Il Giappone è una terra misteriosa e affascinante dove la modernità più frenetica si accosta con perfetta naturalezza e armonia con la conservazione di tradizioni plurisecolari.
Il suo relativo isolamento dovuto al suo essere arcipelago marittimo, più o meno come è successo in Europa con le isole britanniche, gli ha permesso di prendere e assimilare dalle grandi civiltà vicine e lontane solo quello che gli interessava, inserendolo e inglobandolo senza quei traumi tipici delle nazioni continentali, sempre alla mercé di spostamenti di popolazioni e sommovimenti culturali, sociali o religiosi.
Se agli abitanti delle isole britanniche bastò lo Stretto della Manica per evitare invasioni in epoca moderna – l’ultima effettuata con successo fu quella del normanno Guglielmo il Conquistatore nel 1066 – il Giappone non è mai stato sottomesso da una potenza straniera fino al 1945, quando venne sconfitto e occupato dagli americani. Perfino i mongoli, conquistatori di mezzo mondo euroasiatico, dovettero rinunciare quando la loro immensa flotta venne spazzata via da uno tsunami nel XIII secolo.
I britannici, grazie al mare, conservarono intatte tradizioni come la monarchia e l’aristocrazia, il sistema giuridico di common law, il guidare al contrario e tante piccole e grandi cose che ancora oggi li differenziano dal vecchio continente, uniformato dalle idee rivoluzionarie e riformatrici portate in tutta Europa dalle baionette dei soldati di Napoleone Bonaparte.
Allo stesso modo, ma in scala ancora più importante, il Giappone ha fatto lo stesso con il suo potente vicino, la Cina. È indubbio che molta della loro sofisticata cultura derivi dagli influssi e dai commerci con il continente, ma i nipponici hanno avuto modo, grazie all’indipendenza politica, di introdurre la scrittura, il buddismo, i vari stili artistici in maniera selettiva e inglobante, digerendoli all’interno di un loro personalissimo volkgeist e creando una civiltà con caratteristiche sue proprie, dotata di grande originalità.
Questo modello operativo, elaborato in secoli e secoli di rapporti con la Cina e la Corea, fu tirato di nuovo fuori alla fine del XIX secolo, quando il Giappone di accorse che il mondo era molto più grande e molto più avanti e decise di riportarsi al passo con una cura da cavallo.
Nel breve volgere di trent’anni il paese vide un cambiamento esteriore radicale. Da nazione feudale, dominata da aristocratici che vivevano ancora in castelli e andavano in guerra con archi, lance, spade e corazze, con un sistema economico incentrato sull’agricoltura di sussistenza e una chiusura totale verso i costumi degli stranieri, il Giappone rinacque con codici di leggi ispirati al modello francese prima e tedesco poi, con una macchina da guerra terrestre alla prussiana, una marina addestrata ed equipaggiata sotto le linee guida britanniche e statunitensi e un’economia rampante assetata di risorse che lo spinse ben presto ad emulare, solo esempio al di fuori dell’Occidente, le grandi potenze nella ricerca di sbocchi coloniali in Corea, in Cina e nel Pacifico.
Secondo la leggenda, il paese venne fondato nel 660 a.C. dal leggendario Jinmu, un discendente diretto di Amaterasu, dea nientemeno che del Sole stesso. Con un tale ascendenza era scontato che potesse fondare il Giappone, stabilendo il suo dominio nel luogo che ospitò Nara, prima vera capitale del paese. Purtroppo, per quanto suggestivo, questo racconto ha le stesse basi storiche della maggior parte dei miti nostrani.
La prima volta che un testo cinese cita la terra del Sol Levante è solo nel I secolo d.C., dove viene indicata una terra al di là del mare chiamata Wa, popolata da centinaia di tribù – probabilmente il nocciolo delle grandi famiglie di futuri samurai – in lotta tra loro e considerate semibarbare.
La prima figura, sempre molto leggendaria ma considerata dagli storici come fondata su di una persona reale, è Ōjin. Vissuto nel IV secolo d.C. è considerato dalla tradizione come il quindicesimo imperatore del Giappone, oltre che un kami – sorta di nume tutelare – della famiglia Minamoto, che fondò il primo shogunato nel XII secolo.
Questo perché tutti gli imperatori giapponesi – tennō, ovvero sovrano celeste – sono stati considerati come divinità, in quanto nelle loro vene scorre il sangue della dea Amaterasu.
Ad ogni modo fu solo nel VII secolo che nacque il primo embrione di Stato, incubato nell’area di Yamato e poi nella città-capitale di Heijō, l’odierna Nara. Fu in questi secoli che i giapponesi importarono dalla Cina l’arte di forgiare spade, la scrittura, l’architettura e introdussero il buddismo come religione e filosofia.
Ma fu nel nostro medioevo, nel cosiddetto periodo Heian, che sorse la classe di guerrieri conosciuta universalmente come samurai. Il sistema che derivò da questa evoluzione sociale fu molto simile al feudalesimo europeo: potenti signori detti daimyō avevano il possesso della terra, innalzavano possenti castelli protetti da “cavalieri” che giuravano loro fedeltà – i samurai – e avevano ai loro ordini schiere di contadini legati al feudo.
Questi nobili si comportavano in maniera molto indipendente, con una fedeltà assoluta ma puramente nominale all’imperatore, rinchiuso come una sacra icona protettiva nel suo palazzo a Kyoto, divenuta la nuova capitale spirituale del paese.
Dopo numerose guerre per la supremazia il clan Minamoto riuscì a sopraffare tutti gli avversari e si impadronì del potere assoluto nel 1192. Minamoto no Yorimoto ottenne così, per la prima volta, il titolo di shōgun, abbreviazione del più pomposo sei-i taishōgun, traducibile con “Grande generale dell’esercito che sottomette i barbari”.
Questo titolo in passato era infatti servito a celebrare i migliori comandanti giapponesi che si erano distinti nelle guerre contro i popoli meno civilizzati del nord del paese, che erano stati via via sottomessi nei secoli. Ora andava ad indicare il comando supremo militare del paese, detto bakufu – governo della tenda, in ricordo delle origini militari della carica – o shogunato.
La famiglia Minamoto donò un periodo di pace e stabilità al paese, basato sulla sua totale supremazia, fino al 1333. Quello fu l’anno in cui il potente clan venne rovesciato da una coalizione guidata dall’imperatore Go-Daigo, stanco di recitare il ruolo di marionetta sacra per la politica dello shōgun, e dalla famiglia Ashikaga, desiderosa di ereditare il ruolo del potente clan Minamoto.
I piani dell’imperatore furono presto frustrati dagli ex alleati Ashikaga, che dopo aver eliminato il comune nemico volevano fondare un nuovo shogunato. La guerra civile che ne seguì perdurò dal 1338, anno in cui Ashikaga Takauji restaurò per se stesso il titolo di shōgun, al 1392, quando le forze militari dello shogunato ebbero la meglio sui lealisti dell’imperatore, ponendo di fatto fine alle pretese politiche della corte di Kyoto, che si eclissò di nuovo fino al XIX secolo.
Ma anche questi ultimo, dopo aver dato al paese ben quattordici shōgun, dovettero subire l’ascesa di nuove forze pronte a prendere il loro posto. Nel 1573 Oda Nobunaga, capo del clan Oda e astro nascente dell’élite militare giapponese, sconfisse l’ultimo Ashikaga e fece iniziare un turbolento periodo di endemica guerra civile – definita periodo Sengoku, o Età degli Stati in Guerra – volta a trovare una nuova stabilità all’intero paese, che vedrà protagonisti tre grandi leader: Oda Nobunaga, Toyotomi Hideyoshi e Tokugawa Ieyasu, che saranno i protagonisti del prossimo articolo.
Per chiudere questa sezione vorrei approfondire la figura del tennō, il sovrano celeste o imperatore. Il titolo è di chiara derivazione cinese, una scopiazzatura del rango del potente sovrano al di là del mare. Ad oggi il Giappone è l’unico paese che vanta un imperatore alla sua guida, per quanto faccia parte del ristretto numero di reali democrazie al mondo.
Il paradosso storico risiede però nel fatto che questo monarca divino, discendente da Amaterasu stessa, è quasi sempre rimasto ai margini della politica nazionale. Formalmente sempre a capo i tutte le forze armate del paese e di tutti i nobili, unica figura a conferire le cariche più prestigiose e perfino lo shogunato, ammantato del più alto significato religioso e rituale, non ha quasi mai esercitato un vero e proprio potere politico.
Per fare un confronto con l’Europa si potrebbe comparare ai più deboli imperatori del Sacro Romano Impero, incapaci di farsi valere davanti ai vassalli molto più ricchi e militarmente potenti.
Un aspetto interessante è la linea dinastica, che secondo la leggenda prosegue ininterrotta fin dal lontano 660 a.C. con Jinmu, pronipote della dea del Sole, ma secondo buona parte degli storici può essere fatta risalire al massimo al V secolo d.C., con una continuità comunque da record di 1.500 anni.
Ogni volta che un clan diventava abbastanza potente da sottomettere tutti gli altri, subito si affrettava a mettere sotto il suo controllo anche Kyoto con i suoi imperatori. Nella storia giapponese furono solo sei famiglie che riuscirono nell’impresa: i Soga tra il 530 e il 645 d.C., i Fujiwara dal 645 fino al 1070, i Taira per un breve periodo, i Minamoto tra il 1192 e il 1331, gli Ashikaga dal 1336 al 1565 e infine i Tokugawa tra il 1603 e il 1867.
Con la sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale gli americani delle forze d’occupazione, comandati dal generale Douglas MacArthur, imposero una nuova Costituzione al paese e obbligarono l’imperatore Hirohito ad effettuare la Ningen-sengen, ovvero la “Dichiarazione della natura umana”, un controverso scritto in giapponese arcaico che può essere letto in tanti modi, tanto da soddisfare gli americani – che lo interpretarono come abbandono totale della pretesa discendenza divina di Hirohito e della sua stirpe – e i giapponesi più acculturati, che invece affermano che il tema della dichiarazione vertesse sulla democratizzazione del paese, ma non sulla sua figura, che rimane arahitogami, ovvero un dio-vivente.
Ecco il passo: “Il legame fra noi e il nostro popolo si è sempre fondato sulla reciproca fiducia e il reciproco affetto. Esso non deriva da semplici leggende o miti. Non si basa sulla falsa concezione secondo la quale l’imperatore sarebbe l’incarnazione di un dio e secondo la quale il popolo giapponese sarebbe superiore ad altre razze e predestinato a governare il mondo”
A seconda dei vari commentatori il termine usato nel testo – akitsumikami, ovvero kami manifesto o incarnazione di un kami/dio – non equivale al titolo di arahitogami, che significa dio vivente. Giocando su termini arcaici che gli americani non potevano comprendere Hirohito e i suoi studiosi trovarono un cavillo per accontentare i vincitori senza venire meno alla millenaria tradizione giapponese. Difatti per i nipponici la figura dell’imperatore continua ad essere l’estensione nel tempo della dea Amaterasu e degli imperatori precedenti, rappresentando un naka ima o eterno presente. Di conseguenza rimane inammissibile negarne l’origine divina.
Nel 1977 lo stesso imperatore Hirohito in un’intervista chiarì che all’epoca, con il suo paese in pezzi e con il rischio di vederlo smembrato o peggio reso orfano del suo collante culturale, ovvero la centralità del suo ruolo religioso e culturale, scrisse la relazione che gli americani interpretarono come rinuncia alla divinità con il solo scopo di non far perdere al suo popolo il suo orgoglio nazionale. Il testo completo dal quale si può estrapolare il passo inizia infatti con la citazione integrale del Gokajō no Goseimon, il Giuramento dei cinque articoli, redatto per l’intronizzazione dell’imperatore Meiji nel 1868, che fu alla base della modernizzazione del paese.
L’intento della dichiarazione di Hirohito, quindi, sarebbe stato quello di affermare solennemente che il Giappone era una nazione democratica fin del periodo Meiji e che non veniva affatto “democratizzata” dall’occupazione militare statunitense.
Alberto Massaiu
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