L’Occidente, inteso come quell’insieme di paesi europei più Stati Uniti, Canada e le enclave oceaniche di Australia e Nuova Zelanda, si sente sempre più minacciato dall’avanzare di molti di quei paesi considerati in via di sviluppo fino a pochi anni fa. Brasile, Messico, Iran, India sono alcuni, ma i più temuti arrivano dall’estremo oriente.
Le “Quattro Tigri Asiatiche”, anche conosciute come i “Quattro Dragoni”, sono le nazioni di Taiwan, Corea del Sud, Singapore e Hong Kong, che si possono fregiare di un tasso di crescita costante da decenni. Pare che per loro non esista crisi o recessione, mentre soffiano via quote di mercato a paesi più grandi e, almeno all’apparenza, più ricchi e potenti.
Questa crescita avviene però in relazione al colosso intorno al quale gravitano che, a detta dei migliori economisti della Goldman Sachs, supererà col suo PIL quello statunitense nel 2020 – prima della crisi finanziaria non andava comunque molto meglio, visto che il sorpasso era comunque previsto per il 2027 -: la Cina.
La Cina ha ormai stabilito diversi primati. La fetta cinese del PIL globale supera la soglia del 10%; Shanghai è molto più grande, ricca ed estesa di qualsivoglia città del continente americano o europeo e risulta essere alla guida di un nuovo modello di megalopoli non situate più in Occidente; i suoi cantieri navali sfornano imbarcazioni di grande stazza che, coi loro container, trasportano merci cinesi in tutto il globo; la Cina importa quantità immense di materie prime dai quattro angoli della terra per sfamare le insaziabili brame della sua economia in espansione; nelle fabbriche di Wenzhou si producono milioni e milioni di prodotti di tutti i tipi che poi invadono i nostri mercati – basti pensare che i famosissimi e avveniristici Iphone, Ipad e Mac, che sono tutti ivi assemblati, per poi passare rapidamente nella Silicon Valley per nazionalizzarsi prima di essere venduti nei luccicanti Apple Store di tutto il mondo -.
Eppure, se si guardava alla Cina di appena tre decenni fa, lo scenario che ci si parava davanti risultava ben diverso. I trattati iniqui imposti dagli inglesi dopo le guerre dell’Oppio all’inizio del XIX secolo, apripista a tutti quelli che verranno in seguito stabiliti dagli americani, dai francesi, dai tedeschi, dai russi, dagli italiani e in ultimo dai giapponesi avevano dato la prima spallata al decadente Celeste Impero. In seguito ci furono numerose guerre civili, l’ascesa dei nazionalisti, l’invasione giapponese e la Seconda Guerra Mondiale, la salita al potere di Mao Zedong e del partito comunista, il cosiddetto “Grande balzo in avanti” e infine la folle “Rivoluzione culturale”. Tutti questi cataclismi hanno annichilito per due secoli le numerose potenzialità del grande paese sinico.
Ma non è stato sempre così. Il Celeste Impero è stato un faro di civiltà, cultura, ricchezza e benessere per millenni. Agli inizi del 1400, ben prima dell’ascesa del potere occidentale e delle grandi scoperte geografiche, i cinesi della dinastia Ming potevano vantare tutta una serie di primati in tecnologia, popolazione, urbanizzazione, economia e potenza militare terrestre e navale.
La Città Proibita venne completata nel pieno centro di Pechino, la nuova capitale sinica, tra il 1406 e il 1420. Vennero utilizzati un milione di lavoratori e materiali provenienti da tutta la Cina, trasportati attraverso canali navigabili artificiali che si estendevano per migliaia e migliaia di chilometri a nord e a sud del paese. Il cuore del potere imperiale cinese, il grande palazzo, aveva mille edifici che ospitavano oltre diecimila tra cortigiani e militari della guardia. Nanchino, la precedente capitale e seconda città dell’Impero, aveva una popolazione che oscillava tra i 500.000 e il milione di abitanti ed era un centro industriale per la produzione di tessuti di seta e cotone di primo piano, oltre che faro di cultura.
Il grande Imperatore dell’epoca, Yongle, oltre che abbellire la sua nuova capitale decise di far redigere una raccolta di tutta la conoscenza del suo vasto e prospero regno. La sua enciclopedia, frutto del lavoro di duemila studiosi, riempì le pagine di undicimila volumi. Il suo primato rimarrà incontrastato per seicento anni, fino all’avvento di Wikipedia nel 2007.
L’Europa dell’epoca faceva una ben magra figura rispetto al grande dragone. La cinta muraria di Londra, la più grande e ricca città occidentale, era lunga a malapena cinque chilometri, protetta da una guardia cittadina di qualche centinaio di uomini. La sua popolazione gravitava all’incirca sulle centomila persone, con oscillazioni drammatiche dovute alle frequenti epidemie – era una città sporchissima e degradata –, carestie e incendi. Nanchino aveva, oltre alla già citata popolazione, trenta chilometri di mura, sorvegliate da torri e portali talmente ampi da ospitare, ognuno di loro, una guarnigione di tremila soldati ben armati e forniti di cavalli e potenti macchine da guerra.
Ma il tema sul quale vorrei indagare insieme a voi è quello relativo al momento in cui la Cina rischiò di diventare la vera superpotenza mondiale dell’Era Moderna, soffocando prima della sua nascita l’imperialismo e la supremazia europea del XVI secolo. Insomma io desidero parlarvi dell’ammiraglio Zheng He.
Questi era un giovane proveniente dalla regione dello Yunnan. La sua famiglia era di origine persiana e per questo in gioventù venne educato secondo i precetti dell’Islam. La sua vita cambiò drasticamente Nel 1381, quando un’armata Ming invase la regione che era retta da un principe mongolo. Zheng He aveva allora dieci anni e perse il padre che militava nello sconfitto esercito mongolo. L’anno dopo, in seguito alla conquista della regione, venne tratto in schiavitù, come tradizione reso eunuco e posto alle dipendenze del futuro imperatore Yongle, il più ambizioso sovrano della dinastia Ming.
I due crebbero assieme e il giovane Zheng He scalò, grazie alla fiducia del principe e alle sue indubbie qualità intellettuali e militari, la gerarchia del Celeste Impero. Quando Yongle divenne infine Imperatore, questi era diventato il suo più stretto consigliere negli affari di Stato e nella guerra. Ma lo spirito di Zheng He era attratto dalle possibilità che si aprivano sul mare.
Tra il 1405 e il 1424 l’Imperatore Yongle finanziò ben sei viaggi con una flotta immensa che doveva esplorare e mappare i mari del mondo, affermando la potenza e la supremazia del suo grande Impero nei quattro angoli della terra. Zheng He era il capo di tutta la spedizione, nel ruolo di grande ammiraglio, esploratore, studioso, mercante e diplomatico.
La nave ammiraglia di Zheng He, definita per le sue dimensioni “Nave Tesoro”, era lunga 120 metri, con due grandi alberi maggiori e fornita di camere di galleggiamento separate che diminuivano il rischio di affondamento a causa di una falla nello scafo. Per fare una proporzione la Santa Maria, la più grande imbarcazione a disposizione di Cristoforo Colombo nel suo primo viaggio, era di una dimensione cinque volte minore. L’equipaggio dell’esploratore genovese sfiorava gli ottanta uomini stipato in tre caravelle, mentre al servizio di Zheng He, nella sua flotta di oltre trecento navi maggiori grandi all’incirca come la sua ammiraglia, stavano imbarcati 28.000 tra marinai, soldati, diplomatici e studiosi di ogni genere.
Nei suoi sette viaggi – l’ultimo avvenne tra il 1430 e il 1433, sotto il successore di Yongle – l’imponente flotta del grande ammiraglio sgominò i pirati che infestavano le coste dell’attuale Indocina e degli stretti di Sumatra. Sbarcò in Thailandia, Giava, l’antica Singapore, nella penisola della Malacca e nell’isola di Ceylon.
Circumnavigò l’India e superò gli stretti persiani di Hormuz, fermandosi per un periodo tra gli arabi dell’Aden e di Gedda. Esplorò poi il Mar Rosso e si spinse fino in Africa orientale, ricevendo l’omaggio di trecento inviati di vari potentati e regni del Continente Nero.
Lo scopo delle varie spedizioni era in parte di natura esplorativa, per conoscere meglio e in modo scientifico e organico quanto veniva sommariamente raccontato dai mercanti cinesi che, almeno fin dall’epoca romana, avevano concluso affari con l’Occidente. L’altra ragione fu il commercio: le grandi navi tesoro trasportavano al loro interno sete colorate, porcellane – i famosi vasi Ming -, muschio, oro e argento. Da parte loro i cinesi erano interessati a comprare pepe, perle, pietre preziose, avorio, corna di rinoceronte, olio e armi.
L’obbiettivo principale dell’Imperatore Yongle era però quello di affermare la totale supremazia del Celeste Impero su “Tutto quanto sta sotto il cielo”. Per questa ragione la flotta trasportava tanti soldati e le navi tesoro erano scortate da navi da guerra. Per i cinesi tutti popoli al di fuori dei loro confini andavano considerati come barbari e Yongle pretendeva che, in cambio dei doni e abbagliati dalla potenza incontrastabile della sua imponente forza, tutti i sovrani e i despoti incontrati sulla strada avrebbero dovuto riconoscere, chi formalmente, chi nominalmente, la alta supremazia della dinastia Ming.
Pochi ebbero l’ardire di tentare di contrastare la flotta cinese e i pochi che lo fecero non lo rimpiansero mai abbastanza. Si può dire che in quei vent’anni la Cina fu la superpotenza incontrastata del Pacifico e dell’Oceano Indiano, a cui tutti porsero il loro omaggio. Se tutto fosse continuato su quella lunghezza d’onda le prime piccole caravelle portoghesi avrebbero incontrato, sulla loro strada, poderose navi da guerra Ming e fortezze presidiate da agguerriti soldati cinesi, padroni dei commerci dalla penisola arabica fino all’isola di Hokkaido, o forse perfino all’arcipelago delle Aleutine, propaggine americana dell’Alaska in oriente.
La storia del mondo invece cambiò con la morte di Yongle, nel 1424. L’Imperatore era stato il grande sponsor di Zheng He, convinto che la Cina dovesse imporre il suo dominio su tutte le genti del globo attraverso la sua forza militare, la sua economia, la sua cultura e la sua tecnologia. Di ben diverso avviso fu suo figlio, che bloccò immediatamente ulteriori spedizioni, salvo autorizzarne un’ultima, la settima, nel 1430.
Zheng He perì alla conclusione di quest’ultima impresa, che aveva riaffermato la supremazia Ming sull’Oceano Indiano dopo dieci anni di disinteresse. Con la sua dipartita le ambizioni imperialistiche della Cina si fermarono del tutto. Il nuovo Imperatore era più interessato a spendere denaro nella sua guerra terrestre per occupare il Vietnam, oltre che continuamente scoraggiato alle esplorazioni dai suoi consiglieri confuciani, preoccupati da tutte le stranezze che sbarcavano dalle grandi navi tesoro. La Cina era dotata di molte qualità e punti forti, ma aveva anche una tendenza generale portata al conservatorismo e al rispetto di ancestrali tradizioni. Non era facile cambiare e innovare, perciò alla fine si preferì abbandonare il progetto di espansione.
In quest’ottica va letto il decreto Haijin, che pochi anni dopo proibì ogni forma di viaggio nelle grandi distese oceaniche. Dal 1500 chiunque si fosse messo a costruire una nave con più di due alberi poteva essere messo a morte e nel 1551 andare in mare con una barca di tale stazza avrebbe comportato la proscrizione e la persecuzione in tutti i domini imperiali. Tutti i libri, le mappe e i testi relativi alle esplorazioni del grande ammiraglio vennero bruciati. Il conservatorismo vinse la sua battaglia, ma la Cina perse una guerra decisiva.
Come sempre avviene nelle vicende umane, il chiudersi a guscio non è mai una soluzione. Per quanto la nostra situazione attuale ci paia solida e forte, il rimanere fermi alla lunga permette ad altri di superarci. La scelta di non agire risulta essere la peggior forma di azione, del tipo più autolesionistico.
La stessa cosa avvenne alla grande Cina dei Ming, che non seppe sfruttare le sue grandi potenzialità, lasciando un completo campo libero ai piccoli, litigiosi, arretrati e meno civili barbari dell’ovest.
Il primo di questo fu il portoghese Vasco da Gama che, partito l’8 luglio del 1497 da Lisbona, doppiò in quattro mesi il Capo di Buona Speranza e nel febbraio del 1498 sbarcò fino in Malindi. Erano passati solo otto decenni dai tempi di Zheng He ma il corso del tempo e della storia era definitivamente cambiato. La Cina, lo Stato più grande, longevo e potente dell’Asia, a cui solo Roma nel suo massimo splendore poteva sperare di confrontarsi, era all’inizio della sua discesa che l’avrebbe portata, tre secoli dopo, a piegarsi alle arroganti pretese della Royal Navy britannica, che potè imporgli accordi commerciali e diplomatici sfavorevoli, oltre che a strappargli il dominio su Hong Kong, che solo all’alba del duemila è stata riconsegnata in mani siniche.
Ora pare che il vento, che spinse verso oriente le speranze e le fortune portoghesi, spagnole, olandesi, inglesi e francesi sia cambiato nuovamente. Ora sta spirando dall’Estremo Oriente con una forza mai vista prima. Siamo noi tutti preparati a fargli fronte?
Alberto Massaiu
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