Ipswich, 7 novembre 1920
Sono alla terza notte senza sonno. Incubi acquatici hanno popolato i miei sogni. Città sommerse, con piazze e fontane invase da foreste di alghe. Templi incrostati di mitili e molluschi. Altari con strane figure, mezzo umanoidi e mezzo pesci.
Un posto affascinante e inquietante allo stesso tempo. Fino a pochi mesi fa non avevo mai visto in nessun libro, dipinto o scultura partoriti da mani umane, niente di simile. Ero una persona normale, uno studioso destinato a futura fama, uno scienziato dedito alla ragione. Ero tutto questo, fino a quando non chiesi del libro. Il libro mille volte maledetto di Pitea!
– Rumore di meccanismi di un vecchio mangiadischi –
“Un diario di viaggio, lei dice… Di chi, se mi permette la curiosità? Pitea? Non lo conosco, non sembra un nome di queste parti. E’ stato uno dei gradi esploratori che hanno aperto le rotte oceaniche, riempiendo con coraggio e sprezzo del pericolo tutte le parti bianche sulle nostre grandi mappe? No? Lei dice che era greco? Vissuto quanto? Più di venti secoli or sono? Incredibile, semplicemente incredibile! E come siete venuto in possesso di un tale manufatto? Ma soprattutto ne siete, ancora, in possesso?”
– Rumore di meccanismi di un vecchio mangiadischi –
Il diario di viaggio di Pitea, un manoscritto considerato da tutti perduto in seguito alla rovina della biblioteca d’Alessandria, quando il devoto Imperatore Teodosio aveva decretato che andassero distrutti tutti i luoghi di sapere pagani nei domini di Roma.
Eppure, come ebbi modo di vedere qualche giorno dopo, un testo esisteva. Era naturalmente una copia, trascritta in latino da un tal Flavius Anitiochenus e poi tradotta in lingua inglese dall’alchimista, negromante e occultista John Dee, vissuto ai tempi della Regina Elisabetta I, condannato al rogo per esercizio di magia nera e omicidio.
Una strana storia, incentrata sulla tragica scomparsa di quasi tutti i possessori di un tomo che aveva tutte le caratteristiche dell’oggetto maledetto della migliore letteratura gotica. Me ne parlò quella sera il capitano Lex, rassicurandomi che la copia del testo in suo possesso era stata protetta da un potente incantesimo sumero, cosa che aveva permesso al professor Morgan di maneggiarla senza danno alcuno.
Mi parlava di queste cose con la massima serietà e sincerità, un connubio che all’epoca trovai quasi divertente per la sua assoluta bizzarria, ma che ora so essere la pura e semplice verità!
Ci sono cose che gli esseri umani dovrebbero ignorare. Le nostre menti sono troppo limitate, i nostri spiriti non sono così forti, il confine tra sanità mentale e follia è per noi troppo sottile per camminare su di un terreno così pericoloso.
Ad ogni modo chiesi, con la più totale e ingenua curiosità, di portarmi il libro in suo possesso. Nel frattempo, mi informai da lui sulla sua origine, della sua grandezza e complessità, di come lui ne fosse venuto infine in possesso.
Mi spiegò che Pitea era stato un grande navigatore greco. All’alba delle prime esplorazioni geografiche che il suo popolo aveva intrapreso più di duemilacinquecento anni prima lui decise di andare ad indagare la via dell’ambra, addentrandosi nei gelidi mari del nord.
Si dice che esplorò le isole britanniche, i bassi fondali dell’attuale Olanda e giunse infine nei fiordi di Norvegia, Danimarca e Svezia. Alcuni dicono che arrivò fino a Thule, la leggendaria patria di cui molti tedeschi ora parlano e da cui dicono di provenire. Iperborea, lui l’aveva nominata nei suoi scritti, accennando ad un popolo superiore per intelletto e forza fisica, dotato di una saggezza antica quanto il mondo e di una longevità più simile a quella degli dei che a quella degli uomini.
Eppure molti pochi gli avevano creduto, accantonando i suoi racconti come esagerazioni da marinaio. Questo è quanto si dice in genere, ma il capitano Lex mi disse che vi era un’altra versione di quei lontanissimi avvenimenti. La vera versione.
Una versione molto più incredibile e terribile, una versione che Pitea non aveva mai avuto il coraggio di raccontare a nessuno. Una versione contenuta nel capitolo perduto del suo diario, scoperto dal professor Morgan nel 1901, nella tomba di un sacerdote egizio a Karnak. Un sacerdote di nome Sonchis.
Alberto Massaiu
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