La guerra nella lontana terra d’Indocina, iniziato come un conflitto di decolonizzazione e poi evolutosi nell’ennesimo teatro di confronto tra le due rimaste superpotenze globali di Stati Uniti e Unione Sovietica, fu la prima prova generale del potere dei media e di alcune frange di intellettuali di tramutare le vittorie militari sul campo in sconfitte percepite in patria, fino a costringere il proprio stesso paese al ritiro.
Per circa trent’anni si combatté tra le giungle e le città della nazione, coinvolgendo gli Stati limitrofi come Laos, Cambogia e Thailandia, provocando in modo diretto o indiretto la morte di oltre un milione di soldati e il doppio o il triplo tra i civili.
Tutto iniziò nel 1945, quando la Francia di De Gaulle, che aveva combattuto in nome della libertà e della democrazia la Germania, l’Italia e il Giappone, rientrò in possesso dei suoi domini coloniali. Molte promesse erano state fatte dai politici alleati per ottenere un tributo di sudore e sangue dai sudditi indigeni del vasto impero francese, ma ogni cosa venne dimenticata appena Parigi venne liberata e Tokyo e Berlino rase al suolo.
I giapponesi avevano “liberato” il paese dal dominio francese – che perdurava dalla seconda metà dell’ottocento – trasformando il cosiddetto Impero del Vietnam in uno Stato formalmente indipendente ma nella pratica un fantoccio dei nipponici.
Questo stato di cose fu cavalcato dal rivoluzionario nazionalista e comunista Nguyen Sinh Cung, in seguito meglio conosciuto con lo pseudonimo di Ho Chí Minh ovvero “Colui che porta la Luce”, che rivendicò l’indipendenza del suo popolo dal dominio coloniale francese attraverso il movimento Viet Minh. Suo alleato politico e braccio armato militare fu il generale Võ Nguyen Giáp, che lo supportò prima contro la Francia e poi contro gli Stati Uniti.
In questa sede non mi interessa valutare ogni aspetto di questa lunga serie di conflitti e tragedie, ma evidenziare quello che avvenne in un anno particolare, ovvero il 1968, in quello che divenne famoso come l’Offensiva del Tet.
Dopo la cacciata dei francesi, sconfitti con la battaglia di Dien Bien Phu nel 1954, si procedette ad una temporanea divisione del paese in un Vietnam del Nord (comunista e vicino a Russia e Cina) e uno del Sud (capitalista e amico degli Stati Uniti) che, nel 1956, avrebbe dovuto indire delle elezioni generali per riunificarsi e scegliere democraticamente i suoi leader.
Questo avvenimento non si tenne mai ed entrambi i paesi adottarono posizioni non democratiche, con Ho Chí Minh che governava in modo assoluto da Hanoi e la sua controparte “democratica” Ngo Dình Diem, che aveva instaurato un regime corrotto ma amico dell’Occidente a Saigon.
Nel 1957, falliti i tentativi di soluzioni diplomatiche, i comunisti iniziarono ad infiltrarsi nel sud, compiendo raid nelle campagne e uccidendo centinaia di ufficiali governativi, in modo da indebolire il governo di Diem. La politica smaccatamente nepotistica, autoritaria e che apprezzava facili mazzette del leader meridionale gli alienò gran parte della popolazione, che in parte iniziò a simpatizzare con i viet minh (all’epoca reputati integerrimi e di saldi principi), facendo crescere a dismisura le cellule comuniste nel paese, chiamate viet cong. Nel 1960 gli attacchi terroristici e gli omicidi portati avanti da queste ultime avevano falciato ben 4.000 funzionari governativi, oltre che migliaia di contadini che non erano così attratti dalla rivoluzione e volevano farsi solo i fatti propri, mantenendo la proprietà dei loro campi invece che cederla alle utopie comunitarie socialiste.
Fu in questo contesto che il sostegno americano, che si era già manifestato negli anni precedenti con i francesi (in termini di denaro, rifornimenti e armi), venne dirottato verso la dirigenza Diem, in un teatrino assurdo tipico della Guerra Fredda dove gli U.S.A. non dichiararono mai formalmente guerra al Vietnam del Nord, neanche quando ebbero più di 500.000 soldati sul campo.
Si cercò, in pratica, di fare come in Corea: spacciare l’intervento armato statunitense come un’operazione di polizia internazionale per salvaguardare l’indipendenza di un governo democratico dall’aggressiva invasione comunista. Alla prova dei fatti, questo atteggiamento che voleva schiacciare i viet cong senza arrivare ai ferri corti diretti con U.R.S.S. e Cina, finì per porre troppi paletti nell’azione degli strateghi americani.
Verso la fine degli anni ’50 a Saigon erano presenti poco meno di 1.000 “consiglieri” americani, che sovrintendevano all’addestramento e ai collegamenti con l’immane macchina di aiuti e approvvigionamenti bellici che l’America aveva sempre utilizzato nelle sue guerre per procura fin dal 1914, quando sostenne l’impegno franco-britannico contro la Germania guglielmina.
Durante la presidenza Kennedy, però, fu necessario incrementare questo contingente, portando i primi aerei da combattimento, elicotteri e truppe speciali con il fine di attaccare le ridotte comuniste nel paese. In totale, poco prima dell’assassinio del presidente, si trovavano in Vietnam del Sud ben 12.000 soldati.
La politica americana della dirigenza Kennedy, scottata dalla débâcle subita alla Baia dei Porci contro Castro e dal braccio di ferro – finito in pareggio – per la questione dei missili nucleari a Cuba, voleva mostrare il pugno di ferro contro Ho Chí Min, che nel giugno 1963 disse ai suoi: “McNamara [Segretario alla Difesa U.S.A.] ci ha intimato di smettere di appoggiare la guerriglia comunista sudvietnamita, altrimenti riceveremo più bombe di quante non ne abbiano avute Italia, Germania, Giappone e Corea del Nord messi assieme”.
Nel 1963 il presidente Diem venne ucciso durante un colpo di Stato dove l’amministrazione Kennedy – o forse delle frange impazzite di esercito, marina o servizi, interessate ad un coinvolgimento maggiore in Vietnam – potrebbe aver svolto un ruolo decisivo. Giusto tre settimane dopo la morte del corrotto autocrate sudvietnamita anche il presidente americano venne assassinato, facendo sprofondare entrambi i paesi in profonda crisi istituzionale.
Da un lato il governo di Saigon finì sempre più indebolito e instabile, con diversi generali altrettanto corrotti di Diem e molto meno astuti politicamente, dall’altra l’ex vicepresidente Lyndon B. Johnson, fino a quel momento poco coinvolto nella guerra, si installò alla Casa Bianca dopo un frettoloso giuramento svoltosi con il corpo di Kennedy ancora caldo.
Fu di quest’ultimo la responsabilità dell’aumento spropositato del coinvolgimento americano nel Sud Est asiatico, dato che sfruttò il poco chiaro incidente nella baia di Tonchino (che ricorda tanto i pretesti statunitensi per entrare in guerra sempre come vittime) dell’estate 1964 per iniziare un’escalation di dimensioni immani.
“La sfida che stiamo affrontando oggi, nel sud-est asiatico, è la stessa che affrontammo con coraggio in Grecia e in Turchia, a Berlino e in Corea, in Libano e a Cuba”
Lyndon B. Johnson, messaggio alla TV alla Nazione, 1964
L’approccio americano puntava a sfruttare al massimo il suo immenso arsenale militare convenzionale e nello specifico la sua superiorità aerea per spezzare la volontà dei ribelli comunisti. Si cercò di replicare in scala ancora più grande i bombardamenti a tappeto contro Germania e Giappone in quella che divenne famosa come l’Operazione Rolling Thunder, che contò 300.000 missioni di volo con 860.000 tonnellate di bombe sganciate in tre anni (1965-1968), che causarono quasi 100.000 perdite tra militari, guerriglieri e soprattutto civili tra i vietnamiti.
Eppure, nonostante l’immane carneficina e le distruzioni nelle città e nelle campagne del nord o in quelle occupate dai viet cong nel sud, il morale delle truppe di Giap rimaneva alto, potendo contare sui rifornimenti costanti di Cina e Unione Sovietica.
Vista l’impossibilità di vincere solo sul cielo, l’amministrazione Johnson procedette con l’Operazione Search and Destroy, che prevedeva l’impiego di centinaia di migliaia di uomini per snidare villaggio per villaggio, campo per campo, foresta per foresta, i guerriglieri comunisti. Tra il 1965 e il 1968 gli americani e i loro alleati sudcoreani, di Taiwan, australiani, filippini, thailandesi e neozelandesi, rafforzarono le truppe sudvietnamite, schierando nello scacchiere ben un milione e 200.000 uomini, di cui 525.000 solo statunitensi.
Al prezzo di migliaia di perdite, i soldati della coalizione riuscirono pian piano – per ogni americano caduto c’erano in media dieci vietnamiti morti o feriti, spesso in modo grave – a liberare vaste aree del paese, ricacciando indietro, catturando o eliminando i viet cong. Questo fatto portò l’amministrazione ad un eccesso di ottimismo per la fine del 1967, affermando in maniera che si rivelerà azzardata che “Si iniziava a scorgere chiaramente la luce in fondo al tunnel”, insomma, la guerra stava per concludersi con una vittoria americana, più o meno come in Corea oltre dieci anni prima.
Fu su questa convinzione errata che i leader comunisti giocarono tutte le loro carte in quella che verrà ricordata per sempre come l’Offensiva del Tet.
Il Tet Nguyen Dan era una delle festività più sentite del paese, un vero e proprio capodanno (cadeva alla fine di gennaio), perciò era stata concordata tra le parti una tregua di 36 ore dai combattimenti e dal lancio di bombe. Gli americani avevano abbassato la guardia e la maggior parte dei soldati sudvietnamiti erano tornati nelle rispettive case in licenza, perciò nessuno si aspettava un attacco massiccio, a tradimento e senza quartiere come quello che scattò, simultaneamente, in tutta la nazione meridionale.
Circa 500.000 tra viet cong e truppe regolari nordvietnamite assaltarono tutti i centri amministrativi più importanti del paese, con 5.000 incursori nella sola Saigon, dove giunsero ad assediare perfino l’ambasciata americana, il cuore dell’amministrazione politico-militare statunitense in Vietnam.
Lo shock, in principio, fu disarmante. Buona parte dei giornalisti, da tempo schierati smaccatamente contro l’intervento armato, dipinsero per i cittadini in patria uno scenario apocalittico dove ogni base, postazione militare o cittadina era prossima a cadere nelle mani dei nordvietnamiti. La frase “La guerra colpisce Saigon” apparve su televisioni e giornali, scatenando il panico. Per mesi i politici avevano detto che il Vietnam del Sud era prossimo alla totale pacificazione, con i ribelli vicini ad essere scacciati a nord, e ora questi sembravano capaci di attaccare simultaneamente dappertutto con forza e vigore.
In verità gli strateghi viet minh avevano puntato tutta la mano in un grande azzardo. I migliori reparti di guerriglieri, tutti uomini esperti e temprati dagli anni di scontri, si lanciarono per la prima volta allo scoperto contro gli americani, offrendosi finalmente come bersaglio all’immensa e schiacciante superiorità militare nemica. La loro unica speranza risiedeva proprio, per loro stessa ammissione in futuro, che questo atto temerario scuotesse l’opinione pubblica statunitense, in modo da erodere fino al punto di rottura la volontà di combattere della nazione.
Dopo le primissime ore di sconforto, infatti, gli americani passarono ad un vigoroso contrattacco su tutta la linea: truppe speciali, marine e aviotrasportate spazzarono via i reparti viet cong. Saigon fu completamente liberata in meno di tre settimane dalla guerriglia (il grosso, però, fu eliminato in pochi giorni), mentre entro tre mesi ogni città o centro assaltato, compresi quelli più isolati, resistettero e infine respinsero gli avversari.
Presso Hué, dove 12.000 viet cong e infiltrati nordvietnamiti avevano massacrato tra i 4.000 e i 6.000 civili (membri dell’amministrazione, ma anche intellettuali, medici, preti e insegnanti), appena dovettero affrontare truppe regolari ben trincerate e protette da carri armati, artiglieria e aviazione, subirono la perdita di circa la metà del contingente, a fronte di appena 147 morti e 857 feriti da parte alleata.
A Khesanh, una base militare avanzata che gli strateghi comunisti speravano di trasformare in una seconda Dien Bien Phu, si svolse un assedio di due mesi. Contro i 20.000 attaccanti vennero sganciate 110.000 tonnellate di bombe e 200.000 granate di cannone e mortaio, causando la morte o il ferimento di più di metà del contingente, a fronte di 200 caduti americani e 1.600 feriti.
In meno di 90 giorni, da fine gennaio agli inizi di aprile del 1968, i nordvietnamiti e i loro alleati viet cong avevano perso il meglio dei loro reparti, con all’incirca 40.000 morti, 60.000 feriti (di cui molti perirono in seguito per le pessime cure mediche) e 6.000 prigionieri, a fronte di 4.124 morti, 19.295 feriti, 604 dispersi di tutta la coalizione, ¼ di questi statunitensi.
Se le guerre, come nel passato, si fossero decise in base alle differenze tra i caduti e alle conquiste territoriali raggiunte (i comunisti non mantennero neanche un centimetro di terreno conquistato con la sorpresa iniziale), sarebbe stata una schiacciante vittoria alleata, con immediata richiesta di pace da parte di Hanoi.
Eppure… Le cose andarono diversamente: i liberal americani, sfruttando le notizie dal fronte riportate da giornalisti che non vedevano il quadro generale e si facevano prendere dai drammi individuali del singolo soldato al fronte, unito alla possibilità di mostrare attraverso foto e filmati a colori sensazionalistici gli orrori del campo di battaglia, scossero la gente in patria.
Gli americani a cavallo degli anni ’60 e ’70 erano molto meno “tosti” rispetto alle generazioni precedenti. Gli Stati Uniti stavano vivendo un momento di benessere e comfort mai visto nella storia dell’umanità e questo aveva fatto scendere di molto quelle caratteristiche di durezza, abnegazione e forza di volontà che avevano mostrato in passato. Se gli standard del Vietnam fossero stati applicati alla Seconda Guerra Mondiale, dopo battaglie come Guadalcanal (7.100 morti), Monte Cassino (3.000), la Normandia (6.600 tra morti e feriti), Iwo Jima (7.000 morti e 18.000 feriti) il morale nel paese sarebbe dovuto andare sotto le scarpe, invece aveva confidato fino alla vittoria finale.
Cosa era cambiato?
Da un lato, l’amministrazione politico-militare americana, partendo dal presidente Lyndon Johnson e il suo ministro McNamara e arrivando fino al generale in capo in Vietnam, Wesmoreland, mentirono ai loro concittadini per mesi, bluffando sul fatto che i guerriglieri fossero prossimi a cedere e che il Vietnam del Nord non riuscisse più a sostenerli.
Dall’altro, l’atteggiamento dei giornalisti, che mentre in altri conflitti di solito appoggiavano lo sforzo bellico nazionale, ora lo osteggiavano platealmente, dipingendo scenari molto foschi (spesso senza avere nozioni militari) ed evidenziando solo quello che, sfruttando i drammi dei singoli soldati, magari estrapolando fuori dal contesto frasi dette al ritorno da una dura missione, stanchi e stressati, poteva mostrare segni di fatalismo, rabbia o disperazione nella truppa.
Infine, l’atteggiamento di liberal, artisti e intellettuali che dipinsero i viet cong (che spesso si rivelarono spietati assassini di civili) come araldi di una libertà utopica, che combattevano per liberare i vietnamiti del sud dal gioco americano (deduzione fallace, visto che a centinaia di migliaia scapparono dal paese una volta che questo venne unificato sotto la bandiera rossa nel 1976).
Il vero nemico degli Stati Uniti, alla fine, fu il suo grande benessere. Se un tempo la libertà di informarsi e viaggiare per lunghi periodi era prerogativa di nobili o di borghesi benestanti, ora questo era accessibile a tutti. Se prima gli studenti dovevano lavorare tante ore per mantenersi agli studi, e al contempo gli insegnanti dovevano fare corsi extra per mantenere la famiglia, ora c’era l’iscrizione gratuita all’università, borse di studio e finanziamenti, anni sabbatici e agevolazioni di ogni tipo che permettevano a milioni di intellettuali uno stile di vita più libero, la possibilità di muoversi da una parte all’altra del paese, di scrivere libri o riviste contro la guerra.
Insomma fu la stessa ricchezza capitalista americana a permettere a centinaia di migliaia di attivisti di dedicarsi a tempo pieno alle proteste contro il sistema, alla nascente cultura pacifista hippy, alla contro-cultura (spesso a spese dei genitori o dello stesso sistema che criticavano).
Questa marea montante, che superava perfino le più rosee aspettative dei dirigenti di Hanoi, trasformò una schiacciante vittoria tattica statunitense in una decisiva vittoria strategica e di morale nordvietnamita, che negli anni successivi, nonostante i tentativi di Carter e di Nixon, portò al graduale abbandono dell’impegno americano, fino alla definitiva fuga del 1975.
La guerra, da quel momento in poi, avrebbe dovuto tener conto della potente voce dell’opinione pubblica e della capacità dei mezzi di informazione di guidarla verso un determinato binario.
Alberto Massaiu
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