Ipswich, 3 novembre 1920
Sono passati due giorni dall’ultima volta che ho preso in mano questo diario. Mi sta veramente facendo bene la terapia che mi ha consigliato il dottor Schneider. Il mettere nero su bianco quello che mi è successo in questi mesi forse mi eviterà di entrare in.. No, non voglio manco pensarci! Forza, dov’è quella maledetta cassetta? Come mai non funziona? Maledizione, questo nastro è andato! Sembra che sia stato bagnato di acqua marina… No, è impossibile, mi sto facendo prendere da delle fantasie senza senso, è stato chiuso in questo cassetto per queste ultime ore. Proviamo con quest’altro, sembra asciutto.. Ah, 29 maggio, fu il mio secondo incontro con il capitano. Vediamo..
– Rumore di meccanismi di un vecchio mangiadischi –
“Mi parli di questa spedizione, capitano. No? Guardi che per la terapia è assolutamente necessario che tolga fuori tutto quello che ha dentro. Che dice? Meglio di no? Suvvia, posso immaginare che, qualsiasi cosa sia avvenuto in quella spedizione sfortunata non sia manco lontanamente ravvicinabile al dramma del più grande conflitto che la storia umana ricordi… Che ne penso sulle origini della civiltà? Diamine, direi che viviamo molto meglio oggi che allora.. Beh, tutto nacque in Mesopotamia direi, con le prime città, la Mezzaluna Fertile, direi quasi quattromila anni orsono. Lei dice civiltà antidiluviane? Mai sentito parlare, a meno che uno non creda alle fandonie di spiritisti e ciarlatani come Helena Blavatsky o abbia un’insana passione per la letteratura gotica… Cosa? Lei avrebbe una prova? Mi faccia vedere…”
– Nuovamente il rumore del mangiadischi, con un click finale –
La prova era un manufatto. Una sorta di medaglione, fatto di un metallo azzurrognolo opaco, di una lega a me totalmente sconosciuta, pieno di incrostazioni verdi, come se delle alghe marine vi si fossero depositate sopra, per secoli.. O forse, millenni. L’età del reperto, perché di un reperto archeologico doveva per forza trattarsi, era di certo immensamente antica.
Aveva una forma sferica e, al suo interno, erano intagliati tutta una serie di cerchi concentrici, uno dentro l’altro, con una linea verticale che partiva dal centro del più piccolo di questi e arrivava fino all’esterno, tagliando la figura in due. A prima vista mi era parso solo uno strano simbolo, come quello che si potrebbe tatuare una tribù di selvaggi africani o magari dei tagliatori di teste che abbondano nelle isolette della Polinesia, ma il capitano Lex mi assicurò che era la forma stilizzata della città più antica del mondo.
Una città che, a suo dire, era stata fondata da una stirpe di grandi navigatori, 18.000 anni orsono.
18.000! Mi sarei messo a ridere se, in quel momento, il mio paziente non si fosse messo a cantilenare in una strana lingua. Era gutturale, arcaica, totalmente aliena ed ebbi, non chiedetemi come, visto che non sono un linguista, la totale e assoluta certezza che fosse una lingua morta da millenni.
Al suono di quelle parole una malsana luminescenza parve nascere nella strana lega metallica che il capitano Lex stringeva tra le mani e io venni inondato da una sensazione di puro, primevo terrore, nonostante fosse un’assolata giornata di fine maggio, nella moderna e civile cittadina puritana di Ipswich…
Alberto Massaiu
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