Isakios era fortemente deluso dal comportamento del kaiser di Vienna, il quale, oltre che essersi comportato da ingrato, non stava onorando la sua parte dell’accordo con il basileus. Alle numerose ambascerie che richiedevano il formale abbandono del titolo di imperator romanorum, per quello di imperator francorum et germanorum, oltre che la consegna del porto di Trieste con il suo entroterra, Karl continuò a fare orecchie da mercante.
Purtroppo Isakios non poté fare molto altro, in quanto nel 1544 iniziò a sentire su di sé i sintomi di una grave malattia. Aveva sessantadue anni. I medici gli consigliarono molti bagni termali, cosa che lui fece con diligenza ad Antiochia, dove stava progettando una campagna contro la Persia, che negli ultimi anni aveva saggiato le difese del Vallum Constantinii con numerose schermaglie di confine. Vi era inoltre una questione aperta per la successione del prinkipaton di Van, che era stato usurpato da Thoros, cugino del precedente signore armeno filo-romano Levon II, che aveva spodestato il piccolo erede Konstadin grazie al sostegno economico e militare persiano.
Al diplomatico Alexios Philanthropenos, inviato a Tabriz dal basileus per lamentare la violazione dei termini di pace, era stato risposto che lo shāhan shāh Tahmāsp, figlio di quel Esmāʿīl che aveva invaso l’Impero Romano trent’anni prima, avrebbe graziosamente accettato la pace con i suoi vicini, a patto che la Mesopotamia tornasse sotto l’egida safavide.
Inutile dire che Isakios rigettò quelle richieste e chiamò a raccolta legioni e ausiliari in oriente. Ma la salute del basileus continuò a peggiorare e così venne ordinato un celere ritorno alla capitale. Troppo tardi. Nei pressi di Smirne egli spirò, circondato dalla moglie Anna de’ Medici e dai tre figli Basileios, Nikolaos e Theofania.
Quella stessa sera Basilieios indossò la porpora imperiale, cinse sul capo la corona del padre, venne innalzato sugli scudi da quattro alti ufficiali della Guardia Imperiale e proclamato autokrator dei romani.
Il corpo di Isakios venne portato a Costantinopoli e inumato nella cripta dedicata ai Komenoi Palaiologoi all’interno del Polyandreion nella chiesa degli Aghioi Apostoloi.
Basileios III voleva dimostrare di essere all’altezza di coloro di cui portava il nome, che avevano coperto di gloria l’impero cinque secoli prima. E il primo problema da affrontare erano i persiani, che avevano radunato a Tabriz un armata di 100.000 soldati. Con grande sprezzo del pericolo, conscio della preparazione delle sue forze armate, nel 1546 il novello sovrano guidò 60.000 romani verso il nemico, con l’obiettivo di annientarlo velocemente con una battaglia decisiva. Chiamò a raccolta anche i vassalli armeni, georgiani e circassi, che assaltarono dal nord gli alleati curdi e azeri dei persiani.
Thoros I, signore di Van, venne sconfitto e ucciso dopo appena due mesi di campagna. Sul trono venne insediato il giovane Konstadin, che era stato portato in salvo a Costantinopoli nel 1542 e ora tornava, appena undicenne, sul trono del padre.
Anche Tchaldiran, Mossoul e Sirvan caddero sotto la potenza della superiore artiglieria imperiale, che aprì brecce immense nelle antiche e non riammodernate mura delle roccaforti locali. Tahmāsp decise, vista la sua superiorità numerica, di affrontare il meglio dell’armata romana presso Tabriz, ma gli archibugi e i cannoni leggeri di Basileios respinsero ben sette cariche nemiche, e i legionari travolsero i persiani con una manovra avvolgente che annientò metà delle forze avversarie.
Il monarca persiano dovette evacuare per la seconda volta la sua capitale, spostandosi definitivamente ad Isfahan, più lontana dal confine conteso. Seduto sul trono dei re dei re di Persia, nel palazzo imperiale di Tabriz, Basileios dettò le sue condizioni: tutta la regione fino al Mar Caspio doveva entrare nel dominio di Roma, in parte amministrata direttamente come themata in parte con Stati tributari di Costantinopoli. A questo andava aggiunta la creazione dell’imàra indipendente di Mossoul, che sarebbe diventato un’ulteriore Stato cuscinetto tra i due imperi in Mesopotamia, governato da una famiglia di origine persiana ma incoronata dal basileus e non dallo shāh. Infine andavano a carico dei persiani tutte le spese di guerra e un tributo di 10.000 pezzi d’oro annui per una decade, oltre che la solita consegna di ostaggi di stirpe reale a Costantinopoli.
Basileios III rimase in oriente giusto il tempo per ordinare un ampliamento del Vallum Constantinii seguendo i nuovi confini dei themata, poi tornò alla Regina delle Città, dove si concesse un trionfo spettacolare che durò quasi un mese.
Ma i problemi erano ben lungi dall’essere finiti.
Per la partecipazione romana alla Guerra Nordica Karl V aveva promesso molto, ma non aveva mantenuto nulla. Con la morte di Isakios e la guerra persiana non c’era stato il tempo di richiedere che venissero onorati i patti con la dovuta energia, ma ora quel momento era arrivato. L’Impero Romano usciva da una grande vittoria, ma anche Karl non era stato a guardare: con la Dieta Imperii di Francoforte del 1545 e l’Edictum di Colonia del 1546 aveva garantito la pace in terra tedesca. Il prezzo era stata la piena tolleranza religiosa e l’impegno a rispettare, da parte dell’imperatore, le libertà tedesche. In cambio, però, i principi elettori di Germania avevano accettato di pagare una tassa per il mantenimento di un esercito germanico, battezzato kaiserliche armee, che si aggiunse a quello nazionale spagnolo di stanza in Castiglia, Aragona e Paesi Bassi.
Tra le due potenze, ormai, non poteva più esserci dialogo: tra il 1547 e il 1550 varie ambascerie vennero inviate a Vienna, Avignone, Norimberga e Toledo, l’ultima con a capo lo stesso megas logothetes Antioco Rizzo, ma nessuna di loro ottenne successo. Anzi, rafforzarono l’idea nel basileus che il kaiser volesse il conflitto.
Karl, difatti, non aveva mai abbandonato l’idea che l’Italia fosse sua di diritto. Puntava inoltre a restaurare la Curia papale nella sua sede millenaria, spinto in questo dal battagliero pontefice Giulio III, fortemente anti-romano, che gli aveva promesso un’incoronazione ufficiale da svolgersi a San Pietro come Imperatore Romano d’Occidente.
Il sovrano asburgico riuscì perfino a compiere un capolavoro diplomatico nel marzo del 1550, trovando un accordo con il suo sempiterno avversario François I di Francia. I due monarchi si incontrarono a Strasburgo e giurarono eterna alleanza, suggellata da un matrimonio tra Maximilian, figlio del fratello di Karl, Ferdinand ed erede al trono di Spagna e Marguerite de Valois, figlia del re.
A François il kaiser promise il recupero della Provenza, della Savoia e del Piemonte, oltre che parte della Lorena e alcune città e fortezze nei Paesi Bassi asburgici. In cambio i francesi avrebbero dovuto partecipare con l’intero loro esercito all’invasione della penisola italiana.
La questione del matrimonio regale risultò come un pesante insulto per Basileios, che ancora aspettava che Karl onorasse i patti del 1539, in cui suo figlio Philipp avrebbe dovuto sposare sua sorella Theofania. Quest’ultima, nel frattempo, era invecchiata a corte e si diceva fosse persino ammattita, venendo quasi sprecata per una possibile alleanza dinastica.
Gli alleati occidentali radunarono un’imponente forza di 80.000 uomini in Germania e Francia, 30.000 in Spagna e un paio di centinaia di vascelli da guerra. A Costantinopoli questi preparativi non passarono inosservati: il settore orientale era per fortuna tranquillo e Basileios poté quindi mobilitare tutte le immense risorse dell’impero per il conflitto che stava per scatenarsi.
Nell’aprile del 1551 vi furono due cerimonie nuziali: la prima legò il Portogallo attraverso il matrimonio tra il figlio di Basileios, Alexios, e Maria Manuela d’Aviz, figlia di João III di Portogallo; la seconda unì il velikij knjaz di Mosca Ivan IV con l’infelice Theofania Komnena Palaiologa. Entrambe le unioni avranno grandi conseguenze per il futuro dell’impero.
Nel maggio del 1551 l’oro e gli abili agenti di Basileios fecero insorgere nuovamente i Paesi Bassi, sostenuti dagli inglesi, anch’essi ben riforniti dalle casse romane. L’obiettivo, pienamente raggiunto, era quello di distogliere risorse dal fronte italiano e spagnolo, dove Basileios sapeva si sarebbe concentrato il conflitto.
In Italia venne inviato Romanos Kastriotas con 20.000 soldati, che si unirono ai 30.000 di stanza nella penisola al comando di Emanuele Filiberto di Savoia. In Spagna Andreas Strategopoulos ottenne ingenti rinforzi di legionari e ausiliari per le guarnigioni dell’Andalusia.
Fu proprio nella penisola iberica che il conflitto ebbe inizio, quando Fernando Álvarez de Toledo, detto il gran duque de Alba, gran soldato e comandante supremo di Karl in Castiglia, invase il thema romano con 20.000 uomini. La resistenza della moderna fortezza di Neokastron permise il concentramento di tutte le forze di movimento imperiali, che permise di liberare d’assedio il centro strategico il 22 maggio.
All’inizio dell’estate Andreas mandò tre reggimenti di auxilia a predisporre l’assedio di Cartagena e con il resto delle forze marciò verso Cordova, la città che minacciava da sempre il dominio romano nel sud della Spagna, dove inflisse al duque de Alba una netta sconfitta il 18 giugno. Il comandante spagnolo lasciò 10.000 superstiti a difendere la città e con 2.000 cavalieri si diresse a nord per radunare una nuova armata.
Basileios, nel frattempo, aveva inviato in aiuto del suo comandante una parte della neon nautikon, più dei contingenti di alleati e thalassatoxotai, che presero le isole Baleari e per la metà di agosto sbarcarono le prime truppe intorno a Cartagena, chiudendo ogni accesso da terra e dal mare.
In Italia, invece, il magister militum Romanos Kastriotas pensava di marciare verso Vienna, lasciando solo 10.000 uomini di guarnigione ai passi alpini della penisola in caso di attacco francese in Provenza. Affidò il comando al suo miglior ufficiale, Emanuele Filiberto, che si coprirà di gloria. Il Kastriotas chiese inoltre ulteriori rinforzi, compresi 1.000 cavalieri pantocratori, promettendo la conquista della capitale asburgica in meno di un mese e una rapida risoluzione del conflitto.
Un affermazione alquanto azzardata, come dimostreranno i fatti seguenti.
Karl aveva fatto presidiare bene i passi alpini del Tirolo, e lì inflisse con un’audace imboscata una netta sconfitta ai romani il 28 giugno. Galvanizzati dalla vittoria, i tedeschi mossero a sud, occupando Trento il 9 luglio e cacciando la retroguardia imperiale verso le pianure venete.
I francesi, sotto il comando di François I, mossero a loro volta, invadendo come previsto la Provenza con migliaia di fanti e cavalieri, oltre che numerosi cannoni da battaglia realizzati secondo il modello romano Nikator. Ad attenderli, però, stava il ventitreenne Emanuele Filiberto, che contese palmo a palmo ogni metro al nemico, e organizzò la città di Marsiglia affinché potesse resistere all’imminente assedio.
Poco prima di venire completamente circondato lasciò 2.000 uomini scelti e la guarnigione cittadina alla difese e si diresse nella sua terra natale, per reclutare nuove milizie e richiamare la XII Legio da Milano. Ottenne inoltre l’ingaggio di 6.000 svizzeri dalla confederazione, formando così un nucleo di fanteria d’assalto professionale ed efficiente.
Romano Castriota, che era riparato fino a Treviso, mosse di nuovo verso il Trentino per cacciare i tedeschi. Le ben addestrate ed esperte forze romane ingaggiarono battaglia in campo aperto, ottenendo una vittoria non decisiva contro la kaiserlische armee per la fine dell’estate.
In Spagna, invece, che doveva essere secondo i piani di tutti un fronte secondario, avvennero le maggiori sorprese: il 7 settembre cadde Cordova, e il 12 la seguì Cartagena. Andreas Strategopoulos decise allora di marciare verso nord, in direzione Toledo. Le sue trattative diplomatiche e il molto oro di cui disponeva fecero pendere completamente la bilancia in suo favore quando il Portogallo dichiarò guerra alla Spagna, mettendo a sua disposizione migliaia di soldati aggiuntivi e un’esperta flotta.
Così, con una perfetta manovra a tenaglia, i 35.000 alleati accerchiarono le forze di Fernando Álvarez nella piana antistante la capitale iberica. I tercios spagnoli combatterono strenuamente, ma l’inferiorità in cavalleria e artiglieria risultò decisiva. Il comandante asburgico rimase intrappolato fuori dalle mura senza rifornimenti e munizioni, e si dovette arrendere il 24 settembre con 18.000 uomini.
Toledo aprì le porte il giorno seguente mentre Burgos venne occupata ai primi di novembre da 3.000 cavalieri portoghesi e romani. I primi saccheggiarono la oramai indifesa regione di Leon e Galizia, assicurando il fianco sinistro di Andreas, che si diresse a marce forzate nelle province catalano-aragonesi del regno di Spagna.
Valencia, stretta d’assedio dai primi di ottobre, capitolò con celerità nel mese, mentre Saragozza e Barcellona si predisposero a resistere all’assedio. In una manciata di mesi Karl aveva praticamente perso tutto il suo dominio spagnolo. Una catastrofe che colse tutti di sorpresa, in quanto aveva come precedente simile solo la fulminea caduta della penisola iberica in mani arabe otto secoli prima.
Tutt’altra cosa era la situazione italiana, dove l’onore romano era mantenuto dal solo Savoia. Questi, infatti, il 28 agosto costrinse i francesi a levare l’assedio da Marsiglia, minacciando le loro linee di comunicazione con la base di Lione.
François stesso marciò verso nord, cercando lo scontro campale, ma il magister militum si ritirò fino alle Alpi. Vicino ad uno dei passi alpini si trincerò e accettò infine battaglia. Il divario tra le forze era di quasi tre a uno, perciò gli irruenti e orgogliosi cavalieri francesi si lanciarono avanti, seguiti a ruota dalle fanterie svizzere, guascone, scozzesi e sassoni agli ordini del sovrano transalpino. Nonostante il loro numero e l’indubbio coraggio, nulla poterono contro la migliore posizione predisposta dal Savoia, che aveva scavato trincee e realizzato palizzate e ostacoli presidiati da veterani armati di picca e archibugio, protetti da cannoni caricati a mitraglia. Le poche infiltrazioni vennero respinte dai mercenari svizzeri posizionati nei punti nevralgici da Emanuele Filiberto e dai reparti d’assalto di spatharioi legionari.
Il sovrano di Francia insistette testardamente, nonostante le sue truppe fossero sempre più stanche e disorganizzate. Ben tredici assalti vennero predisposti, nove con lui stesso alla loro testa. Ebbe sei cavalli uccisi sotto di sé e ricevette due ferite di picca e una di archibugio al piede, e solo il grande valore dei suoi gendarmi reali – che si fecero massacrare per proteggerlo – lo salvò da morte certa.
Per la sera del 10 settembre un indebolito François ordinò la ritirata generale, lasciando 7.000 tra morti e feriti sul terreno e riparando a Lione. Qui venne raggiunto dagli emissari del Savoia che proposero una tregua invernale. Come estremo atto cavalleresco il comandante romano inviò due esperti medici greci che salvarono il piede al re di Francia, permettendogli una completa riabilitazione per l’anno successivo. Il gesto venne molto apprezzato al tempo, è citato in numerose cronache e ispirò persino alcune poesie e ballate francesi e italiane.
Emanuele Filiberto aveva dimostrato di saper difendere il confine con pochi uomini, e poté perfino inviare rinforzi a Romanos Kastriotas, che continuava a progettare l’invasione dell’Austria.
Romanos stava vivendo un incubo. Cresciuto nella venerazione nel grande avo Georgios, che non aveva mai perso una battaglia e si era dimostrato un grandissimo generale con forze spesso meno armate e numerose delle sue, stava entrando in crisi nell’accorgersi di non reggere il paragone. Questo stato di cose lo rendeva titubante e indeciso, cosa che venne sempre più notata dai suoi ufficiali inferiori, che iniziarono ad ignorare le sue direttive, con effetti deleteri sulla gestione della campagna.
Ad ogni modo, alla fine, decise di provare a cogliere una vittoria prima dell’arrivo della brutta stagione, muovendo verso Trento con 27.000 soldati e 40 cannoni. Karl, che comandava in prima persona le sue forze armate, non volle rischiare che una sconfitta oscurasse i buoni risultati della sua campagna, perciò si ritirò in buon ordine in Tirolo, lasciando i themata italici di nuovo al sicuro e saldamente in mani imperiali.
La sua manovra fu dovuta anche all’arrivo delle prime, pessime notizie dalla Spagna. La caduta di Toledo, a cui seguì quella di Burgos e Valencia, furono una secchiata d’acqua fredda alla corte di Vienna, a cui si aggiunse la terribile notizia dello sbarco di 6.000 soldati inglesi nelle Fiandre, che stavano assediando Dunkerque assieme a 8.000 ribelli fiamminghi finanziati dall’oro costantinopolitano.
Questo lo costrinse a convocare una riunione di emergenza del Reichstag a Monaco, dove nella prima gelida settimana di dicembre chiese a tutti i nobili laici ed ecclesiastici di Germania e Boemia un ingente contributo monetario per rimpinguare le esauste casse statali, oltre che il permesso all’arruolamento di un nuovo contingente di almeno 20.000 uomini. Dopo qualche tentennamento e diverse contrattazioni i signori tedeschi accettarono.
Karl ottenne perfino un impegno dal re di Francia, in via di guarigione a Lione, affinché sostenesse le città catalane che confinavano con i suoi domini. Il monarca acconsentì, inviando il duc d’Alençon con rifornimenti e 5.000 soldati scelti per difendere Barcellona e Saragozza. Gli ordini erano di resistere per l’inverno, mentre un offensiva in grande stile si sarebbe attuata l’anno successivo.
Fu un inverno di trattative e cambiamenti di alleanze nel nord. Karl e François convinsero Henry VIII, re di Inghilterra, a firmare una tregua quinquennale in cambio della cessione della roccaforte portuale di Dunkerque e la rinuncia formale francese al porto di Calais. Questo permise una fulminea invasione delle Fiandre da parte dei franco-tedeschi, che schiacciarono i ribelli annientando il loro esercito presso Breda, il 28 marzo 1552.
La libertà d’azione in cui si trovò Karl gli permise di armare una forza di soccorso per la Spagna, che affidò al fratello Ferdinand, che poteva contare anche sull’abilità e la forza dei gendarmi corazzati francesi e delle loro potenti artiglierie, le migliori d’Europa dopo quelle romane.
Con un audace colpo di mano il comandante asburgico sorprese i portoghesi che assediavano Saragozza. Fu una catastrofe: 10.000 di loro rimasero sul campo o vennero fatti prigionieri. Con soli 15.000 romani e 2.000 portoghesi demoralizzati Andreas decise di ritirarsi al di là dell’Ebro, tallonato da 30.000 tedeschi, francesi e spagnoli.
Il vento stava cambiando per Karl, che partì con una robusta controffensiva in aprile. Ora le forze in Tirolo erano quasi equivalenti e il kaiser tentò di ricacciare Kastriotas in Veneto. Il suo attacco, vista il sempre più prudente atteggiamento del comandante romano, ebbe successo e in una serie di scaramucce e piccoli scontri gli imperiali si ritirarono tra Verona e Treviso, aprendo la strada all’invasione della penisola.
Romanos, che non era un grande generale ma poteva vantare numerosi amici alla corte di Costantinopoli, chiese ulteriori rinforzi per rintuzzare la minaccia. Basileios alla fine acconsentì, stanziando fondi per reclutare due nuove legioni: la XIX Sarda e la XX Syriaca. In tal modo si poté inviare la prima nei Balcani, spostando la III Invicta e 4.000 ausiliari in Spagna. La seconda, invece, reclutata per l’appunto in oriente, consentì di liberare la migliore legione orientale, la VII Ulpia Traiana, che venne inviata in Italia con 5.000 tra alleati tartari, valacchi e moldavi e 2.000 cavalieri e sergenti pantocratori.
I rinforzi giunsero in Italia per tutta l’estate, mentre Karl assediava e prendeva Conegliano, Asolo e infine Vicenza, minacciando poi Treviso, visto che Romanos era arretrato fino alla linea difensiva Mestre-Padova-Verona, barattando territorio per tempo, mentre da Venezia sbarcavano uomini, rifornimenti e cannoni.
Ferdinand, nel frattempo, aveva costretto il re di Navarra Henri d’Albret ad entrare nella lega anti-romana, mettendo a disposizione le sue fortezze montane che presidiavano i valici pirenaici, 4.000 soldati, oro e rifornimenti. Grazie a loro mosse a sud, cercando di guadare il fiume e rientrare in Aragona e Castiglia, ma era stato respinto dall’artiglieria imperiale e dalla ferrea determinazione delle legioni, che facevano buona guardia. Andreas aveva anche allestito una flottiglia di chiatte che, armate con cannoncini leggeri e telebolontarioi, sorvegliavano l’Ebro giorno e notte.
Andreas aspettava i rifornimenti a Valencia per organizzare un’offensiva in grande stile in Catalogna, ma venne presto a sapere che questi erano stati anch’essi dirottati in Italia a causa di Romanos Kastriotas.
Spinto dai suoi più irruenti generali, stufi del suo atteggiamento attendista, alla fine si era lasciato convincere a lanciare la tanto sospirata manovra d’attacco. Il piano prevedeva una tenaglia che, muovendo da Verona ad ovest e Mestre ad est, avrebbe stritolato i tedeschi. Purtroppo per attuare un’operazione così sofisticata era necessaria una capacità gestionale e decisionale di caratura ben più alta di quella posseduta dal magister militum.
Karl, appena si accorse che le forze romane che puntavano a circondarlo erano troppo lontane per supportarsi a vicenda, decise di affrontarle separatamente. Giunto con marce forzate vicino a Verona con tutte le sue forze, ingaggiò con violenza le inferiori truppe imperiali, sgominandole con il valore dei lanzichenecchi e l’irruenza delle sue cavallerie mercenarie magiare, polacche e croate. La XII Legio, che dalla Provenza era stata inviata in appoggio al magister militum, venne quasi annientata nell’operazione di retroguardia. Ebbe 4.000 caduti e perse tutta l’artiglieria legionaria.
La reputazione dell’erede del grande Skanderbeg era oramai molto offuscata, e Karl procedette ad occupare Verona, inviando reparti a saccheggiare per la prima volta da diversi decenni la pacifica Lombardia. Fu Giulio Farnese, legatus della XIV Legio Italica Secunda, a prendere in mano la situazione dopo l’ennesima crisi di nervi che travolse Romanos, rendendolo totalmente inabile al servizio.
Questi decise di arretrare fino a Venezia, permettendo a Karl di occupare Milano, dove questi si auto-incoronò frettolosamente Rex Italiae, mentre radunava tutte le truppe romane della penisola e riorganizzava e addestrava al meglio i nuovi arrivati. Questo atteggiamento gli permise di incontrare Karl ai primi di settembre con la totale superiorità di mezzi ed effettivi. Il kaiser, consapevole della cosa, decise di abbandonare l’effimere conquiste per bissare la strategia dell’anno precedente, tornando in Tirolo con la reputazione intatta e lasciando solo guarnigioni nelle rocche di Milano, Verona e Vicenza, perché lo supportassero in una nuova campagna d’invasione nel 1553.
Giulio Farnese non era però intenzionato a concedere nulla di alcunché e il suo piglio decisionista ispirò e galvanizzò le truppe, che finalmente si riconoscevano nel proprio comandante.
Lo scontro d’intercettamento si svolse a nord di Vicenza, quando le avanguardie romane agganciarono la retroguardia di Karl, che rischiava di essere annientata. Il kaiser decise allora di correre in suo soccorso, ma il suo tentativo aggravò solo la situazione, perché le legioni erano pronte allo scontro campale, smaniose di riscattare il loro onore.
Applicando i principi contenuti all’interno del Neon Strategikon, redatto quasi un secolo prima dal grande Alexios VI, il comandante imperiale attuò una perfetta manovra a tenaglia che permise la distruzione della maggior parte della fanteria lanzichenecca e una buona parte dei cavalieri bavaresi, boemi e austriaci che erano la crema delle forze tedesche.
In un sol giorno tutti i risultati ottenuti nei due anni di campagna di Karl vennero vanificati dall’abilità del Farnese, che lo costrinse ad una precipitosa fuga che si concluse solo a Vienna, lasciando al generale romano la possibilità di assediare Trieste da terra e dal mare, oltre che trattare da una posizione di forza la resa delle guarnigioni lasciate dall’Habsburg in Italia.
A metà agosto anche Andreas, in Spagna, aveva conseguito una netta vittoria difensiva, respingendo l’ennesimo tentativo di infiltrazione alleato oltre l’Ebro, in una confusa battaglia notturna che aveva lasciato sul campo circa 3.000 caduti per parte.
Vista la situazione di stallo, alla fine Karl e François scesero a più miti consigli e chiesero una tregua d’armi a Basileios, in vista di future trattative di pace. Tutte le nazioni, compreso l’Impero Romano, avevano sostenuto forti perdite in denaro e uomini e un accomodamento avrebbe giovato a tutti.
Il basileus, ovviamente, partiva da una grande posizione di forza, perciò poté dettare le sue condizioni. Trieste passava sotto il suo controllo con il suo entroterra, permettendo l’unione dei domini balcanici con quelli italiani dell’impero. Al contempo Karl dovette rinunciare a gran parte della Spagna, che venne riorganizzata in themata. Rimase in suo possesso solo la cosiddetta Marca Spagnola, che ricomprendeva la Catalogna a nord dell’Ebro con Saragozza, Terragona e Barcellona. Questa venne assegnata prima a Ferdinand, fratello di Karl, e poi al figlio Maximilian. Venne stabilita anche la neutralità della Navarra, riconosciuta da Costantinopoli, Parigi e Vienna. Basileios concesse la Galizia ai portoghesi per il supporto portato in guerra, oltre che il diritto a fondare colonie in Colombia e il riconoscimento di quelle già avviate in precedenza, purché sotto il protettorato romano.
Nulla venne cambiato nei confini italiani e provenzali, e Basileios riconobbe il diritto di Karl ad ereditare il trono vacante di Ungheria – rimasta senza sovrano nell’inverno del 1551 – purché la amministrasse come dominio personale e non unendola ai territori dell’impero germanico.
Invece il basileus non la spuntò sulla titolatura dell’Habsburg. Testardamente, anche a costo di sacrificare la Spagna – che Basileios era pronto a barattare in cambio – Karl non volle abbandonare con atto formale il titolo di imperator romanorum, che mantenne come appannaggio della sua famiglia.
Uomo pratico, alla fine Basileios cedette sul punto. Anche perché così si poté occupare di altre faccende, che aprivano ad un ulteriore espansione del suo imperium. Poco dopo la firma definitiva degli accordi di pace, ratificati a Milano il 21 aprile del 1553, il sovrano venne a sapere che una pesante crisi dinastica aveva colpito il Portogallo. Tra il 4 e il 12 maggio erano infatti periti sia João III di Portogallo, sia il suo unico figlio. Probabilmente vennero stroncati dal medesimo morbo, ma fatto sta che la corona era senza eredi, tranne la figlia del defunto re, Isabel, andata in sposa al figlio del basileus, Alexios, due anni prima.
Questo fatto permise l’annessione completa del piccolo paese atlantico all’Impero Romano, che non solo si riappropriava di quasi tutta la penisola iberica, ma poteva estendersi anche alle colonie fondate dai dinamici esploratori portoghesi nei decenni precedenti, oltre che incamerare la superba flottiglia mercantile ed esplorativa di questi ultimi. Fu l’apogeo di Basileios, che diventava il monarca più potente della terra.
Come se non bastasse, tra il 1555 e il 1561 furono annessi in Colombia sia il potente dominio dei mēxihcah che quello inca, ma per comprendere bene questa vicenda dobbiamo aprire una piccola parentesi, tornando indietro di quasi un secolo.
Nel 1486 era stata stipulata un’alleanza con i mēxihcah e l’anno dopo con gli inca, ma in principio i romani preferirono la colonizzazione e la cristianizzazione delle isole e delle zone dove gli indigeni non erano soggetti ad un forte potere centralizzato. La svolta avvenne però durante le guerre in Italia dell’ultimo decennio del XV secolo, dove i colombiani inviarono diversi soldati e nobili in aiuto degli alleati oltreoceano. Molti guerrieri, quando tornarono in patria, riferirono meraviglie di ciò che avevano visto in Europa e, inevitabilmente, portarono la fede cristiana alla quale alcuni di loro si erano convertiti.
Uno di questi guerrieri era Motecuhzoma Xocoyotzin, che nel 1502 salirà al potere. La sua opera di accentramento di potere trovava una forte opposizione nel clero nativo, allora con un’astuta mossa politica decise di sostenere la nuova fede romana contro il credo dei suoi antenati. Convertitosi pubblicamente nel 1504 con il nome di Christos I, assunse il titolo di basileus e proclamò la sua fedeltà a Costantinopoli, che con i suoi archibugi, cannoni e galeoni da guerra gli permise di tenere il trono e di schiacciare ogni opposizione. La sua opera di evangelizzazione andò avanti dal 1504 fino al 1516 e alla fine buona parte del paese si sottomise alla fede ortodossa, con un governo saldo e forte e tutte le popolazioni limitrofe sottomesse. Nel 1520 mandò suo figlio, il futuro Christos II, a Costantinopoli, da dove tornerà così affascinato dalla cultura e dalla religione a cui si convertì sinceramente – al contrario del padre -, tanto da lasciare alla sua morte tutto il suo dominio in eredità all’Impero Romano.
Un caso molto simile si verificò in Perù, nella Colombia meridionale. Quivi imperavano gli inca, che avevano stretto rapporti di cordiale amicizia e commercio con Costantinopoli fin dal 1487. Il sovrano Huayna Capac, che dal 1498 era alle prese con una durissima guerra civile, nel 1505 seguì l’esempio di Motecuhzoma e chiese aiuto all’exarchon di Colombia Mikhael Palaiologos, che acconsentì all’invio di 1.000 fanti di marina armati di archibugio, alcuni pezzi d’artiglieria e sei galeoni affinché lo aiutassero a riprendere il controllo della situazione. In cambiò si impegnò a convertirsi al cristianesimo, che lentamente si stava affermando negli strati più poveri della popolazione. La scelta del sovrano non fu eccessivamente sofferta, visti i risultati: nel 1506 i ribelli vennero definitivamente sconfitti e la notte di Natale dello stesso anno, a Cuzco, si fece battezzare e incoronare basileus dal vescovo di Colonia Augusta, con il nome di Konstantinos I.
Nel 1527, alla sua morte, i suoi due figli Titu Cusi Huallpa e Atahuallpa scoppiò una nuova guerra civile per il trono: il primo sostenuto dal popolino, dalla burocrazia inca e dai romani, il secondo dall’antico credo, dagli aristocratici e da buona parte dei militari.
La vittoria, dopo due anni di guerra, arrise infine al comandante supremo di Huallpa, il magister militum Francisco Pizarro, che conquistò la capitale nemica di Quito. Huallpa, con il suo nuovo Konstantinos II, poté così governare il paese fino alla sua morte nel 1548. Suo figlio, Konstantinos III, cresciuto nello splendore dorato della oramai ortodossa Cuzco e di costituzione malaticcia, non fece parlare mai di sé tranne quando si dichiarò figlio e vassallo del basileus dei romani nel 1557. Nel 1561, alla sua morte, si scoprì che anch’egli lasciava il suo dominio in eredità a Costantinopoli.
Ma tanti onori portarono anche ad avere nuovi avversari: gli inglesi e i francesi iniziarono a loro volta ad espandersi negli oceani, e presto diventeranno tristemente parte delle nostre cronache. Le loro prime basi vennero stabilite nel nord della Colombia, ma ben presto la contesa si spostò in India e in Indonesia, scoperte dall’esploratore andaluso-romano Felipe Ortega nel 1539.
Basileios non era interessato al settentrione colombiano, ma combatté energicamente i corsari inglesi e francesi nell’Oceano Indiano e Pacifico. Le due battaglie navali di Neapolis – in India – del 1559 e di Colonia Pacifica – nelle Filippine – del 1560 ristabilirono gli equilibri in favore dei romani, che con la flotta d’oltremare sconfisse prima gli uni e poi gli altri.
Per garantirsi una stabile base nell’area il basileus ordinò di occupare l’intera isola di Ceylon, e i suoi ambasciatori trattarono l’acquisizione con i principi indiani del subcontinente delle città di Goa e Calicut. Molte isole del Pacifico videro alterne fasi di colonizzazione, con la fondazione di empori, stazioni e porti commerciali oppure roccaforti e darsene militari.
Tra il 1567 e il 1570 furono inoltre stretti i primi accordi commerciali con Cina e Giappone, le mitiche terre descritte da Marco Polo tre secoli prima. Gli storici illuministi definirono questo periodo come la Terza Colonizzazione Ellenica, riallacciandole alle precedenti del XII secolo a.C. in Asia Minore e Mar Nero e dell’VIII a.C. nell’Occidente del Mediterraneo.
L’ultima grande vittoria di Basileios giunse appena dopo la sanguinosa guerra contro Karl V. Nel 1553, infatti, un’orda di uzbeki, kazaki, turchi e tartari calò su Armenia, Georgia e Azerbaijan dalle steppe a nord del Mar Caspio. I resoconti di testimoni oculari affermano che fossero 200.000, ma probabilmente, se volessimo considerare realistica la cifra, dovremmo includere le loro famiglie e non solo i guerrieri. Questi ultimi erano per certo decine di migliaia e ad oggi il loro numero è stimato all’incirca sugli 80.000 cavalieri.
Il loro capo si faceva chiamare Hülagü Khan e proclamava di essere un discendente di Temür lo zoppo, meglio conosciuto in Europa come Tamerlano, l’ultimo seminatore di morte e distruzione di stirpe turco-mongola.
La campagna di Hülagü sembra sia iniziata nel 1547, quando venne sconfitto con la sua gente da una tribù rivale nei territori del khanato uzbeco, a nord della Persia. Questi giurò di vendicarsi e l’anno dopo inflisse una severa lezione ai clan rivali, massacrando indiscriminatamente tutti i maschi, che fossero adulti, adolescenti o bambini. Il khan locale chiese al giovane capo spiegazioni, da portare di persona al cospetto della sua corte. Hülagü però, essendo ben consapevole della sua colpevolezza e della severa giustizia del suo signore, decise di andare a ritagliarsi un proprio dominio in esilio.
Nel biennio 1549-50 si fece conoscere nelle steppe asiatiche e russe come comandante temerario e fortunato, sconfiggendo diversi signori tartari, turchi, cosacchi e russi. Nel 1551 inflisse una dura batosta alle forze del velikij knjaz Ivan IV e del prinkeps di Crimea Theodoros. Essendo il primo alleato e il secondo vassallo di Costantinopoli, il basileus si considerò direttamente coinvolto nella questione e inviò denaro, armamenti ed esperti ufficiali e soldati affinché addestrassero le forze dei due sovrani per cacciare il condottiero tartaro.
I risultati furono fin troppo soddisfacenti, in quanto i due alleati costrinsero Hülagü a lasciare la regione del Kazan, che occuparono con guarnigioni, ma lo dirottarono verso i monti del Caucaso. Quella che sembrava una brillante vittoria si trasformò in un disastro quando il khan, riunite tutte le bande di briganti, soldati senza padrone, nomadi e predoni turchi e curdi, ingrossò le sue fila nella marcia verso sud. Nel 1553 sbucò infine in Georgia, dove iniziò una campagna di distruzione e sterminio sistematico di ogni forma di vita che incontrò.
Gli strategoi dei themata di Georgia e Armenia gli andarono incontro con 30.000 uomini ma vennero sbaragliati. L’XI Legio Armena fu quasi cancellata dalla storia, mentre Castra Basilia ed Erzurum vennero rase al suolo fin quasi alle fondamenta, con decine di migliaia di morti.
Basileios, allarmato, decise di inviare in loco Emanuele Filiberto di Savoia con quattro legioni, quindici reggimenti ausiliari e 20.000 alleati forniti dai signori danubiani e della Crimea. Nel giugno del 1553 il condottiero italiano sbarcò a Trebisonda, che divenne la sua base operativa, e da là scongiurò un’invasione dell’Anatolia, deviando la marea tartara con due duri scontri alle pendici dei monti del Caucaso.
Hülagü decise allora di passare in Mesopotamia, divisa fin dal 1547 in un area romana e una persiana, e si mise a saccheggiarle entrambe. Per settembre prese e mise a sacco Tabriz, ex capitale dello shāhan shāh. Era un insulto intollerabile per Tahmāsp, che decise di stringere con il millenario nemico un accordo di assistenza militare contro l’avversario comune. Il sovrano di Persia guidò personalmente una potente armata sul Tigri, che appoggiò le sopraggiungenti truppe romane di Emanuele Filiberto. Presso Mossoul, nello Stato cuscinetto creato tra i due Stati pochi anni prima, avvenne lo scontro decisivo. Era il 17 ottobre del 1553 quando i due improbabili alleati diedero battaglia all’orda. E fu un trionfo.
40.000 nomadi rimasero sul terreno e 50.000 tra donne, vecchi e bambini vennero catturati successivamente nel loro immenso campo. I romani contarono 4.000 caduti, 7.000 persiani. Tahmāsp e Hülagü rimasero entrambi sul campo.
Per una volta i due antagonisti di sempre avevano collaborato, e con ottimi risultati! Basileios decise così di approfittare della situazione, inviando subito emissari e doni al nuovo shāh Esmāʿīl II, con proposte di alleanza e spartizione definitiva dell’area di influenza ai confini. La risposta fu molto positiva e molto presto si giunse a un accomodamento e al Trattato di Antiochia.
Al suo interno vennero stabilite non solo le zone d’influenza nel Medio Oriente, ma anche in India e in Arabia. Stabilita la linea del Vallum Constantinii come confine territoriale ad oriente, venne definita la Linea Basilika nel continente indiano, ovvero una retta immaginaria che tagliava idealmente l’India in due parti, una settentrionale e una meridionale. Quella a nord poteva diventare territorio di sfruttamento economico e d’influenza persiano, quella a sud invece spettava ai romani.
Purtroppo per i persiani nel nord si stava affermando sempre più il potente sultanato Mughliyah, che respinse per due secoli l’infiltrazione dei sovrani di Isfahan, fino a quando non cadrà in mani inglesi. Al contrario, la parte meridionale verrà nei due secoli successivi occupata stabilmente da Costantinopoli e diverrà parte dei domini coloniali romani. Infine vennero stabiliti empori comuni in città nevralgiche per il commercio come Costantinopoli, Antiochia, Tabriz, Isfahan e Samarcanda, e fu firmata un alleanza che durò quarant’anni.
Giusto in tempo, perché un difficilissimo momento era alle porte. Un triste epilogo per una parabola così luminosa come quella che era stata descritta dal grande sovrano Basileios III.
Fermenti religiosi e culturali erano tornati a tormentare l’impero. Basileios aveva inaugurato fin dal 1550 una politica di ellenizzazione dei suoi vasti territori, sostenendo con mezzi sempre più brutali la cultura romana e la religione ortodossa. In uno stato multietnico come quello creato dai suoi predecessori era un suicidio, soprattutto contando che l’assimilazione, anche se molto lenta, stava già avvenendo, cosa che un politico accorto e un po’ più paziente avrebbe di sicuro notato e cautamente incoraggiato.
Presto le rivolte scoppiarono nell’Egitto copto, nella Siria monofisita, nelle terre islamiche dell’Anatolia interna, di Mesopotamia e Africa e nelle regioni cattoliche di Spagna e Francia. Perfino in Italia, la terra che praticamente contava il maggior numero di conversioni all’ortodossia, si creò un movimento secessionista.
Nel 1565 Andreas Strategopoulos, il conquistatore della Spagna e uno dei più famosi generali imperiali, si ribellò e si proclamò basileus a Toledo. La sua linea politica era la massima tolleranza religiosa e questo gli valse vasti consensi in occidente e in Africa. Per la fine della primavera sbarcò in Italia con un forte contingente di veterani ai quali si aggiunsero le legioni e gli ausiliari italiani. Il 29 maggio si fece incoronare nuovamente imperatore a San Pietro dal patriarca di Roma, poi venne acclamato dai suoi soldati e dalla popolazione civile.
Invece che seguire una politica analoga Basileios, ormai persa ogni ragionevolezza, inasprì la sua azione reazionaria. L’unica scelta inizialmente positiva, ovvero l’affidare la riscossa al suo miglior generale, l’inossidabile Emanuele Filiberto di Savoia, venne vanificata dal suo richiamo a Costantinopoli mentre si accingeva a sbarcare a sua volta in Italia.
Al suo posto venne inviato Bardas Phokas, scarso militare ma fedelissimo alla politica basiliana, che invece era veementemente osteggiata dal Savoia. Come da previsione Bardas rimediò una severa lezione di tattica militare quando si fece imbottigliare, circondare e sbaragliare presso Taranto nel 1566. Andreas poté così svernare in Italia, stringendo alleanze con i sovrani di Francia, Germania e Navarra, mentre bloccava l’oro e l’argento colombiano che iniziarono ad arrivare alla tesoreria di Roma invece che a quella di Costantinopoli.
Nel 1567 mosse verso la Regina delle Città con l’esercito riposato e motivato, le spalle coperte e abbondanti finanze per pagare le truppe e nel caso compiere azioni di spionaggio o corruzione. Ma neanche Basileios era stato fermo, infatti aveva ammassato un nuovo esercito, chiamando alle armi gli alleati e i vassalli orientali. Poté fruire perfino di 7.000 cavalieri corazzati prestati dal sovrano di Persia, in segno di alleanza.
Il comando venne assegnato nominalmente ad Alexios, figlio primogenito di Basileios, ma il vero potere era affidato alle esperte mani di Emanuele Filiberto. Andreas disponeva di 50.000 veterani, 12.000 mercenari e 40 cannoni, Alexios ne schierava 48.000, più 15.000 alleati e 70 bocche di fuoco. La battaglia si svolse presso Tessalonica il 16 maggio e fu un orrendo massacro.
Morirono 24.000 ribelli e 26.000 lealisti e lo stesso Alexios rimase sul campo, raggiunto da un colpo di moschetto durante la carica vittoriosa dei athanatoi della guardia che aveva voluto a tutti i costi guidare. Anche Andreas, colpito da una scheggia di cannone nelle fasi finali dello scontro, perì due giorni dopo. La sua ribellione finì con lui, nonostante il figlio Manouel tentò di autoincoronarsi il 19. Verrà trucidato dai suoi stessi ufficiali quella stessa sera e la sua testa, insieme a quella del padre, furono il dono che il Savoia si vide recapitare il 20 a Tessalonica, dove si preparava ad un nuovo eventuale scontro.
Infatti, per quanto sanguinosissimo, il precedente macello non era stato decisivo, vista l’alta professionalità delle schiere in campo e la caduta quasi contemporanea di entrambi i comandanti in capo. Il magister militum di Basileios trovò nella resa nemica un regalo molto migliore delle due macabre teste dei ribelli, come affermò egli stesso nelle sue memorie.
Basileios III, ormai fuori pericolo, fu distrutto dalla morte del figlio e abbandonò completamente la vita politica. Incoronò il terzogenito Konstantinos e si chiuse in uno dei conventi del Monte Athos, da lui stesso ristrutturato dopo un terremoto, nel 1558. Con il nome di fratello Georgios, concluse i suoi giorni tra le preghiere e la pittura di icone nel dicembre del 1568.
Alberto Massaiu
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