La guerra civile del Libano è stato un brutale conflitto di faglia, inteso come terreno di scontro di opposte culture, orientamenti religiosi, etnie, rivendicazioni politiche e/o ideologiche. Le sue origini risalgono alla caduta dell’Impero Ottomano, che nel bene e nel male aveva mantenuto sotto il suo imperio una certa stabilità in tutta la regione per circa quattro secoli, e l’avvento della Francia come nuova superpotenza regionale.
Grazie al mandato della Società delle Nazioni – ma soprattutto agli accordi segreti di Sykes-Picot tra i governi di Londra e Parigi, che ne avevano preparato il terreno, in contrasto con le promesse britanniche fatte agli alleati arabi (per approfondire leggi l’articolo su Lawrence d’Arabia) – la Francia aveva ottenuto sia il Libano che la Siria come sue zone di influenza. Per mantenere il proprio predominio i transalpini si allearono con la classe dirigente locale di fede cristiano-maronita, che affiancò in ruoli importanti di governo locale.
I cristiani, nelle tre correnti principali di maroniti, greco-ortodossi e greco-uniati (ovvero di rito bizantino ma cattolici fedeli al Pontefice di Roma) risultavano essere la maggioranza relativa della popolazione, e al loro interno vantavano l’élite più ricca e influente nel paese, mettendo in ombra i drusi e i mussulmani sciiti e sunniti. Per tale affinità religiosa i francesi privilegiarono le comunità cristiane, facendone il baluardo del loro potere. Allo stesso tempo queste ultime videro Parigi come un punto di riferimento sociale e culturale, creando un rapporto privilegiato che sopravvisse anche oltre l’indipendenza.
Nel 1943, a causa della caduta della Francia in mano tedesca e all’occupazione britannica della regione, il leader cristiano-maronita Bishara al-Khuri – che divenne il primo presidente – negoziò con tutte le forze politiche e religiose libanesi in vista di una pacifica via verso una stabile indipendenza. Dal suo impegno vide la luce il cosiddetto “Patto Nazionale”, che resse tra alti e bassi fino allo scoppio definitivo della guerra civile nel 1975.
Il nocciolo di questo accordo era molto semplice: dividere equamente le posizioni di potere tra le varie componenti nazionali. In pratica secondo il suo disegno, accettato in forma di gentlemen’s agreement e quindi non messo nero su bianco in una Costituzione, ci sarebbe stato sempre un Presidente della Repubblica cristiano-maronita, un Primo Ministro sunnita, un Presidente dell’Assemblea Nazionale sciita e un Vice-Presidente greco-ortodosso. Ogni incarico di governo sarebbe stato ripartito secondo uno schema di delicati equilibri di pesi e contrappesi, in modo da non avvantaggiare in modo eccessivo un’etnia o religione rispetto alle altre.
A corollario di tutto questo, le classi dirigenti cristiane accettarono formalmente l’identificazione del paese nel mondo arabo, affievolendo il legame profondo con i francesi. Al contempo i musulmani dovettero lasciar perdere l’orientamento filo-arabo e soprattutto l’idea di una futura integrazione – leggasi, visti gli accadimenti futuri, annessione – alla vicina e ambiziosa Siria.
I problemi giunsero pochi anni dopo. Nel 1948, infatti, il Libano partecipò alla coalizione pan-araba unitasi contro Israele, uscendone sconfitto. In virtù degli accordi presi con i suoi alleati, il piccolo paese accettò di ospitare nel suo territorio ben 150.000 profughi palestinesi, che diedero un primo scossone al delicato equilibrio etnico-religioso dello Stato.
A questo si unì il nascente nazionalismo arabo filo-comunista di Gamal Abd el-Nasser, nuovo leader carismatico dell’Egitto, che nella seconda metà degli anni ’50 entrò in rotta di collisione con Gran Bretagna, Francia e Israele per il Canale di Suez. Il Libano, guidato dal maronita Camille Chamoun, decise di non sostenere le pretese panarabe del presidente egiziano, creando una spaccatura con le frange più giovani e dinamiche dei musulmani libanesi, che vedevano in Nasser un capo della riscossa nazionale contro l’Occidente e Israele.
La tensione giunse al calor bianco nel febbraio del 1958, quando Egitto e Siria si unirono nell’effimera Repubblica Araba Unita, o RAU. Ovviamente le forze islamiche nel paese dei Cedri volevano unirsi a questo nuovo gigante politico, ma furono osteggiate da Chamoun e dai cristiani.
Questo fatto portò, durante lo stesso anno, ad un assaggio di quello che scoppierà un decennio e mezzo dopo. L’opposizione politica al presidente si compattò intorno al primo ministro Rashid Karame, che unì sotto di sé filo-nasseriani, comunisti e socialisti, che iniziarono una serie di scioperi e proteste, che ben presto degenerarono in attentati, omicidi e la formazione delle prime milizie armate etnico-religiose che diventeranno tristemente famose durante la guerra civile.
Chamoun, in ottemperanza al Patto di Baghdad, un accordo stretto dei paesi mediorientali con gli Stati Uniti per prevenire un’espansione comunista in quello scacchiere, chiese un intervento militare americano per ristabilire l’ordine. Eisenhower, all’epoca presidente, non voleva in principio impegnarsi, ma la caduta del regime filo-occidentale dell’Iraq e il suo riallineamento in chiave filo-nasseriana fecero temere alla leadership statunitense un possibile collasso anche di Giordania e Libano, perciò venne autorizzato l’invio di 20.000 tra soldati e marines e della Sesta Flotta del Mediterraneo.
La potenza e il prestigio USA erano al loro apice e in brevissimo tempo, usando una buona miscela di intimidazione e diplomazia, la crisi fu sventata e la spirale di violenze disinnescata prima di una sua piena esplosione. Il generale Fu’ad Shihab, che si era impegnato affinché l’esercito libanese rimanesse neutrale durante i mesi delicati di interregno, fu apprezzato da tutte le parti ed eletto quindi presidente del paese, ristabilendo il “Patto Nazionale” del 1943 fino alla fine degli anni ’60.
Tra il 1967 e il 1973 la situazione si aggravò in maniera irreversibile a causa delle sconfitte arabe della Guerra dei Sei Giorni e dello Yom Kippur, ma soprattutto in seguito alla violenta cacciata dei palestinesi – con il loro braccio armato dell’OLP – da parte del sovrano di Giordania Ḥusayn bin Ṭalāl, che temendo un loro prossimo colpo di Stato agì in maniera preventiva durante il celebre Aylūl Al-Aswad o “Settembre Nero” del 1970.
A causa di questi tragici avvenimenti, la popolazione palestinese in Libano superò le oltre 300.000 persone, tra cui migliaia di miliziani e terroristi dell’OLP, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. Questi soffiarono sul fuoco dell’insofferenza musulmana e drusa nel piccolo paese, che si sentiva non adeguatamente rappresentata – oltre che molto più povera – nel governo e nell’economia, rispetto alla supremazia dei cristiani in generale e dei maroniti in particolare.
Tutti gli elementi del conflitto di faglia erano ora pronti, bastava una scintilla. Questa venne innescata dai palestinesi, che il 13 aprile del 1975 aprirono il fuoco con dei mitra contro un gruppo di cristiani che assistevano alla consacrazione di una chiesa a Beirut, nel quartiere ʿAyn al-Rummāna, uccidendo quattro persone e ferendone il doppio. Poche ore dopo membri delle milizie maronite attaccarono un gruppo di guerriglieri palestinesi che si stavano muovendo nell’area con le medesime intenzioni, annientandoli dopo un violento scontro a fuoco.
Il conflitto interno, una delle peggiori tragedie che possono travolgere una Nazione, perdurò per quindici anni, sostenuto e incancrenito da interventi di attori esterni. I capofila delle due fazioni antagoniste erano il partito falangista cristiano-maronita di Pierre Gemayel da un lato e il Partito Socialista Progressista dall’altro, sotto la cui ala si riunivano palestinesi, sunniti, sciiti e drusi libanesi.
Questi si resero protagonisti di massacri indiscriminati nei campi profughi palestinesi, nei quartieri o nei villaggi musulmani o cristiani. Beirut, un tempo considerata il cuore della Svizzera del Medio Oriente, un centro di benessere, ricchezza, tolleranza e cultura in una regione difficile, diventò un campo di battaglia per cecchini, autobombe e miliziani armati di kalašnikov.
Lo schema era sempre lo stesso. Una fazione compiva una strage – ad esempio a Qarantina, il 18 gennaio 1976, dove le milizie cristiane uccisero più di 1.000 persone tra curdi, siriani e palestinesi – e pochi giorni dopo scattava una sanguinosa risposta – come a Damur, villaggio cristiano attaccato dall’OLP, con oltre 500 morti e tutti i restanti abitanti scappati.
Nel 1978 la Siria, intervenuta due anni prima con l’assenso della Lega Araba come forza di dissuasione tra le parti in lotta, manifestava sempre più l’intenzione di annettere il paese come parte del progetto della “Grande Siria”. Questo fatto scatenò le ostilità dei cristiano-maroniti verso le “forze di pace” siriane, oltre che un primo intervento di Israele, che invase la parte meridionale del paese per creare una fascia di sicurezza.
Nel 1982, per risolvere una volta per tutte la questione palestinese in Libano, Tel Aviv decise un intervento massiccio in Libano, che verrà ribattezzato “Prima Guerra Israeliano-Libanese”. L’OLP e i suoi alleati musulmani e drusi vennero messi alle corde dalle superiori forze israeliane nonostante la loro fiera resistenza. Alla fine, con un “cessate il fuoco” imposto dagli Stati Uniti i combattenti palestinesi, assieme ad Arafat e tutto il suo entourage, dovettero abbandonare Beirut e il Libano.
Sembrava la vittoria definitiva per i cristiano-maroniti, ma al contrario i musulmani libanesi, messi all’angolo, reagirono con violenza. Il quartier generale falangista fu attaccato con un attentato terroristico dove persero la vita ben 25 alti dirigenti tra cui Bashir Gemayel, da poco eletto presidente del Libano.
Animati da un bruciante desiderio di vendetta, i falangisti cristiani compirono l’atto che è forse la memoria più tragica di tutto il conflitto, ovvero l’assalto ai campi profughi di Sabra e Shatila. Per due giorni, dal 16 al 18 settembre del 1982, le milizie cristiane di Elie Hobeika, un superstite a sua volta del massacro di Damur di sei anni prima, inflissero lo stesso destino ai profughi palestinesi ivi stanziati. Le cifre discordano a seconda delle fonti, ma vanno da un minimo di 500 ad un massimo di 4.000.
Lo shock internazionale per il precipitare della situazione portò alla formazione di una missione militare di peacekeeping ONU con americani, francesi e italiani per prevenire ulteriori massacri – su quello di Sabra e Shatila si è discusso per anni e anni, con numerosi processi intentati ai responsabili tra cui anche Ariel Sharon, responsabile delle truppe israeliane che all’epoca assediavano Beirut, che aveva lasciato campo libero alle milizie falangiste in quei terribili due giorni di sangue e vendetta.
I leader libanesi musulmani non si accontentarono di queste misure, ma accettarono invece il sostegno dell’Iran di Khomeini, che inviò centinaia di pāsdārān – le guardie della rivoluzione – che addestrarono la comunità sciita locale alla guerra, portando alla nascita il “Partito di Dio”, conosciuto ancora oggi con il nome di Ḥizbu ‘llāh o Hezbollah.
Questi ultimi divennero una vera spina nel fianco per Israele, sostituendo in tutto e per tutto – e forse anche di più – i guerriglieri e i terroristi palestinesi. A chiarire il fatto che ogni occidentale non era ben visto, questi ultimi organizzarono un attentato dinamitardo il 23 ottobre del 1983 dove persero la vita circa 300 militari americani e francesi.
Con una serie sempre più risoluta e violenta di attentati e rapimenti gli hezbollah costrinsero la missione internazionale a levare le tende, spingendo poi tutta la loro attenzione a meridione, con attacchi che andarono ben oltre l’area di sicurezza controllata da Israele nel sud del Libano, colpendo fino in Galilea.
Questo fatto spinse Tel Aviv ad abbandonare quasi del tutto l’occupazione militare della zona, limitandola ad un piccolo contingente che rimase fino al 2000.
L’operato di hezbollah, sostenuto da Iran e Siria, riequilibrò le sorti del conflitto in favore dei musulmani. Questo fatto, unito ad una sempre maggior consapevolezza della rovina del paese, portò i leader cristiani a cercare un accordo. Il presidente Amin Gemayel, alla conclusione del suo mandato nel settembre 1988 decise di affidare il potere al generale Michel Aoun, che sciolse formalmente tutte le milizie, attaccando con l’esercito non solo quelle musulmane, ma anche quelle cristiane che rifiutarono di consegnare le armi e tornare a casa.
A questo punto, visto il disimpegno di Israele, Aoun richiese lo stesso da parte della Siria, che stazionava ad est con le proprie truppe. Ottenuto un rifiuto, cercò di scatenare una “guerra di liberazione” contro di loro, ma venne rovinosamente sconfitto dalle superiori forze siriane.
Questa vittoria portò questi ultimi a diventare gli arbitri supremi della politica del piccolo paese, sostenuti dagli hezbollah e dagli altri partiti islamici. Alla fine i deputati libanesi della vecchia classe dirigente – non si svolgevano più regolari elezioni fin dal 1975 – si riunirono in Arabia Saudita e firmarono un accordo di “Intesa Nazionale” nell’ottobre del 1989.
Quest’ultimo pose le basi per la conclusione – per esaurimento – della guerra civile. Gli Accordi di Ta’if stabilirono un nuovo equilibrio tra le culture religiose e le istituzioni politiche dello Stato – ad esempio stabilendo che i deputati del parlamento dovessero essere equamente divisi tra cristiani e musulmani – e diedero una giustificazione artificiosa alla sostanziale occupazione militare siriana, che venne definita “fraterna” e in ultimo accettata giocoforza anche dalla comunità internazionale.
I conti che si fecero il 13 ottobre del 1990, data che segnò ufficialmente la fine della guerra civile, furono devastanti. Il paese, un tempo pacifico, moderno e prospero, era annichilito. Più di 150.000 morti e decine di migliaia di emigrati che diedero vita alla cosiddetta “Diaspora Libanese”. Questi ultimi erano il meglio delle classi dirigenti, degli uomini di cultura, scienza ed economia, che emigrarono negli Stati Uniti, in Canada, in Gran Bretagna, in Francia e in generale nei paesi occidentali. La loro fuga impoverì ulteriormente il paese, che perse i suoi uomini e donne migliori, che non furono presenti per ricostruirlo.
In più la leadership politica nazionale rimase debole, condizionata da Israele a sud e dalla Siria est. I primi abbandonarono del tutto le aree da loro occupate solo nel 2000 e i secondi nel 2005, in seguito alle manifestazioni di piazza che passeranno alla storia come Thawrat al-arz o Rivoluzione del Cedro.
Furono gli ultimi strascichi della triste sequenza di eventi scatenatasi con i primi colpi di arma da fuoco esplosi nell’aprile di trent’anni prima. E ancora, visti gli accadimenti più recenti, questa ferita non è ancora del tutto sanata.
Alberto Massaiu
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