Nel settembre di questo 2023 ho potuto passeggiare con mia moglie presso quello che gli antichi chiamavano “Lo specchio di Diana”, ovvero il lago di origine vulcanica che disegna una vera e propria oasi silvana circondata da una vegetazione fitta e rigogliosa che, quando cala la bruma, genera nel visitatore una sensazione mistica, magica e religiosa. La pace del luogo, specialmente se lo si visita non in alta stagione, potrebbe quasi far immaginare che Diana stessa, ancora oggi, cammini senza farsi vedere da occhi mortali lungo le sue sponde, protetta dalle fronde arboree a lei consacrate.
Eppure, in tempi remoti, prima che Roma irrompesse prepotentemente nella storia, questo locus amoenus era testimone di un rito che, ai nostri occhi moderni, appare oggi barbaro e cruento. Non lontano dal moderno Museo delle Navi Romane volute dall’imperatore Caligola e recuperate nel ventennio fascista (poi incenerite alla fine della Seconda Guerra Mondiale, probabilmente per un errore durante un bombardamento alleato), sorgeva il sacro bosco e il santuario di Diana Nemorensis. Il cuore del complesso, però, non era composto da bianche colonne di pietra o di marmo, bensì da un albero racchiuso all’interno di un semplice recinto.
Intorno ad esso, prima che il rito venisse incivilito in epoca repubblicana e poi imperiale, si aggirava una truce figura armata di spada, in vigilante attesa. Non era però un guerriero, bensì un sacerdote. Di più, un re-sacerdote. Eppure era stato, almeno una volta nella propria vita, anche un omicida. Questo perché la regola del santuario prescriveva che l’unico modo per diventare rex nemorensis fosse quella di sfidare e uccidere il proprio predecessore. Solo così si sarebbe potuto ereditare dal morituro il sacerdozio di Diana.
Questa regola risultava assurda già nell’antichità classica, e il culto infatti si andò ad evolvere in forme più civili via via che il Lazio e il resto d’Italia diventava Roma, in cui il sacerdozio di Diana fu assunto persino da alcuni imperatori. Alcune fonti che arrivano fino all’età degli Antonini, però, affermano che la carica rimaneva ancora un premio che si poteva ottenere solo in duello, anche se non specificano quanto cruento questo dovesse ancora essere (forse era diventato solo un rituale simbolico, vista la profonda avversione romana verso il concetto di sacrificio umano).
Ma quale fu l’origine remota di questo rituale, che affonda in un passato così antico abitato da divinità e credenze che non si trovano comunemente narrati nei nostri manuali di scuola?
Secondo la leggenda, il culto di Diana venne istituito a Nemi da un fuggitivo Oreste (figlio di Agamennone), che dopo aver ucciso il sovrano del Chersoneso Taurico (l’attuale penisola di Crimea), era giunto fino in Italia, portando con sé il simulacro di Diana Taurica, a cui venivano sacrificati gli stranieri che giungevano, non invitati, sul suo territorio.
Arrivato fino a Nemi, Oreste decise di rifondare il culto della dea, e dove venne posto il simulacro nacque un albero sacro a cui non era lecito per nessuno motivo spezzarne un ramo. Unica eccezione era quella concessa ad un qualunque schiavo fuggitivo che, sfidando la sorte, poteva pretendere di combattere a morte il re del bosco, e se lo uccideva, diventare a suo volta il nuovo rex nemorensis.
Secondo gli antichi di epoca classica tutto ciò aveva una spiegazione: il ramo fatale era il celebre Ramo d’Oro che Enea aveva colto sul suggerimento della Sibilla Cumana prima di recarsi in visita al Regno dei Morti; la fuga dello schiavo rimandava alla fuga di Oreste e il combattimento mortale ricordava gli antichi sacrifici di sangue della Diana Taurica.
Ma quali attributi aveva questa Diana silvana, questa Diana Nemorense?
Di certo era una divinità vergine, e il suo culto rimandava alla caccia, attributi che chiunque abbia letto almeno un’antologia sui miti greci le riconosce. Eppure era anche un nume della fertilità, a cui le coppie si rivolgevano per avere figli numerosi, sani e forti. Proteggeva le donne vicine al parto, e il suo elemento sacro era il fuoco. Durante le sue feste annuali, il cui culmine cadeva il 13 agosto, il bosco risplendeva di migliaia di fiaccole e bracieri, che illuminavano le placide acque del lago durante la notte. Le statuette ritrovate nel sito mostrano una divinità che teneva stretta in mano una torcia accesa, segno del suo potere.
La Diana di Nemi presenta numerose analogie con una delle divinità femminili più sacre della Roma arcaica, ovvero Vesta, e spesso le due figure tendono a coincidere tra loro. Entrambe vergini, entrambe legate ad un fuoco sacro perpetuo, che mai deve estinguersi. I loro templi sono circolari, e chi deve occuparsi del fuoco deve essere solo ed esclusivamente una donna che non ha ancora conosciuto uomo.
Questa divinità silvana però non era da sola. Al suo fianco, in quel luogo sacro, aveva anche due divini compagni: Egeria, una ninfa che presidiava una fonte miracolosa a cui si rivolgevano i malati (un po’ come la moderna Lourdes) e le donne prossime al parto, e Vibio, che secondo il mito non era altro che l’eroe Ippolito, prediletto da Diana e, forse, suo compagno maschile nella coppia sacra legata alla fertilità, come in innumerevoli religioni antiche.
Vibio era stato, secondo numerosi autori latini di epoca classica, il primo rex nemorensis, vero e proprio sposo della dea, e quindi il capostipite della lunga linea di re del bosco che perdurò in quei luoghi fino alla cristianizzazione della penisola, e forse persino dopo, seppure in forme meno pubbliche.
L’identificazione di Vibio con Ippolito e con il re del bosco è data dal fatto che, nel mito, Ippolito viene più volte ucciso da chi era invidioso del suo “rapporto speciale” con Diana, e da questa fatto rinascere a nuova vita. Da qui il concetto di morte e “resurrezione” del nuovo rex nemorensis, che in un certo qual modo è sopravvissuto fino ad oggi anche nelle ultime monarchie europee in cui si recita «Il re è morto, viva il re!» per simboleggiare che il suo ufficio sacro di sovrano non può perire, ma solo venire trasferito dal predecessore al successore.
Questo elemento ci porta ad ulteriore passaggio che approfondiremo in un prossimo articolo, dedicato alla figura del re sacerdote antico, e del suo ruolo nel periodo remoto e mitico della monarchia a Roma.
Alberto Massaiu
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