Il conflitto tra l’Impero Romano d’Oriente e il califfato islamico di Damasco sostituì il secolare conflitto tra Roma e la Persia, che con la sua origine partica risaliva almeno alla battaglia di Carre del 53 a.C.
Ho già trattato, nel mio articolo sul profeta Muhammad, le dinamiche che portarono alla vigorosa e sorprendente espansione della nuova religione nata tra le sabbie d’Arabia. Fatto sta che alla fine del VII secolo la Persia indipendente e zoroastriana non esisteva più mentre Bisanzio si trovava sulla difensiva, mentre aveva perso la Siria, la Palestina, l’Egitto e l’Africa.
A peggiorare le cose fu il periodo di instabilità che colpì i romani d’oriente a cavallo del secolo, che portò in appena vent’anni al passaggio di potere in modo violento – tradimenti, rivolte militari, omicidi – ben sette imperatori. In quegli anni si sparse per la prima volta la voce che qualunque buon musulmano che avesse partecipato all’impresa di prendere la capitale imperiale, o fosse morto nel tentativo, avrebbe ottenuto il perdono dei peccati e la via d’accesso privilegiato al paradiso.
Animati dalla sete di conquista e dalle promesse divine, il khilāfa di Damasco, signore dell’intero mondo islamico che continuava ad espandersi in tutte le direzioni (Transoxiana e India ad est, Asia Minore e Spagna ad ovest) con un’energia che pareva inesauribile, decise di tagliare la testa al più potente nemico rimasto, l’Impero Romano d’Oriente, catturando quella che era definita da tutti come “la Regina delle Città”: Costantinopoli.
Sotto al-Walīd e poi il suo successore Sulaymān gli omayyadi – la dinastia che regnava a Damasco dopo l’ultima guerra civile araba – progettarono i dettagli della conquista, incoraggiati da una profezia secondo la quale Bisanzio sarebbe stata espugnata da un khilāfa che portava il nome di un profeta: in tal caso Sulaymān, ovvero Salomone, pensava di essere il prescelto. Questi giurò “di non smettere di combattere contro Costantinopoli fino a quando non abbia esaurito la nazione degli arabi o abbia preso la città”.
Ad ogni modo il signore supremo dell’Islām sarebbe stato solo il finanziatore e l’organizzatore dell’impresa, in quanto troppo vecchio e malato per guidare l’immenso esercito e la flotta che si stava radunando in Siria. Il comando venne affidato a Maslamah ibn ʿAbd al-Malik, suo fratello, che diventa così il primo protagonista della nostra storia.
Dall’altro lato della barricata i romani erano terrorizzati. Anastasios II, l’ultimo sovrano salito al trono, inviò delle ambascerie a Damasco per implorare la pace, ma ben consapevole che al massimo i suoi diplomatici avrebbero rallentato l’inevitabile, si dedicò a rafforzare le difese cittadine, a stringere accordi con i vicini bulgari – in genere nemici, ma in quel tragico frangente uniti contro il comune nemico musulmano – e a preparare esercito e flotta.
Purtroppo la morale degli ufficiali imperiali dell’epoca era al minimo storico, quasi cieca di fronte al pericolo e più interessata ai privilegi e ai tornaconti economici, perciò la flotta si ribellò ed elesse un ex esattore fiscale chiamato Theodosios come nuovo basileus, costringendo Anastasios a farsi monaco con tutti i suoi figli.
Per fortuna il riluttante Theodosios III, a quanto dicono le cronache dell’epoca fu eletto a forza dai ribelli, non fece molta resistenza quando i due più grandi e potenti startegoi dei themata orientali si diressero verso la capitale per restaurare l’ordine e predisporre le difese.
Leon e Artavasdos, il primo di origini siriane e il secondo armene, giunsero a Costantinopoli appena in tempo per coordinare le difese. Theodosios, visto anche il grigiume del personaggio, finì anch’egli in monastero piuttosto che in un cimitero, mentre Leon venne eletto imperatore e Artavasdos venne da questi nominato kouropalates, oltre che ricevere la mano della figlia del nuovo basileus, Anna.
Rinforzato il trono, Leon aveva da fronteggiare la più grande minaccia che Costantinopoli avesse mai affrontato. Lo storico arabo del X secolo Masʿūdī menziona 120.000 truppe, mentre la cronaca bizantina del IX secolo di Teofane Confessore parla di 1.800 navi. Vennero portate dagli arabi provviste bastanti per molti mesi, più macchine di assedio e materiali incendiari. La logistica era garantita da 12.000 inservienti, 6.000 cammelli e 6.000 asini, molti di loro volontari mutawwīn per la Jihād, la Guerra Santa.
I dati sono probabilmente gonfiati, ma per certo era presente l’élite dell’Ahl al-Shām, l’esercito veterano siriano e mesopotamico che faceva da base per il potere dell’impero omayyade, a cui si univa la flotta costruita nei cantieri navali di Alessandria e di Cartagine, di recente conquista. Le risorse in uomini, mezzi e denaro impiegate richiesero un aumento della tassazione e un indebitamento di Damasco, un gioco in all-in che danneggerà l’economia e indebolirà il potere del califfato negli anni successivi alla sconfitta.
Ad ogni modo nell’estate del 717 sembrava che il vento della sorte soffiasse forte in favore degli invasori. Saccheggiata l’Asia Minore, prese molte città e fortezze, installate guarnigioni in Cilicia e occupati i sobborghi asiatici ed europei di Costantinopoli, le forze musulmane parevano sull’orlo di una decisiva vittoria.
Secondo fonti arabe, a questo punto Leon offrì di pagare una moneta d’oro per ogni abitante della città se gli arabi avessero tolto l’assedio, ma Maslamah rispose che non ci poteva essere pace con i vinti e che la futura guarnigione araba di Bisanzio era già stata selezionata. Anche la flotta nemica era infine giunta, cercando di tagliare le comunicazioni della capitale con il Mar Nero, da dove arrivavano i rifornimenti vitali per la resistenza.
In settembre, però la retroguardia della flotta araba venne spinta dal vento contrario verso le mura e i porti cittadini e una squadra romana armata di fuoco greco approfittò della ghiotta occasione per spazzarla via. Il successo schiacciante galvanizzò i difensori e portò ansia e paura tra i musulmani, che temevano le macchine lanciafiamme dei dromoni imperiali.
Da quel momento gli omayyadi si misero ad aspettare, ma la superiorità navale romana garantiva una sicura e comoda resistenza mentre le tre linee di mura fortificate della capitale ne assicuravano l’inviolabilità da parte di terra. Muslamah dovette affrontare l’inverno in Tracia, dove i saccheggi l’avevano privato di ogni sorta di sostentamento mentre i rifornimenti dell’immensa armata diminuivano paurosamente. Quell’anno il freddo fu particolarmente intenso, con la neve che coprì il terreno per più di tre mesi, portando morte e scoramento tra gli arabi abituati ai climi siriani, mesopotamici e arabi.
In più scoppiò nel sovraffollato campo un’epidemia che, unita alla poca varietà di nutrizione, flagellò uomini e animali.
La situazione cambiò alla fine dell’anno, quando un nuovo khilāfa, ‘Umar II, salì al trono di Damasco, esigendo un ultimo sforzo ai suoi sudditi per la presa della Mela d’Oro, si giocò il tuotto per tutto. Furono allestite due flotte di 400 e 360 navi in Egitto e in Africa e vi vennero stivati soldati, armi e rifornimenti in gran numero per l’attacco finale del 718. Fu reclutato anche un ennesimo esercito di rinforzo per sostituire i migliaia di caduti dell’inverno, che mosse a marce forzate per l’Asia Minore in sostegno degli assedianti.
A questo punto, però, le cose precipitarono. I romani erano consapevoli di questi movimenti e vennero ben informati dai numerosi disertori cristiani – ricordiamo che Siria, Egitto, Palestina e Africa erano state conquistate da pochi anni e la maggior parte della sua gente era ancora più vicina a Cristo piuttosto che a Muhammad – della flotta e della truppa di rincalzo, perciò organizzarono due audaci colpi di mano.
Leon lanciò la sua flotta in un repentino e deciso attacco e il fuoco greco fece il suo lavoro con effetti devastanti. In meno di una giornata della fiera marina araba rimanevano pochi resti fumanti, mentre un gran numero di armi, rifornimenti e prigionieri venivano trasportati in trionfo a Costantinopoli. Rincuorati dal successo gli imperiali organizzarono un’imboscata anche all’armata che marciava in Anatolia, annientandola nelle colline presso Nicomedia.
Sconvolti dagli avvenimenti, Maslamah e i suoi ufficiali vennero colti di sorpresa anche dai bulgari che, rispettando i termini dell’accordo con il basileus, attaccarono in Tracia le forze arabe, massacrandone altre 20.000. Fu la catastrofe e il 15 agosto del 718, dopo tredici mesi d’assedio, Umar intimò ai superstiti di imbarcarsi con le poche navi rimaste e tornare in Siria.
Il resto di quello che poco più di un anno prima era stato l’orgoglio militare dell’Islām dovettero subire, quasi fosse un castigo divino, anche il pedaggio della natura: sulla via di casa una violenta tempesta sul Mar di Marmara e l’eruzione del vulcano di Santorini incrementarono le perdite già gravissime, tanto da far dire allo storico Theophanes che solo 5 navi approdarono in terra amica.
La sconfitta era stata disastrosa a livello materiale e morale, tanto da indebolire drasticamente la volontà di espansione omayyade, che da quel momento perse l’abbrivio di conquista che aveva caratterizzato l’epopea islamica nei novant’anni precedenti. Si narra che Umar contemplò l’idea di rinunciare alle recenti conquiste di Spagna e Transoxiana, oltre ad ipotizzare una completa evacuazione della Cilicia e degli altri territori romani che gli arabi avevano occupato negli anni precedenti. Anche se i suoi consiglieri gli proposero di non intraprendere azioni così drastiche, la maggior parte delle guarnigioni musulmane lasciarono le fortificazioni di frontiera imperiali, fissando la linea di confine sui monti del Tauro, limite che rimase stabile fino alla dinamica riscossa di Costantinopoli del X secolo.
Dall’altro lato la data del 15 agosto, che coincideva con la festa dell’assunzione di Maria Theotokos “Madre di Dio”, a cui i romani d’oriente attribuirono la vittoria ed elessero come protettrice della città, divenne una ricorrenza carissima alla popolazione della capitale fino alla sua caduta in mano turca nel 1453.
Da un punto di vista geopolitico e storico la caduta di Costantinopoli nel biennio 717-718 non avrebbe solo causato la fine completa dell’eredità di Roma, ma anche una probabile espansione dell’Islām nel resto del continente, vista la debolezza degli attori rimasti in campo cristiano – il papato e i longobardi in Italia, i franchi e gli anglosassoni ad ovest.
Il fallimento dell’impresa fu dovuto principalmente a problemi logistici, in quanto le armate arabe stavano operando troppo lontano dalle loro basi in Siria, a cui va aggiunta la superiorità della flotta imperiale e del fuoco greco, la forza delle fortificazioni di Costantinopoli, la disciplina marziale delle ultime vestigia militari romane e l’abilità diplomatica di Leon III.
In seguito al fallimento dei loro ripetuti tentativi di conquistare Costantinopoli e la continua resistenza dello Stato romano orientale, i musulmani cominciarono a proiettare la sua cattura in un futuro molto distante, al punto che la caduta della città venne considerata come uno dei segni dell’arrivo della fine dei tempi nell’escatologia islamica.
Alberto Massaiu
2 Comments
Ciao.
Ho apprezzato questo tuo articolo come anche gli altri che finora ho avuto tempo di leggere. Volevo farti notare che hai definito cristiani i bulgari nel 717 mentre a me risulta che si siano convertiti nella seconda metà dell’800.
Hai ragione, è stato un errore mio che ho corretto. Grazie per la segnalazione, è un piacere avere lettori attenti che approfondiscono le cose 🙂