per ben sette anni, dal 167 al 160. Cacciate le guarnigioni seleucidi, egli poté dedicare nuovamente il grande tempio cittadino al culto di colui che gli ebrei consideravano l’unico dio, asportando le statue dei numi olimpici. La sua abilità in guerra, in un’epoca in cui si poteva tranquillamente essere sia sacerdote che combattente, gli valse il titolo di maqqaba o “Martello”. I suoi uomini, ad ogni modo, non combatterono mai direttamente contro le possenti falangi macedoni in campo aperto, ma adottarono tattiche di guerriglia che replicheranno con successo anche due secoli dopo contro i romani.
Ad ogni modo, egli fu il capostipite della dinastia degli Asmonei – dal greco Assamonaioi, forse derivante dall’ebraico Hašmannīm – che, negli anni seguenti, unì al titolo di gran sacerdote del tempio quello di sovrani di Giudea.
La sua casata, però, aveva due grossi deficit che mai poté del tutto superare. In primo luogo, non era una diretta discendente della famiglia di David, il leggendario secondo re di Israele, padre dell’ancor più celebre Šəlōmōh, fondatore del Primo Grande Tempio. Questo fatto non garantì loro quella legittimità assoluta tra le classi dirigenti e il popolino, indebolendo il loro potere in momenti critici della dinastia.
In secondo luogo, poi, ben presto la loro linea di sangue andò sempre più ad ellenizzarsi, tanto che molti nomi di principi e sovrani della casata univano tranquillamente elementi greci con elementi ebraici, come Aristobulos o Alexandros insieme a Yannai o Yohanan.
Questo sincretismo culturale, tipico della maggior parte degli Stati sorti sulle macerie dell’impero del grande Alexandros, non piaceva al popolo ebraico, che si considerava eletto dal Signore proprio perché “puro” e non corrotto dalla mescolanza con i “gentili”, ovvero i greci, i siriani e gli arabi che onoravano altre divinità.
Ad ogni modo, seppur faticosamente, la monarchia asmonea seppe mantenere l’indipendenza della Giudea fino a quando Pompeo Magno non giunse a dirimere una guerra civile tra gli ultimi due eredi della dinastia nel 63 a.C.
Yohanan Yrkanos II e Aristoboulos II, infatti, si contendevano con le armi il trono, e il generale romano, all’apogeo della sua potenza e prestigio, impose a Gerusalemme il primo, che era il più debole e irresoluto, portandosi in catene a Roma il secondo, come parte del bottino da esporre per il suo trionfo nella guerra ad est. Da quel momento la Giudea divenne a tutti gli effetti uno Stato Cliente dei romani, conteso solo per breve tempo dai parti – che installarono un loro candidato qualche anno dopo.
Poco prima della Guerra Civile tra Marcus Antonius e Octavianus, questi appoggiarono la salita al trono del celebre Herawdes il Grande, colui che verrà ingiustamente accusato dalla Bibbia di essere il mandante della mai avvenuta strage degli innocenti (anche perché morì almeno quattro anni prima della presunta nascita di Yehoshua ben Yosef, nel 4 a.C.).
Questi fu in realtà un abile sovrano che resse le sorti del paese per quasi quarant’anni, sopravvivendo ai tentativi di assassinio di familiari e membri della corte, conflitti con i vicini e convivendo con l’ingombrante dominio dei suoi grandi protettori romani. Riuscì perfino ad ingraziarsi Octavianus – ormai Augustus – dopo che questi aveva trionfato su Marcus Antonius, di cui era stato un fedele vassallo durante il conflitto che si era concluso ad Alessandria nel 30 a.C.
Egli fu un sovrano ellenistico a tutti gli effetti, in quanto promosse la costruzione di città, templi, monumenti e fortezze come il grande palazzo e il Secondo Grande Tempio a Gerusalemme, ma anche luoghi di culto per greci e siriani, che invitò ad insediarsi nel suo Stato. Fu sua la volontà dietro la fondazione di Cesarea Marittima, Sebaste, Masada e Macheronte. Per ingraziarsi il partito ebraico sposò Miriam (o Mariame), una delle ultime discendenti della casata asmonea.
Il suo saggio imperio, frutto della grande abilità politica e del prestigio personale accumulato negli anni, non fu eguagliato dai suoi successori. La Giudea, infatti, venne ben presto trasformata in una provincia romana a tutti gli effetti, perdendo anche quel poco di autonomia di governo derivante dall’avere un sovrano proprio, che venne sostituito da governatori inviati direttamente dall’Urbe.
Questo stato di cose perdurò per qualche decennio, passando per il regno di Tiberius, di Gaius Caesar (o Caligula), di Claudius e infine di Nero. Ogni anno che passava, però, la nuova acquisizione della città capitolina risultava una faccenda sempre più difficile da gestire. Le lotte di fazione tra sette messianiche, xenofobe e ultraortodosse (tra cui i celeberrimi sicarii, fanatici che compivano omicidi talmente eccellenti da passare alla leggenda, e da questa al vocabolario, visto che ancora ora chi uccide per commissione è definito “sicario” persino in italiano, a duemila anni di distanza), la poca fiducia del popolino verso le élite locali filoromane e l’invio di governatori più interessati ad arricchirsi personalmente che a cercare di acquietare le fratture etnico-religiose tra ebrei, greci, latini, arabi e siriani che abitavano la regione, portò la situazione al punto di ebollizione massima. Bastava solo un ultimo colpo, che giunse nel 66 d.C.
In quell’anno fatale, infatti, un gruppo di greci provocò gli ebrei che stavano pregando presso una sinagoga a Cesarea Marittima. Piuttosto che mediare, individuando i colpevoli, il procurator Gessius Florus – un uomo corrotto fino al midollo – si fece pagare un “pizzo” di ben otto talenti (una piccola fortuna) per ricevere la petizione di protesta di questi ultimi, per poi rigettarla sprezzantemente e giungendo infine a rinchiudere i più riottosi capi ebrei. Non pagò di tutto ciò, egli prelevò arbitrariamente altri diciassette talenti dal tesoro del Secondo Tempio di Gerusalemme, giustificando la sua azione affermando che era questi ultimi servivano all’imperatore.
Era troppo. Gli ebrei iniziarono a lamentarsi del suo operato per tutta Gerusalemme. Quando egli passava, questi gettavano monete per terra, prendendolo in giro per la sua millantata povertà. A questo punto, offeso come solo sa fare chi dentro il suo cuore sa di essere colpevole, Florus reagì nel peggiore dei modi, sguinzagliando i soldati per le strade provocando centinaia di morti e feriti per reprimere il malcontento.
A questo punto la situazione era ormai sfuggita di mano, anche se una commissione di ispettori inviata dal governatore della Siria, Cestius Gallus, aveva riconosciuto le ragioni degli ebrei. Florus fu circondato con i suoi soldati da un’immensa folla, e fu costretto a ritirarsi verso la Fortezza Antonia, punto focale delle difese di Gerusalemme.
Entro breve tempo, però, le sue forze vennero travolte e il procurator, insieme a tutti i suoi uomini, venne trucidato. Stessa fine fecero diverse isolate guarnigioni romane come quelle della roccaforte di Masada, presa da un gruppo d’assalto della setta dei sicarii. Anche qui, non vennero fatti prigionieri.
Il legatus Augusti pro praetore Cestius Gallus, a questo punto, decise che era necessario ripristinare l’ordine con l’esercito, marciando a sud con la XII Legio Fulminata al completo e reparti della III Legio Gallica, della IV Scythica e della VI Ferrata, oltre che molte cohortes e alae ausiliarie, per un totale di 20 o 30.000 uomini. Egli, però, non aveva chiara quanto estesa fosse la rivolta, perciò marciò semplicemente verso il suo epicentro a Gerusalemme, senza predisporre guarnigioni e via di approvvigionamento sicure lungo la strada, venendo ben presto tagliato fuori dalle sue basi a nord e sulla costa da una diffusissima guerriglia.
Nonostante l’assoluta superiorità tattica dei romani, questa situazione portò Cestius a rendersi conto che non sarebbe riuscito a prendere la città, e nella riturata venne intercettato da decine di migliaia di ebrei armati alla leggera che, presso Beth-Horon, gli inflissero ben 6.000 perdite in una grande imboscata, catturando perfino l’aquila della XII Legio, un’onta terribile per il prestigio delle armi romane.
Questa sconfitta portò la situazione al di là di ogni soluzione diplomatica.
Gli ebrei, infatti, galvanizzati dalla vittoria, pensarono di poter riguadagnare la propria libertà, cacciando dalla Terra Promessa tutti i gentili. Nei fatti, però, si accesero subito in tutto il paese, e nello specifico nella capitale, una serie di sanguinose guerre intestine tra le varie fazioni moderate (farisei e sadducei) e intransigenti (zeloti, sicarii, edomiti) che indebolirono grandemente il fronte della resistenza antiromana.
Dall’altra, invece, l’Urbe prese sul serio quanto stava avvenendo nella regione, e affidò ad un abile e determinato generale la faccenda, dotandolo di tutte le forze e le risorse necessarie alla bisogna. Quest’uomo fu Flavius Vespasianus, che a breve diventerà imperatore dopo la guerra civile del 68-69 d.C.
Vespasianus poté contare su tre legioni al completo (la V Macedonica, la X Fretensis, la XV Apollinaris), 20.000 ausiliari, 6.000 cavalieri e 15.000 alleati forniti dai sovrani clienti di Roma, tra cui Antiochos IV di Commagene, Herodes Agrippa II e Malichus della Nabatea. In totale 60.000 soldati.
La strategia del generale era prudente e inesorabile. Utilizzò tutto il 66 e il 67 per annichilire ogni resistenza avanzando lentamente da nord e da sud, sempre muovendo con ondate di cavalieri ed esploratori per evitare imboscate, prendendo ogni fortezza sulla sua strada e abbattendo ogni centro ribelle che non si sottometteva in maniera più che chiara.
Entro la fine del 67 la Galilea e la costa erano tornate stabilmente in mani romane, piegate dalla brutale violenza della macchina da guerra capitolina, con tutti i suoi centri strategici di Iotapata, Joppa (l’antica Giaffa), Tiberiade, Tarichaea e Gamala.
Presso Iotapa venne catturato il più grande narratore di questo conflitto, quel Yosef ben Matityahu che passerà alla storia con il nome di Titus Flavius Iosephus, o Flavio Giuseppe in italiano, autore del Bellum iudaicum o ancora, visto che venne scritta in greco ellenistico, Historía Ioudaikou polémou pròs Rhοmaíous.
Messo in ceppi in quanto capo ribelle – perciò passabile di condanna a morte – egli seppe guadagnarsi la stima prima del figlio del generale, Titus, e poi dello stesso Vespasianus, predicendogli l’ascesa al trono imperiale. Da quel momento divenne un partigiano della causa di Roma, cercando al contempo di spiegare e difendere, per quanto possibile, anche le ragioni del suo popolo di origine, cosa che ha reso la sua figura in maniera molto controversa tra gli ebrei nei secoli seguenti.
«Ciò che maggiormente incitò i giudei alla guerra fu un’ambigua profezia, che si trovava nelle sacre scritture, secondo le quali in quel tempo uno che veniva dal loro paese sarebbe diventato il dominatore del mondo. Questa profezia la intesero come se riguardasse uno di loro, ma molti sapienti si sbagliarono ad interpretarla in questo modo, poiché la profezia in realtà si riferiva al dominio di Vespasianus, acclamato imperatore in Giudea»
Flavius Iosephus
Ad ogni modo, Vespasianus dimostrò ancor di più la sua abilità quando decise di procedere con calma nella campagna del 68, in quanto era venuto a sapere che le lotte di fazione stavano dilaniando i ribelli. Citando le sue parole: “Visto che i nostri nemici sono impegnati ad uccidersi l’un l’altro, la miglior linea di azione è quella di rimanere come spettatori mentre questi ultimi compiono da soli il nostro lavoro, in ragione del loro folle fanatismo”.
Ignorando perciò Gerusalemme, questi si impadronì senza difficoltà di tutti i centri minori intorno all’epicentro della rivolta, e lo stesso fece nel 69, fino a che, stabilite solide linee di rifornimento e guarnigioni verso la Siria e il mare, puntò infine a quest’ultima, ormai isolata.
Sembrava la fine, ma fatti ben più grandi a livello politico rispetto quanto stava avvenendo in quella sperduta provincia di confine concessero un po’ di respiro ai ribelli. Vespasianus, infatti, decise di tentare la fortuna nei convulsi mesi seguiti alla morte dell’imperatore Nero (o Nerone, in italiano), che aveva spezzato per sempre la prima dinastia imperiale della gens Iulia-Claudia.
Egli ascese al trono grazie al sostegno delle legioni d’oriente e del Danubio, e solo nel 70 Titus venne inviato con 70.000 armati per chiudere la questione con gli ebrei.
Ereditata la perfetta situazione strategica predisposta dal padre, questi marciò direttamente sulla capitale, che pose sotto assedio nel marzo dello stesso anno. La strategia di Tito fu quella di ridurre le riserve di cibo ed acqua degli assediati, permettendo ai pellegrini di entrare in città per la consueta visita al tempio in occasione di Pesach, ma impedendo loro di uscire.
In tal modo puntava ad esasperare al massimo i difensori, spingendo ad ulteriori divisioni interne che avrebbero facilitato la vittoria. In verità, però, nonostante queste ultime causarono ulteriore morte tra i civili, la vista degli odiati invasori animò di folle fanatismo gli ebrei, che più di una volta misero in difficoltà gli esperti soldati romani con attacchi e sortite.
Questo fatto obbligò Titus a procedere con opere di ingegneria, fortificazione e grandi macchine da guerra. Gerusalemme aveva tre grandi capisaldi nella Fortezza Antonia, nel Grande Tempio e nel Palazzo di Herawdes il Grande, oltre che tre cinte di mura. I romani dovettero espugnarle una per una, e ogni volta si ritrovarono anche a combattere casa per casa nei quartieri conquistati, che vennero così rasi al suolo.
Il generale, per evitare rischi, fece abbattere tutte le mura e gli edifici conquistati, e al contempo fece realizzare una circonvallazione tutto intorno alla città – un po’ come aveva fatto il grande Caesar ad Alesia contro Vercingetorix – per stringere un cappio intorno ai difensori, che non poterono più sperare in soccorsi esterni. La fame dilagò a Gerusalemme, con centinaia di morti.
Per luglio venne lanciato un altro assalto che portò alla caduta e alla distruzione della Fortezza Antonia, mentre il Grande Tempio venne preso entro la prima metà del mese successivo, e nel caos della battaglia venne dato alle fiamme fino alle fondamenta.
Questo fatto spezzò la forza dei difensori, che entro i primi giorni di settembre vennero sopraffatti. Gerusalemme venne saccheggiata brutalmente per giorni, e Flavius Iosephus parla di un milione di morti e 97.000 prigionieri. Titus diede ordine di radere al suolo l’intera città, che fu ricostruita solo nel 130 dall’imperatore Hadrianus con il nome di Aelia Capitolina, colonia romana in cui venne vietato l’accesso agli ebrei fino al VII secolo d.C., quando venne presa dagli arabi musulmani che la ribattezzarono Madinat bayt al-Maqdis, o Città del Tempio.
I ribelli sconfitti, secondo le consuetudini di Roma, vennero dispersi per tutto l’impero, avviando quel processo di diaspora che gli ebrei definirono galut o “esilio”. Tale fenomeno non estinse del tutto il fuoco della ribellione, che venne spento solo temporaneamente con la soppressione dei sicarii, asserragliati nel loro ultimo avamposto di Masada, nel 73 d.C.
Nel 115-117 una nuova rivolta costrinse Traianus a rinunciare a cogliere i frutti della sua vittoria sui parti, e al tentativo di annessione della Mesopotamia fino al Golfo Persico, mentre nel 132-135 fu Hadrianus a dover far fronte all’ennesimo autoproclamatosi messia, Simon ben Kosevah. Anche in questo caso si contò mezzo milione di morti, con 50 città e quasi 1.000 villaggi rasi al suolo, tanto che la Giudea stessa – affermano le cronache del tempo – venne ridotta ad un deserto tale che dovette essere ripopolata da coloni romani.
Con la Terza Guerra Giudaica si concluse la speranza messianica degli ebrei, che dovettero ricredersi sulla prossima venuta di un principe che avrebbe restituito la Terra Promessa al loro popolo. Ai loro discendenti, sparsi ormai per l’immenso Impero Romano, non rimase che raccogliersi sullo studio e il rispetto delle leggi mosaiche fino alla nascita del sionismo moderno e ai fatti che porteranno alla nascita dello Stato di Israele nel 1948.
Alberto Massaiu
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