Albany, 17 Novembre 1920
Tre giorni fa ho lottato per la mia vita. Ho ucciso uno di quegli esseri con il mio revolver Colt calibro 45. Gli ho dovuto sparare ben cinque colpi, ma alla fine l’ho visto cadere per terra, rantolante.
Sono creature REPELLENTI! Se esiste veramente un dio buono, e non ne sono più così sicuro, non può aver permesso la nascita di tali abomini della natura.
La conformazione delle loro membra non è troppo dissimile dalla nostra. Hanno braccia lunghe e arcuate e camminano a due zampe, anche se danno la sensazione di trascinarsi sempre un poco. Sono leggermente ingobbiti e pare che la loro spina dorsale sia più spessa rispetto alla nostra, perché la parte mediana della schiena sembra spingere sui vestiti in maniera innaturale, non umana.
Ma il vero problema sono le mani, che paiono palmate, con la pelle che forma una membrana pallida tra le dita, e soprattutto i loro volti! La prima volta che ne ho visto uno da vicino sono quasi svenuto dall’orrore.
I capelli sono neri e radi, sempre unti e attaccati al cuoio capelluto. In genere li tengono lunghi, avvolti in trecce strette con alghe verdi e maleodoranti. Le orecchie sono leggermente appuntite e terminano su delle ampie branchie, che tracciano tre lunghi squarci sulle guance. Il naso e la bocca sono più o meno normali, ma la cosa peggiore sono gli occhi. Enormi, dilatati, inespressivi, come quelli di un grosso pesce.
Due di queste creature mi hanno individuato ad Hartford, costringendomi ad una nuova fuga. Pensavo di averli seminati sulla strada ma a Springfield uno dei due mi è piombato addosso e non ho potuto fare altrimenti che ucciderlo. Non avevo mai usato un’arma in tutta la mia vita e pensavo che togliere la vita ad un altro essere vivente mi avrebbe riempito di ribrezzo e odio verso me stesso, invece mi sono riscoperto totalmente indifferente alla cosa. Forse perché quelle COSE non sono come noi!
Ad ogni modo sono giunto ad Albany di gran carriera e spero che 150 miglia, la distanza tra questa città e il mare, mi permettano di riposare un poco, raccogliere i miei pensieri affinché le autorità vengano informate dell’orrore che ci aspetta se non interveniamo. Dobbiamo colpire per primi, con tutta la forza che abbiamo, oppure saremo invasi e sterminati tutti, o peggio…
Allego la relazione scritta lasciatami dal Capitano Lex, il giorno prima di sparire per sempre, che racconta come tutto è iniziato.
“Scrivo queste righe affinché la memoria di quando so non sprofondi nel nero oblio con me. Non so per quanto tempo rimarrò ancora in vita e tremo al pensiero di cosa possano farmi gli atlantidi se finissi nelle loro mani.
È buffo pensare che non ho mai creduto in queste cose. La mia smania di ricercatore era fredda, lucida e razionale, quando detti il mio assenso al professor Morgan, in quella scellerata mattina del 15 marzo 1912.
Un viaggio nelle Azzorre, nell’isoletta di Plutone, come era stata ribattezzata dal dottor Blake, il geologo che vi aveva svolto dei rilievi qualche mese prima, per poi sparire nel nulla dopo alcune strane lettere, che il professor Morgan non ci aveva mai voluto mostrare.
Eravamo un bel gruppo: il comandante della nave Arthur Kemp, un lupo di mare ed esploratore esperto, con viaggi ai limiti del mondo conosciuto; i suoi tre marinai Erik Stromsson, Rajit ed Hector, che davano un tocco di folclore esotico con le loro varie provenienze dai quattro angoli del mondo; Augustus Roth, linguista e antropologo tedesco, conoscitore di scritture e alfabeti perduti; Georgios Dimokrites, geologo e naturalista di nobile stirpe greca e infine io, il professor Morgan e un altro suo assistente alla cattedra di storia e archeologia, il giovane Mark Townsted, di Boston.
Partimmo sul brigantino Phenix il 25 aprile del 1912, dal porto di Boston, in direzione dell’isola di São Miguel, dove saremmo attraccati a Ponta Delgada. Il viaggio fu rapido e senza scossoni, benedetto da un inusuale bel tempo e da una brezza che spinse al massimo le vele verso il nostro obiettivo. In pochi giorni di navigazione abbiamo infine scorto le isole dell’arcipelago, ma soprattutto le volute di fumo nero che venivano ancora emanate dalla neonata isola vulcanica. Eravamo tutti elettrizzati al pensiero delle scoperte che stavamo per fare in quel relitto di epoche remote, vicine alla nascita stessa del nostro pianeta.
Il 29 aprile, dopo esserci sistemati e aver messo in regola tutte le formalità con le autorità locali, ci recammo infine dal console inglese, l’ultima persona che aveva visto vivo il dottor Blake e là iniziò il nostro incubo…”
Questo è l’ultimo foglio rimasto sufficientemente leggibile. Il resto, altri sei manoscritti redatti con una calligrafia un tempo elegante ma ora rotta dall’ansia e, ora lo so, da puro terrore, erano stati strappati, accartocciati e intrisi di acqua marina. Riuscì, dopo settimane di lavoro, a ricostruire con molta fatica alcuni punti del suo racconto. In mezzo a quelle parole cariche di paura, ai limiti della follia, capì due cose: che il capitano Lex non faceva più parte del nostro mondo e che la mia vita era cambiata per sempre.
Alberto Massaiu
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