Tutti sanno che il casus belli della Grande Guerra furono i due colpi esplosi dal giovanissimo serbo-bosniaco Gavrilo Prinzip contro l’erzherzog Franz Ferdinand, erede di uno dei troni più antichi e famosi d’Europa, seppur in declino, dell’Austria-Ungheria.
Di solito, quando si vanno ad approfondire meglio le cause del conflitto, si viene a scoprire la questione imperiale marittima tra Germania e Regno Unito, la rivendicazione francese su Strasburgo e l’Alsazia-Lorena, le ambizioni russe sui cugini slavo-ortodossi dei Balcani, le brame di tutte le potenze per le colonie o le pretese nazionaliste su di un pezzo di terra, un fiume o una città che secoli prima era appartenuta ad un regno medievale in cui i nuovi Stati collegavano il loro ancestrale retaggio.
Ancora, il massacro che seguì alla Grande Guerra, con i suoi venti milioni di morti e gli sconvolgimenti geopolitici più grandi che la storia avesse mai visto, fece passare in secondo piano le “prove generali” che si tennero nella fascia di terra circondata da tre mari: Adriatico, Egeo e Nero.
Eppure le Guerre Balcaniche – furono ben due, che si tennero nell’arco di pochi mesi e videro persino un completo ribaltamento di alleanze tra la prima e la seconda – segnarono un mutamento drammatico nella composizione politica, religiosa ed etnica della regione, che anticiperanno i drammatici fatti della prima e anche della seconda guerra mondiale.
Innanzitutto le parti in lotta. In principio da un lato stava un ampio fronte cristiano-balcanico con a guida la più potente e popolosa Bulgaria, a cui si appoggiavano Serbia, Grecia e il piccolo Montenegro. Dall’altro il sempre più debole Impero Ottomano, il cui unico sostegno a livello locale erano i comunque riottosi sudditi musulmani albanesi, timorosi di vedere il loro territorio spartito tra i nuovi aggressivi vicini cristiani, che vantavano ampie rivendicazioni a sud – i greci – e a nord – montenegrini e serbi, questi ultimi in cerca di uno sbocco sul mare.
L’obiettivo delle giovani ma molto ambiziose a aggressive nazioni cristiane era quello di cacciare completamente i turchi dall’Europa, con il sogno di riprendere perfino l’antica capitale dell’ortodossia, Costantinopoli, ambita dai greci ma anche dai bulgari, per creare una nuova potenza balcanica.
Già alla fine del secolo precedente i bulgari – col sostegno russo – e i greci avevano tentato di mangiucchiare i fianchi deboli dei domini ottomani. I primi avevano avuto più fortuna, in quanto appoggiati dalla potenza zarista, che col Trattato di Santo Stefano del 1878 avevano visto nascere una Grande Bulgaria che comprendeva la Rumelia Orientale, parte della Tracia tranne Adrianopoli, tutta la Macedonia con la sola eccezione di Tessalonica e perfino parte di terre serbe e albanesi.
Questo allargamento del paese, che rimaneva nominalmente un principato autonomo tributario della Sublime Porta ma in pratica diventava una testa di ponte russa puntata contro gli strategici stretti dei Dardanelli, scatenò le reazioni di Austria-Ungheria e Regno Unito, che ridimensionarono il tutto al Congresso di Berlino, dove dissolsero la Grande Bulgaria con grande scorno dei russi e rabbia dei bulgari, che covarono sotto le ceneri l’ambizione di restaurarla con la forza delle proprie armi.
L’altro attore meno fortunato delle vicende tardo ottocentesche fu la Grecia. Piccola, scarsamente popolata e relativamente povera, ma con grandi comunità di greci presenti in Macedonia, Tracia, Albania, isole egee, Cipro e Asia Minore, sognava di far risorgere almeno un nucleo dell’antico Impero Bizantino con il progetto nazionalista della Megali Idea.
Nel 1897 aveva tentato la fortuna per la conquista di Creta e, nei migliori auspici, magari Tessalonica. L’azzardo si concluse con una catastrofe completa, con i turchi che sconfissero gli elleni su tutti i fronti, compresa la decisiva battaglia di Domekos, dove 70.000 ottomani affrontarono 45.000 greci (e diversi italiani ex garibaldini) armati con fucili e cannoni di qualità inferiore. Solo l’intervento delle grandi potenze, che avevano sempre un occhio di riguardo per la patria di Sokrates e Platon, salvò il paese da perdite territoriali.
Questa bruciante umiliazione fu da monito per i greci, che riorganizzarono e modernizzarono sia la marina, che in breve divenne la più potente dello scacchiere egeo, sia l’esercito, che venne portato ai livelli qualitativi dei suoi vicini, grazie a consistenti aiuti in termini di importazione d’armi e di istruttori militari francesi, tedeschi e britannici.
Vi erano infine la Serbia, che si considerava lo Stato guida degli slavi occidentali, e il minuscolo Montenegro, legato a doppio filo con il vicino serbo ma anch’esso con una sua piccola ambizione: l’annessione della città di Scutari con il suo entroterra.
Tutte queste nazioni si erano preparate per tutto il primo decennio del XX secolo alla guerra contro l’odiato nemico turco. Ognuna di loro aveva rivendicazioni che risalivano a centinaia di anni prima, spesso confliggenti una con l’altra – questo aspetto sarà fondamentale per la successiva, seconda guerra – ma per il momento avevano composto un fronte formidabile che venne battezzato “Lega Balcanica”: 750.000 uomini ripartiti tra 350.000 bulgari, 230.000 serbi, 125.000 greci e 45.000 montenegrini.
A contrapporsi loro, nella cosiddetta Turchia europea, suddivisa nei vilayet – province – di Adrianopoli, Tessalonica, Monastir, Ioannina, Scutari e Kosovo, stavano solo 290.000 soldati regolari turchi e alcune decine di migliaia di irregolari – principalmente albanesi – con un numero di cannoni minore.
Il momento sembrava perfetto, in quanto l’Impero Ottomano si trovava in guerra anche contro l’Italia per il possesso della Libia fin dal 1911. Dopo una serie di valzer tra gli ambasciatori dei quattro coalizzati, che stabilirono le direzioni della offensive strategiche dei rispettivi eserciti, oltre che una generica ripartizione dei territori che sarebbero stati conquistati, e l’inutile tentativo delle grandi potenze di trovare una soluzione diplomatica al conflitto, nel settembre del 1912 scattarono una serie di piccoli incidenti confinari che vennero usati a pretesto per la mobilitazione parziale e poi generale degli eserciti.
Il 12 ottobre gli alleati della lega inviarono un ultimatum alla Sublime Porta – che lo rigettò tre giorni dopo – e il 17 vennero espulsi i vari ambasciatori dalle rispettive sedi diplomatiche, con le seguenti dichiarazioni formali di guerra che si conclusero il 18 ottobre con quella della Grecia.
Come avverrà durante le prime settimane della Grande Guerra, all’inizio il conflitto si caratterizzò con audaci e veloci offensive, con cariche all’arma bianca di fanti e cavalieri che seguivano romanticamente le antiche gesta delle guerre napoleoniche – ma che costavano un numero esorbitante di morti e feriti – che puntavano a circondare e spazzar via il nemico con la potenza di fuoco e l’impeto dei soldati.
Consci della loro inferiorità locale, i turchi decisero ben presto di abbandonare gran parte dei territori indifendibili, dove le loro truppe sarebbero state rapidamente circondate dalle superiori forze nemiche, per concentrarsi nella difesa delle grandi fortezze di Adrianopoli, Tessalonica, Ioannina e Scutari, oltre che nelle aree fedeli dell’Albania o in quelle trincerate sulla parte della Tracia più prossima alla capitale, da cui potevano far giungere rinforzi dall’Asia Minore, per preparare una controffensiva.
I bulgari, più ambiziosi, preparati e motivati, divisero il loro esercito in tre armate. Una assediò Adrianopoli, la seconda puntò a Costantinopoli e la terza, la più piccola e mobile, tentò di occupare la Macedonia e prendere Salonicco, conseguendo nell’ipotesi più favorevole il meglio dei territori della Turchia ottomana, con le città più prestigiose, popolose e sviluppate. Il sogno del car – zar – dei bulgari Ferdinand I Sakskoburggotski era quello di entrare sul suo cavallo, alla testa delle truppe vittoriose, in Costantinopoli, per fondare una nuova Bisanzio bulgara sul Corno d’Oro.
Questo gran numero di obiettivi, più la tenace resistenza ottomana nella fortezza e nodo strategico di Adrianopoli e nelle linee trincerate di Lüleburgaz, Karaağaç e Bunarhisardi prima e Çatalca poi, a soli trenta chilometri dalla capitale imperiale, portarono ad un rallentamento dell’avanzata in Macedonia, dove furono i serbi e i greci a conseguire i risultati maggiori. Lo smacco più importante fu la presa di Tessalonica, seconda città più importante dei Balcani meridionali, che cadde nelle mani dell’erede al trono Konstantinos poco prima che vi giungessero le avanguardie della terza armata bulgara, che per poco non fece scoppiare uno scontro a fuoco tra gli alleati.
Sempre nel breve arco di un mese i serbi avevano respinto rapidamente i turchi sui fronti del Kosovo e della Macedonia, rimanendo quindi liberi di inviare fanti e cannoni pesanti ai bulgari che assediavano Adrianopoli, sostenere i montenegrini che non riuscivano a prendere Scutari e infine investendo l’Albania assieme ai greci, che marciavano da sud e assediavano Ioannina.
Dopo appena 40 giorni le grandi potenze, sorprese dall’energia e dai successi conseguiti dalla Lega Balcanica, riuscirono a far firmare un armistizio ai belligeranti, sperando di portarli ad una soluzione diplomatica a Londra.
Le posizioni, però, erano assolutamente inconciliabili. Se da un lato gli alleati premevano per l’evacuazione ottomana da tutta la Turchia europea eccetto Costantinopoli e i pochi chilometri di Tracia antistante la capitale, compresa la penisola di Gallipoli, dall’altra la Sublime Porta richiedeva la restituzione di tutto il vilayet di Adrianopoli, la restituzione di alcune isole egee occupate dalla marina greca di fronte agli stretti dei Dardanelli e la creazione di due principati autonomi in Macedonia e Albania.
Il destino di quest’ultima popolazione, quasi del tutto musulmana, era un altro nodo critico delle trattative. L’Austria-Ungheria, infatti, era tassativamente contraria ad un’ulteriore espansione serba verso il mare e premeva affinché questa non conseguisse alcun porto sull’Adriatico, minacciando di scendere in guerra. La questione dei confini albanesi divenne quindi di primaria importanza per le trattative successive.
Ad ogni modo nessuno dei partecipanti era veramente intenzionato a concludere la pace con le posizioni attuali, perciò tra la fine di gennaio e i primi di febbraio del 1913 le ostilità ripresero.
Stavolta gli alleati puntavano ad espugnare le fortezze di Scutari, Ioannina e Adrianopoli, oltre che di avanzare ulteriormente in Albania, mentre i turchi tentarono di scardinare le posizioni avanzate dei bulgari a Çatalca, in modo da liberare la fortezza assediata in Tracia con i numerosi rinforzi giunti dall’Anatolia.
In poche settimane i bulgari respinsero le offensive ottomane e il 26 marzo presero infine la tanto sospirata Adrianopoli, mentre i greci il 6 marzo si erano aggiudicati Ioannina e il 24 aprile perfino i montenegrini entrarono in possesso per pochi giorni di Scutari, ma dovettero affidarla con immensa delusione ad una forza internazionale che l’avrebbe custodita in attesa di una definitiva sistemazione della questione albanese.
Ai primi di maggio del 1913, sempre a Londra, si aprirono così i negoziati per la pace definitiva. Il 30 dello stesso mese tutte nazioni in conflitto firmarono un trattato che stabiliva la linea di arretramento turca, che perdeva ogni territorio a ovest della linea Enez-Kıyıköy, Adrianopoli compresa, la creazione di un principato albanese indipendente esteso da Scutari a Valona governato dal classico principe tedesco – era quasi una moda dell’epoca assegnare troni ad aristocratici di stirpe germanica – e infine lasciare il destino delle quattro isole egee di fronte ai Dardanelli alle decisioni di una commissione internazionale composta dalle Grandi Potenze.
Nulla, però, veniva deciso sulle ripartizioni interne del territorio conquistato tra i quattro vincitori, che subito si spaccarono in due fronti contrapposti.
Da un lato i bulgari, che ritenevano di essersi impegnati maggiormente contro il nemico turco, pretendevano le più ampie e ricche prede di guerra territoriali. Dall’altra stavano però greci, serbi e montenegrini, penalizzati dalla creazione di un’Albania indipendente che toglieva loro diverse città considerate parte delle loro rivendicazioni, compreso per la Serbia il tanto sospirato sbocco al mare, tassativamente vietato dall’opposizione dell’Austria-Ungheria.
I bulgari nicchiarono sulle richieste serbe di compensazioni in Macedonia per quanto perduto in Albania, e al contempo avanzarono pretese su Tessalonica, occupata dai greci ma rivendicata da Sofia.
L’intransigenza dell’ala dura dei militari, capitanati dal sovrano e dal generale Savov, che credeva di avere il pieno sostegno della Russia come ai tempi di Santo Stefano (valutazione errata, come si vedrà) portò al rapidissimo deterioramento dei rapporti tra i membri lega e alla creazione di un’alleanza difensiva segreta tra serbi, greci e montenegrini in caso di aggressione da parte degli ex alleati.
Nel breve arco di appena un mese i bulgari, sostituito il più saggio e prudente capo del governo Gešov con il falco Danev, più gradito all’esercito e alla monarchia, mossero contri greci e serbi con un attacco a tradimento – per quanto previsto da questi ultimi, che si erano preparati a riceverlo – che scatenò la cosiddetta Seconda Guerra Balcanica.
Questa mossa infida e mal calcolata capovolse le alleanze, creando una vera coalizione anti-bulgara composta dai tre ex alleati a cui si aggiunsero i turchi e perfino i romeni. Fu una catastrofe per le ambizioni di Sofia.
L’intero ammontare dell’esercito contava un maggior numero di effettivi – cresciuti nell’anno precedente fino a 500.000 – rispetto ai singoli avversari, ma questi, attaccando da ogni fronte, nel complesso schierarono più di un milione di soldati, stritolando la macchina da guerra bulgara, che collassò in poche settimane, perdendo la maggior parte delle sue recenti conquiste, compresa la tanto sudata Adrianopoli e buona parte della Tracia, che tornarono in mano agli ottomani.
Il trattato di pace definitivo, firmato a Bucarest il 10 agosto del 1913, vide una Bulgaria molto ridimensionata – che guadagnava solo alcune strisce di terra a meridione e un accesso al Mar Egeo, ma perdeva perfino una parte del suo territorio nazionale a nord, in Dobrugia, a favore della Romania – e una ridistribuzione del resto tra i suoi ex alleati e la nascita definitiva di un’Albania indipendente.
L’assetto ottenuto al prezzo di centinaia di migliaia di morti e feriti e oltre mezzo milione di sfollati, costretti da forzati scambi di popolazione tra le fazioni in lotta ad abbandonare le proprie case, fu messo di nuovo in gioco dallo scoppio della Grande Guerra e dai suoi lunghi strascichi, che vide ottomani e bulgari schierati con gli Imperi Centrali e serbi, montenegrini, greci e romeni schierati con le potenze dell’Intesa, con l’appendice della disastrosa guerra greco-turca che si concluse solo nel 1923, a Losanna.
I semi del rancore gettati in quelle terre contese non sono ancora stati estirpati, come hanno dimostrato i burrascosi rapporti tra Atene e Ankara per la questione di Cipro negli anni ’70 – che non sono buoni ancora oggi – e la drammatica serie di conflitti che, dal 1991 al 1999, insanguinò la Iugoslavia in dissoluzione.
Questo affresco ci lascia con un’immagine di una terra aspra e fiera, con ricordi di gloria passata e ambizioni contrastanti, pronti a riaccendersi ogni volta che se ne presenta l’occasione.
Alberto Massaiu
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