Il primo a gettare i semi dell’idea italiana fu Napoleone Bonaparte, imperatore dei francesi e dominatore, in maniera diretta o indiretta, di mezza Europa. Tutto era iniziato con la Rivoluzione Francese, che aveva scardinato gli equilibri secolari del continente, mettendo in gioco i confini politici e il sistema culturale, giuridico e religioso dei paesi del tempo.
Napoleone, in questo, fu un grande innovatore in tutti i campi, ma fu soprattutto la geografia politica a mutare in continuazione durante il ventennio napoleonico. Per riguarda questo articolo, ci occuperemo solo dei cambiamenti apportati alla penisola italiana, dove costrinse a fuggire molti sovrani, stravolgendo l’ordine ingessato dagli equilibri fissati al tempo di Lorenzo de Medici e solo leggermente modificati dalle Guerre d’Italia del XVI secolo.
Alla fine del ‘700 l’Italia era infatti divisa tra dieci Stati (undici se contiamo San Marino), di cui tre repubbliche (Venezia, Genova, Lucca), due regni (quello di Napoli e di Sardegna), una teocrazia (lo Stato Pontificio) e vari principati come quello di Trento, il Granducato di Toscana e i Ducati di Parma e Modena. La potenza egemone, ovviamente straniera, era l’Austria, che dominava direttamente Milano e Mantova, oltre che dettava legge in molti altri staterelli tecnicamente indipendenti.
Quest’ordine di cose fu stravolto dal giovane generale Bonaparte, all’epoca un comandante giovane e semisconosciuto, che con un’armata mal equipaggiata e in inferiorità numerica seppe sconfiggere sardo-piemontesi, austriaci e papalini in una straordinaria campagna biennale che si concluse a Campoformio, nel 1797.
In quell’occasione, oltre a creare il primo embrione di Stato italiano (la Repubblica Cisalpina, con capitale a Milano), Napoleone debellò con una firma sulla carta (di combattimenti quasi non ce ne furono) la millenaria repubblica di Venezia, che passò quasi in toto all’Austria in cambio dei Paesi Bassi, tutti i territori al di là della riva sinistra del Reno, la Lombardia e buona parte di Emilia-Romagna e Marche.
Ma fu nel 1802, dopo l’ennesima guerra vinta contro l’Austria, che Napoleone poté far nascere la Repubblica Italiana, di cui divenne il presidente e in seguito – nel 1805 – il sovrano. La bandiera di questa nuova nazione, che ricomprendeva grossomodo il centro-nord della penisola con Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Trentino e Marche, era un tricolore a rombi e rettangoli verde-bianco-rosso, con all’interno un’aquila dorata.
Questo paese era vassallo della Francia, che deteneva il predominio totale sul resto della penisola con l’annessione diretta del Piemonte (tranne la Sardegna), il Lazio con Roma (il papa finì in esilio oltralpe), l’Istria, la Dalmazia, mentre Napoli (tranne la Sicilia) divenne un altro Stato subordinato all’impero francese.
L’esplosiva e dirompente rivoluzione napoleonica travolse l’antico sistema politico-sociale della penisola, gettando quei semi che germoglieranno negli anni successivi alla caduta del condottiero-imperatore. In questo contesto il concetto di Italia era molto simile a quello alto-medievale, legato al Sacro Romano Impero Germanico, dove questo paese terminava con i domini pontifici, lasciando escluso il meridione.
Teniamo a mente questo dettaglio perché ritornerà con il nostro prossimo protagonista, il conte di Cavour.
Fatto sta che, quando il grande condottiero cadde per ben due volte, tra il 1814 e il 1815, la penisola vide un ritorno ai vecchi sovrani – le repubbliche non vennero ristabilite, ci trovavamo in piena reazione assolutista -, ma il seme della rivolta liberal-borghese, romantica e nazionalista era stato gettato e pronto a dare frutti.
L’Austria, vera vincitrice diplomatica del celeberrimo Congresso di Vienna, si era garantita il predominio egemonico sulla penisola mediante la creazione del Regno Lombardo Veneto – provincia dell’impero sotto la sua giurisdizione diretta -, attraverso cui stendeva il suo braccio armato sul resto d’Italia con sovrani a dinastie a lei legate per sangue, per matrimonio, per ideologia reazionaria o per un mix di tutti questi fattori.
Unico neo fastidioso in questo disegno perfetto era il piccolo ma ambizioso Regno di Sardegna, ingrandito con l’acquisizione di Genova e della Liguria, che potenziavano la sua vocazione mercantile e marittima, oltre che elevarlo ad unica potenza – per quanto minore – che poteva coagulare la volontà dei futuri patrioti di una Nazione italiana.
Rimarco qui due concetti:
- il Piemonte non nutriva una vocazione unitaria che ambiva ad un paese che si estendesse dalle Alpi alla Sicilia, ma si limitava ad una visione giudicata più realistica del Centro-Nord, con lo Stato Pontificio come confine meridionale e le vecchie terre di Venezia – comprese magari Istria e Dalmazia – ad est;
- la dinastia Savoia aveva da almeno un secolo l’obiettivo di espandersi nella penisola con la politica del carciofo “Una foglia alla volta”, ma non nell’ottica ambiziosa di fondare uno nuovo Stato – come fece la Prussia di Bismarck, che infatti diede i natali alla Nazione federale tedesca di cui la stessa Prussia faceva parte – bensì di espandere il Regno di Sardegna, con tanto di sue tradizioni, sistema giuridico, politico, amministrativo, economico e militare. Questo intento, che non venne temperato a sufficienza da Cavour (che morì troppo presto) e dai federalisti come Carlo Cattaneo, fu una delle più pesanti e dannose eredità della dilettantesca e romantica unificazione, quando si decise di estendere arbitrariamente le istituzioni piemontesi all’intero territorio nazionale, senza tenere minimante in conto le differenze locali (che, se valorizzate, potevano diventare punti di forza invece che di debolezza, come poi risultarono).
La storia degli anni a cavallo tra il 1815 e il 1848 vide il fiorire delle società segrete come i carbonari, che si ispiravano per molti riti – perlomeno dal punto di vista suggestivo – alla massoneria europea. La loro proliferazione in ogni popolo che si reputava orfano di una Patria (come i greci, i polacchi, gli ungheresi, gli italiani, i bulgari, i serbi e via dicendo) fu il substrato su cui poggiò l’esplosione del 1848, che da allora rimase anche nel gergo comune per indicare un grande trambusto “Fare un ‘48”.
In questa sede non mi interessa approfondire troppo né questi movimenti né le loro vicende e protagonisti, per andare dritto al punto. Complice una crisi alimentare e un freddo inverno nel 1847, i fuochi della rivolta sconvolsero il regime di restaurazione in chiave assolutistica garantito per trent’anni dalle tre grandi aquile nere di Russia, Prussia e Austria, travolgendo anche paesi più liberali come la Francia, che vide cadere l’ennesima monarchia per una seconda, effimera, repubblica.
Sorgeva la cosiddetta primavera dei popoli, in verità animata dalle sole istanze dei borghesi, che pretendevano un maggior peso nelle faccende dello Stato attraverso delle Costituzioni che avrebbero limitato il potere regio, oppure una propria Nazione.
Se la Prussia ebbe minori grattacapi, perché paradossalmente i tedeschi proposero perfino la corona di Germania a Friedrich Wilhelm IV, che sdegnosamente la rifiutò nel 1849 in quanto “offerta da una massa di bottegai”, l’Austria se la vide ben peggio. Metternich, il grande nemico di Napoleone I e artefice della strategia diplomatico-militare che lo aveva messo al muro nel 1813 e nel 1815, oltre che architetto dell’ordine reazionario europeo, fu costretto a dimettersi. Nel grande impero multietnico degli Absburg di Vienna scoppiarono rivolte in Ungheria e in Italia, e in questo marasma politico si gettò il Regno di Sardegna di “re tentenna”, l’insicuro sovrano Carlo Alberto dei Savoia-Carignano.
Alberto Massaiu
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