In tre anni Alexios aveva riportato la vittoria su tutti i fronti, sbaragliando le più grandi potenze occidentali, facendo fuggire i pontefici dalla loro sede millenaria, occupando tutta l’Italia ed espandendo l’influenza di Costantinopoli nel Mediterraneo occidentale. Ora il sogno imperiale di tornare ai tempi di Ioustinianos si era compiuto. Anzi, la potenza raggiunta era ancora più grande, visto che l’antico sovrano non aveva avuto dalla sua un intero, nuovo continente da amministrare.
L’immensa gioia dell’augusto fu però controbilanciata dal dolore insanabile per la perdita del figlio ed erede Basileios, che lo svuotò completamente. Ad ogni modo Alexios seppe tenere privato il suo lutto, in modo da non contagiare il suo popolo. In pubblico tenne un contegno perfetto, e il trionfo che organizzò nella capitale fu esempio di fulgida gloria e potere. Niente del genere si era visto prima d’ora in città e solo il ricordo dei racconti del passato gli si potevano paragonare.
Migliaia e migliaia di uomini sfilarono per le vie della Nuova Roma. Molti personaggi illustri d’Italia erano stati invitati sul Bosforo: Leonardo da Vinci, Michelangelo, Cesare Borgia, Niccolò Machiavelli, Lorenzo de’ Medici, Alessandro VI e aristocratici, artisti, studiosi e avventurieri da ogni parte dell’Occidente.
Dopo questa manifestazione di forza, però, il basileus decise che aveva dato tutto quello che poteva allo Stato e, seppur senza mai abdicare ufficialmente, decise di dirottare gli impegni di governo verso il secondogenito Konstantinos. Quest’ultimo, per quanto fosse estremamente ligio al dovere, alla sua famiglia e all’impero, non seppe mai accattivarsi le persone come il padre, aspetto vitale che generò la crisi del 1505.
Conservatore, al contrario del genitore non apprezzava le innovazioni e i costumi dell’Occidente. Non si fidava troppo dei sudditi italiani che, in poco tempo, non avevano solo cambiato fazione, ma avevano perfino rinnegato la fede cattolica per quella ortodossa. Era convinto che, visto il rapido mutamento, questo fosse solo di convenienza, e sarebbe durato giusto il tempo della supremazia militare romana, per poi cambiare al primo segno di debolezza.
Se i fatti, in effetti, gli diedero in seguito ragione, il suo atteggiamento poco diplomatico fu concausa dell’inasprirsi di tali rapporti, specialmente con la nobiltà italiana, francese e dalmata di recente acquisizione, che si ribellò pochi anni dopo la vittoriosa guerra vinta dal padre.
Negli anni successivi alla Guerra d’Italia si crearono pian piano due grandi ideologie politiche: da una parte i filo-latini che spingevano per un’espansione militare, economica, politica ed ideologica verso quelle zone. La grande casata che capeggiava questo schieramento erano i Doukai, che contava sulla potenza delle legioni d’Italia e dei Balcani, oltre che dell’appoggio di buona parte delle aristocrazie italiane e della potente famiglia Borgia. Questi ultimi si legarono definitivamente ai Doukai mediante il matrimonio che, nell’inverno del 1496, unì Mikhael con Lucrezia, la giovanissima sorella minore di Cesare e figlia del patriarca Alessandro VI.
Dall’altra parte stavano invece i conservatori, che auspicavano un periodo di consolidamento delle posizioni dell’impero, per fronteggiare l’ascesa della nuova potenza mesopotamica e iraniana, la Persia degli shāh safavidi. A capo di questa fazione stavano i Phokai, fedelissimi di Konstantinos da quando, nel 1478, egli aveva sposato Sophia Phokaina, figlia dell’anziano Leon. Il figlio da lei avuto, il futuro Isakios III, era destinato alla porpora e alla continuazione della casata Komnena Palaiologa.
Questa situazione, che avrebbe richiesto le capacità diplomatica e l’abilità di Alexios, sempre attento a mantenere l’equilibrio tra il dinamico influsso occidentale e il più equilibrato spirito orientale, fu guastata dal piglio di Konstantinos, che si schierò nettamente con i Phokai. In questo modo si alienò la simpatia dei signori italiani – tranne i Medici, a cui richiese una moglie per il figlio Isakios e i Savoia, a cui assegnò ruoli militari e politici di rilievo in funzione antifrancese – e perfino delle legioni occidentali, a cui vennero privilegiate quelle stazionate in Anatolia, Siria ed Egitto. La sua politica, va detto, non era campata del tutto in aria, visto che aveva previsto i segni dello sviluppo dell’antico nemico persiano, ma il modo troppo appariscente con cui condusse la sua politica strategica gli alienò molti ufficiali dell’ovest.
Ad ogni buon conto, queste considerazioni si possono solo leggere con il senno di poi visto che, almeno all’esterno, l’Impero Romano di quegli anni visse un periodo di splendore e pace straordinario. Retto dalla industriosa attenzione di Konstantinos, ancora solo co-imperatore, lo Stato fu organizzato e disciplinato dopo la ruggente espansione militare e politica dei dieci anni precedenti.
Il figlio di Alexios curò la fondazione di missioni evangeliche nelle terre musulmane che, senza azioni plateali ma piuttosto con calma e metodo, portarono ad una prima serie di conversioni in quelle terre. Grandi risorse vennero dirottate per i preti ortodossi che riattarono antiche chiese e monasteri abbandonati o trasformati in moschee nei secoli del dominio islamico. Fu lui che, nel 1499, emanò un editto che, ad esempio, regolava l’accesso all’area sacra di Gerusalemme per tutti i fedeli e i pellegrini, qualsiasi fede professassero. Assegnò ad un corpo speciale dei cavalieri pantocratori la sorveglianza, l’assistenza e la protezione di tutti loro, avendo riguardo che nessuno venisse perseguitato in alcun modo nella Città Santa. Questa disposizione era talmente moderna per i tempi che, ancora oggi, una sua trascrizione completa risalente al 1512 si può leggere, tradotta in greco, latino, arabo ed ebraico ed eternata su lastre di porfido rosso, all’esterno della basilica del Santo Sepolcro, su un cippo prospiciente la Cupola della Roccia e sulla parte dell’antico muro del pianto inglobato nel nuovo Tempio di Salomon, innalzato con il consenso del basileus Napoléon I nel 1803.
In quanto alle riforme amministrative, l’Italia venne ufficialmente proclamata come quinta dioikesis dell’impero, sotto la giurisdizione del patriarca di Roma, a cui fu assegnata tutta la penisola – la Longobardia fu tolta dalla potestà di Costantinopoli dopo lunghe proteste – e le isole occidentali. Nel campo economico, invece, Konstantinos decise di effettuare forti investimenti per riportare l’Anatolia ai prosperi tempi dove era rigogliosa di campi di cereali, zafferano, cotone, vitigni e uliveti. Furono sperimentati moderni mezzi di irrigazione e nuove colture – comprese quelle colombiane come patate, tabacco e cacao, tutte molto richieste – che vennero esportate in ogni dove grazie ai nuovi traffici oceanici.
In questi anni tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo Alexios VI Komenos Palaiologos fu definito per la prima volta Megas da Niccolò Machiavelli, prendendo spunto da Alexandros il Macedone, il grande condottiero che aveva conquistato secoli e secoli prima l’Impero Persiano.
Nel 1500, con la Lex Imperii Romanorum, venne reintrodotto il latino nelle alte sfere del governo e della burocrazia – nell’esercito era già parzialmente in uso fin dagli anni ’60 del secolo appena concluso. Ora i documenti ufficiali sarebbero stati sempre scritti in due lingue: greco e latino. Va detto che questa riforma riscontrò buoni risultati solo nella burocrazia e nei ceti medio-alti, mentre il popolino rimase tenacemente attaccato al greco, oltretutto nella sua forma più rozza e semplice, fino al XIX secolo. La lingua della chiesa, inoltre, rimase quella di Platon e Aristoteles, mai di Marcus Tullius Cicero.
In quegli anni di gloria, tra il 1498 e 1511 venne completata l’opera dell’erudito Ioannes Kantakouzenos: “Istoria ton Rhomaion” o “Historia Romanorum”, un lavoro monumentale che parte da Octavianus Augustus e arriva fino a Konstantinos XII, divisa in 24 volumi, pilastro di studio imprescindibile per ogni storico che si rispetti.
Come tutte le cose belle, alla fine, anche quegli anni felici vennero meno. Nel 1505, dopo 42 anni di regno e 82 di vita, si spegneva il grande Alexios, salvatore e restauratore dello Stato. Il conflitto ideologico cresciuto sotto le ceneri negli ultimi anni, divampò nel momento stesso in cui il basileus chiuse gli occhi per sempre, nella pietosa fortuna di non rovinare il suo pacifico trapasso.
Konstantinos, proprio nei mesi precedenti, aveva condotto una campagna ai confini dell’Anatolia settentrionale, che aveva come obiettivo la presa di Trebisonda, sul Mar Nero. Questo staterello stretto tra le Alpi Pontiche e il Caucaso era un triste ricordo della disintegrazione politica dell’Impero Romano compiutasi tre secoli prima, a causa dell’avidità e della spregiudicatezza dei veneziani e dei franchi della scellerata IV Crociata, che si era conclusa con la presa e il saccheggio di Costantinopoli del 1204.
La dinastia che regnava su Trebisonda era però un ramo della stessa casata Komnena della quale anche il co-imperatore Konstantinos faceva parte. Prima di tutto, nel 1503, si era tentata la via diplomatica, mediante una possibile unione tra David Komnenos, figlio del basileus Ioannes VII, e la figlia di Kontantinos, Helena. La ragazza venne inviata alla corte di Trebisonda e vi rimase diversi mesi come fidanzata dell’erede. Per la fine dell’anno, però, il giovane morì durante un incidente di caccia e del matrimonio non se ne fece nulla. Ioannes VII compì però una terribile gaffe, rispedendo senza troppi convenevoli Helena al mittente. Era un insulto inaccettabile per la famiglia imperiale.
La giovane venne inviata in Italia per un ennesimo fidanzamento, anch’esso fallito, con la famiglia Medici, mentre il padre preparava una spedizione militare contro l’ex quasi suocero. Ioannes VII, accortosi del disastro diplomatico appena compiuto, strinse subito alleanza con il nakharar armeno Ashot III e il prinkeps georgiano Bagrat VII, e si fortificò nelle sue terre. Trebisonda era una città prospera e permise lo schieramento di 30.000 uomini tra greci, turchi, armeni, circassi, curdi, georgiani e tartari di Crimea.
Konstantinos, desideroso di mettersi in mostra, si organizzò in grande stile, radunando a Costantinopoli molte unità scelte: la IV Legio Ellenica venne presa dal fronte danubiano mentre la VII Ulpia Traiana da Antiochia, a cui si aggiunsero i reggimenti ausiliari che rappresentavano ogni ceppo etnico dell’impero. Vennero inoltre prelevati dalle basi nell’Egeo 2.000 fanti di marina esperti nell’uso delle armi da fuoco e con loro vennero approntati 70 pesanti cannoni d’assedio e bombarde.
Decine di unità navali da combattimento e da trasporto vennero concentrate sul Corno d’Oro, affidate al megas droungarios della flotta, Cristoforo Colombo. Il meglio della forza militare imperiale venne preparato per vibrare un terribile colpo di maglio sulla piccola Trebisonda. Per creare un diversivo il co-imperatore ordinò a Leon Phokas di compiere un’incursione da Cesarea verso nord, per minacciare anche il fronte meridionale dei tre alleati.
Tutto era pronto per il 1505, quando anche l’Ordine di Christos Pantokrator mise a disposizione cavalieri e sergenti e Alexios accordò l’aggiunta all’armata delle due legioni cittadine della I Praesentalis e della X Caesar Imperator. Cesare Borgia, come personale contributo in quanto prinkeps di Roma, arruolò e fornì a Konstantinos, in un gesto che sembrò all’epoca di rasserenamento tra le opposte posizioni politiche, 3.000 mercenari svizzeri e lanzichenecchi armati di picche e archibugi.
Il comando supremo fu preso dal co-imperatore stesso, con assistenti di campo Francesco Gonzaga ed Emanuele di Savoia, mentre la marina venne guidata non solo dal navigato comandante genovese, ma anche dal suo pupillo Manouel Strategopoulos. All’alba del 25 marzo del 1505 la flotta prese il largo, sospinta da una forte brezza di ponente e da fastose celebrazioni di giubilo.
Dopo una settimana di navigazione la Neon Nautikon si trovò ad affrontare una squadra trebisondina, che liquidò dopo un breve scambio di cannonate, con un bilancio di qualche ferito e una galeazza danneggiata lievemente per i romani e tre galee nemiche affondate. Dopo questa magra figura gli avversari si rinchiusero con navi e soldati nella capitale fortificata. Lasciarono fuori solo un contingente misto di cavalieri e arcieri agli ordini di Ashot per contrastare lo sbarco.
Konstantinos ordinò di bombardare la spiaggia dove i contingenti da sbarco avrebbero effettuato le prime operazioni, trasformandola in una trincea invalicabile per la cavalleria e azzerando così le possibilità di contrattacco dei temibili guerrieri armeni. I thalassastratiotai approdarono con galee che vennero fatte arenare nel lido stesso, e da quella posizione si diressero verso gli arcieri greci di Ioannes, che si sbandarono dopo aver scagliato appena due imprecise salve.
Ashot tentò allora una carica per respingere i fanti di marina, ma questa finì in un disastro. Rallentati, se non frenati, dalle buche fatte dalle cannonate, i pesanti cavalieri armeni divennero preda di un ordinato fuoco di archibugi delle addestrate truppe comandate da Manouel Strategopoulos. Dopo aver lasciato sul terreno 200 uomini questi si ritirarono frettolosamente verso la sicura protezione delle porte cittadine.
I vittoriosi talassastratiotai allargarono la zona protetta, dove sbarcarono in successione i primi reggimenti di auxilia e le forze mercenarie, seguite dalle legioni, dai cavalieri pantocratori e dall’artiglieria. Ai primi di aprile Konstantinos venne a sapere che un comandante di Ioannes, un armeno di nome Gagik, si era arreso con il suo reggimento di cavalleria a Leon Phokas vicino a Teodosiopoli. Il cappio su Trebisonda si stava stringendo.
Il 22 iniziò un violento bombardamento di artiglieria, che continuò per otto giorni, mentre i genieri romani approntavano scale e catapulte per il fuoco greco. Una settimana dopo crollò una torre sul lato orientale delle mura e il co-imperatore ordinò un assalto dei mercenari e degli auxilia slavi e italiani, che venne respinto dopo un’ora di lotta sanguinosa, con durissime perdite per entrambi i contendenti.
Il 4 maggio Ioannes ordinò una sortita con 5.000 cavalieri armeni e georgiani, sperando di distruggere le catapulte e i cannoni prima che riversassero altro ferro e fuoco sulla sua capitale. Konstantinos, che aveva preventivato una mossa del genere, aveva organizzato una trappola con i fanti di marina, i cavalieri pantocratori e alcune unità di picchieri svizzeri. Il risultato fu un massacro, dove solo 1.500 superstiti riguadagnarono le mura. Lo stesso comandante della sortita, Ashot, venne preso prigioniero insieme a 300 dei suoi e dovette giurare più tardi fedeltà a Konstantinos. Con lui Ioannes perse una buona parte delle forze migliori che gli restavano, dato che gli armeni erano i suoi guerrieri più disciplinati e fedeli.
I bombardamenti poterono continuare fino a metà mese, riducendo le mura a dei brandelli fumanti e la guarnigione allo stremo. La notte del 21 maggio Bagrat VII fuggì dalla città con 3.000 georgiani, tallonato senza troppo zelo dagli arcieri a cavallo turchi e dai berberi dell’Atlante per una mezza giornata. Fecero numerosi prigionieri.
Quattro giorni dopo Konstantinos mosse l’attacco finale: reparti d’assalto di ausiliari e legionari avanzarono verso le brecce protetti dal fuoco di cannoni, archi, archibugi, balestre e catapulte, mentre dal mare manipoli di audaci fanti di marina attaccarono le mura marittime, meno presidiate. Verso sera la capitale del’Impero di Trebisonda era caduta in mani romane. Era il trionfo del co-imperatore, che unificava anche l’ultimo stralcio dell’Anatolia e cancellava per sempre il ricordo dell’umiliazione del 1204.
Ioannes VII venne condotto al cospetto di Konstantinos e gli dovette giurare fedeltà, deponendo le insegne imperiali trebisondine e dichiarando che l’Impero Romano era unico e indivisibile. Subito dopo venne inviato nel complesso monasteriale delle Meteore, dove venne tonsurato e, con il nome di fratello Mathaios, vi soggiornò fino alla morte, sopraggiunta nel 1527.
Konstantinos non si riposò sugli allori, ma pensò subito di allargare il thema del Ponto e di crearne uno nuovo, ovvero il thema di Armenia. Per completare questo obiettivo si servì dei nuovi cavalieri armeni di Ashot, divenuto ora un vassallo dell’impero, a cui venne promesso il governatorato della nuova provincia.
L’avversario era ormai il solo Bagrat VII, prinkeps di Ani, che con i suoi guerrieri sbarrava i passi montani del Caucaso. Il co-imperatore decise di saggiare la sua forza inviando Francesco Gonzaga e Ashot con una forza mista di cavalieri armeni e turchi, fanti valacchi e arcieri siriani ed egiziani. Il 26 giugno questi tallonarono i georgiani verso l’interno, il 29 ricacciarono indietro un contrattacco e l’11 luglio agganciarono la retroguardia del signore georgiano presso un villaggio in una piccola valle tra le montagne.
Il 12 Bagrat dovette accorrere per salvare i suoi e subì una cocente sconfitta, lasciando sul terreno 1.000 morti e ogni speranza di vittoria finale. Francesco Gonzaga lo catturò presso Ani pochi giorni dopo e la città capitolò senza combattere. Entro la successiva settimana Konstantinos ordinò alla IV e alla VII legione di avanzare, e tutti i nobili georgiani ed armeni locali preferirono giurargli fedeltà, facendo entrare le loro terre nel nuovo thema. Ora la campagna era veramente conclusa.
Il ritorno vittorioso di Konstantinos nella capitale godette però di una breve durata. Infatti il 28 agosto morì Alexios VI e poche settimane dopo Romanos Doukas, figlio del magister militum d’occidente Mikhael, si proclamò basileus a Roma, ottenendo l’appoggio totale dei Borgia e quello parziale della maggioranza degli aristocratici italiani.
La ribellione del giovanissimo Doukas non sembrò all’inizio un grosso problema, ma Konstantinos commise un terribile errore, in quanto ordinò al padre del ribelle di intercettare le sue forze e riportare in catene il giovane a Costantinopoli. Non sono state mai chiarite le ragioni di tale scelta, forse Konstantinos si fidava molto del giudizio del suo generale, con cui aveva combattuto assieme in Anatolia nel 1488, e sperava che il tutto si sarebbe risolto senza spargimento di sangue, una volta che i ribelli occidentali avrebbero avuto davanti il capo della loro fazione. Fatto sta che accadde il contrario. Furono i legionari di Mikhael a passare dalla parte di suo figlio e di Cesare Borgia, mettendo ai ceppi il magister militum fino alla fine del conflitto.
Comunque l’azzardo del co-imperatore non fu totale, in quanto aveva affiancato a Mikhael Doukas il giovane veneziano Cesare Rizzo, un esule che si farà strada alla corte costantinopolitana per la grande fedeltà e abilità che dimostrerà. Presso Skupi, solo i cavalieri di Christos Pantokrator e pochi altri rimasero leali a Konstantinos, cadendo quasi tutti nello scontro. Cesare Rizzo, però, dopo una rocambolesca fuga seppe approntare le difese in Tracia, presso la possente roccaforte di Adrianopoli, dove diede il tempo a Konstantinos, ora ufficialmente incoronato basileus, di radunare le truppe orientali e preparare la rivincita.
La giornata del 29 ottobre vide oltre 100.000 romani massacrarsi di fronte alla città, lasciando sul campo 13.500 morti tra i ribelli e 6.000 per i lealisti. Un vero stillicidio tra fratelli! Alla fine, però, il fronte avversario collassò grazie ad una carica quasi suicida della scholai contro il fior fiore delle forze avversarie, la cavalleria di gendarmi corazzati francesi e borgognoni del Borgia. Cesare Rizzo, al comando del reparto, riuscì a perforare la loro difesa e ad uccidere il comandante nemico, portando allo scoramento il giovane usurpatore, che si diede alla fuga.
La mattina del 30 vide la fine della rivolta: Cesare Borgia era morto, insieme ad alcuni membri traditori della famiglia dei Kantakouzenoi e dei Lekapenoi. Altri componenti di questa casate erano prigionieri, insieme ad alcuni nobili italiani tra cui Colonna, Orsini, Piccolomini, Bentivoglio, Montefeltro e altri aristocratici minori.
Romanos Doukas fuggì a Vienna, sotto la protezione del kaiser Maximilian, mentre il padre Mikhael, per quanto non colpevole diretto del tradimento, venne avviato alla carriera ecclesiastica assieme al fratello Andronikos, lasciando tutti i beni della famiglia Doukas ai loro figli minori, che vennero graziati da Konstantinos, che non voleva scatenare ulteriori faide mostrandosi dispotico e sanguinario.
Le immense perdite di vite umane e la scossa di prestigio subita da Konstantinos, che dovette dirottare parte delle sue truppe nella penisola, per ristabilire la sua autorità e prevenire mosse di francesi, spagnoli e tedeschi, stimolò le ambizioni di conquista di Esmāʿīl, che da poco aveva conquistato l’Irak e Baghdad, proclamando la rinascita dell’Impero Persiano. Il suo obiettivo, riallacciandosi ai monarchi iraniani pre-islamici, era quello di ristabilire il dominio di Kuruš il grande, creando uno Stato che si allargasse dall’India al Mediterraneo, con Anatolia, Siria ed Egitto compresi.
Per l’impresa mobilitò quasi 80.000 uomini divisi in una grande armata e due minori, con cui attaccò nel 1507 Antiochia, Damasco e Cesarea, cercando di fomentare la ribellione negli armeni e nei georgiani appena conquistati. Si proclamò anche difensore dell’Islām, puntando quindi nella collaborazione, se non nella sottomissione diretta, dei musulmani locali.
L’invasione giunse fulminea e inaspettata, in quanto i romani non avevano mai dovuto affrontare i persiani fino ad allora. Nel 1494, in vista della campagna in Italia, Alexios VI aveva stretto un trattato di non belligeranza tra i due Stati, in quanto gli interessi dello shāh erano concentrati sulle terre irachene e dell’Iran interno, dove stava ancora consolidando il proprio potere. Ora, però, con i confini orientali sguarniti da più di un anno, Esmāʿīl aveva deciso che il momento era giunto per ulteriori e facili conquiste.
La tragedia si scatenò quando l’anziano ed esperto Leon Phokas perì sul campo presso Edessa nel maggio dello stesso anno, con due legioni che vennero quasi del tutto annientate. Konstantinos, che non si sentiva ancora pronto per lasciare la capitale, inviò nella metropoli di Antiochia Francesco Gonzaga con la X Legio, più 5.000 tra ausiliari e alleati balcanici e danubiani. Questi, con il grado di magister militum per orientem, contenne prudentemente le soverchianti forze persiane. In più ordinò ad Alexios Kastriotas, pronipote del grande Skanderbeg, di proteggere i themata di Armenia e Cappadocia dall’attacco diversivo del generale persiano Alī ibn al-Hassan. Ad ultimo organizzò ad Iconio una nuova armata, sotto il comando del principe ereditario Isakios. Tre legioni, più gli ausiliari e parte della Guardia Imperiale, per un totale globale di 50.000 soldati pronti per il fronte. Erano tutte le truppe che poteva distaccare senza indebolire troppo l’occidente.
A giugno inoltrato Alexios Kastriotas inflisse una sconfitta minore ad Alī, ma non poté impedire ai signorotti locali di schierarsi con i persiani per riottenere l’indipendenza. Ottenne però il risultato di mantenere fedele il prinkeps Ashot, con 5.000 veterani armeni e 2.000 georgiani.
Nel frattempo la situazione ad Antiochia era peggiorata, con il Gonzaga bloccato nella città e i persiani che spadroneggiavano dalla catena del Tauro fino a Damasco e Acri. Isakios decise di sbarcare proprio ad Acri, per poi dirigersi a nord fino ad Antiochia. Il piano riuscì perfettamente, in quanto Esmāʿīl aveva immaginato che i rinforzi sarebbero arrivati dalla Cilicia e qui aveva concentrato le sue forze. Il 16 giugno il principe liberava Damasco e marciava verso Aleppo, per tagliare le linee di rifornimento all’armata nemica che assediava Antiochia.
In quei giorni anche in Armenia ci furono movimenti, infatti il Kastriotas attaccò di sorpresa il campo di al-Hassan con 14.000 uomini. Il generale persiano perdette una parte dei suoi soldati in combattimento e contò centinaia di dispersi e prigionieri, e si dovette ritirare scornato nella sua base presso il lago Van.
Lo shāh nel frattempo mosse verso Isakios, lasciando solo una manciata di uomini a mantenere l’assedio ad Antiochia. Il principe ereditario non lo attese, ma attaccò in anticipo con tutte le sue forze nella piana antistante il fiume Oronte. I persiani, motivati dal loro sovrano, respinsero due feroci attacchi romani, ma verso mezzodì Francesco Gonzaga guidò una sortita con la guarnigione di Antiochia e sbaragliò la retroguardia nemica. Isakios colse l’attimo e scagliò sul centro degli avversari tutti i cavalieri di cui disponeva, che come un maglio schiacciarono le guardie del corpo dello shāh, che cadde nelle mani dei romani.
Senza la sua guida i persiani non furono più un problema: numerose le fortezze e città mesopotamiche e armene caddero in mani imperiali quasi senza colpo ferire. Ad ottobre Isakios, dopo aver preso e saccheggiato Tabriz, la capitale persiana, si accampò presso Ninive, la città dove nel 629 l’imperatore Heraklios aveva spezzato la potenza persiana novecento anni prima.
In quel luogo simbolico, in una tenda fatta innalzare per l’occasione, lo shāh firmò una pace trentennale con l’Impero Romano, accettò una rettifica di confini a favore di Costantinopoli in Mesopotamia e l’influenza romana su Armenia e Georgia, pagò un’indennità di guerra di 500.000 hyperpyron aurei da consegnare in dieci anni e dovette inviare come ostaggi per altrettanto tempo uno dei suoi figli e due nipoti nella capitale. Era il 1508, e da allora la pace regnò con la Persia per trent’anni. Nello stesso anno venne creato il thema di Mesopotamia, che portava il confine romano fino all’Eufrate.
Risolto brillantemente il conflitto con il nemico orientale, Konstantinos XII decise di affrontare anche le questioni occidentali. Nel 1512, infatti, decise di inviare un’ambasciata presso Avignone, dove regnava il papa in esilio Giulio II. Il progetto era sempre il solito, ovvero la tanto sospirata unione tra le chiese, ma stavolta era il basileus a contrattare da una posizione di forza.
La proposta dell’imperatore era semplice: Konstantinos avrebbe riconosciuto il titolo di vescovo, papa e patriarca di Roma a Giulio II, oltre che il ruolo di guida, in posizione di primus inter pares, di un alto consiglio pentarchico con Gerusalemme, Costantinopoli, Alessandria e Antiochia a lui sottoposti. I cardinali sarebbero stati aboliti, per rientrare nel sistema vescovile. In quanto ai delicati problemi di dottrina, rito e altri dettagli si sarebbe celebrato il più grande concilio ecumenico dai tempi di Nicea e Calcedonia, che si sarebbe tenuto a Roma sotto l’alta tutela dell’imperatore ma lontano dalla sua capitale, guidato dal solo pontefice e da due emissari speciali del basileus subordinati a Giulio II.
Il grandioso progetto, previsto per il 1515, purtroppo si arenò in mesi e mesi di interminabili discussioni che logorarono i nervi del sovrano, che costretto dalla sua promessa di non intromettersi facendo valere il suo potere politico, si trovò a scrivere e a rispondere, con un’intensissima corrispondenza, a tutti i prelati occidentali e orientali che mangiavano, dormivano e giravano a sbafo a Roma finanziati dal tesoro imperiale, che si era assunto improvvidamente l’onere di finanziare i lavori del concilio.
Se la religione non dava i risultati aspettati, a Konstantinos andò meglio con la politica d’integrazione. Molte famiglie italiane, armene, georgiane, anatoliche, danubiane, africane, egiziane e siriane iniziarono a fondersi con l’aristocrazia romana: i Farnese, i Colonna, gli Sforza-Riario, i Doria, i Savoia, i Medici, gli Este, i Gonzaga nella penisola; i Kastriotai e i Drăculești nei Balcani; gli Strategopouloi – una famiglia musulmana recentemente convertita – i Timokrates – siriani ellenizzati di Antiochia – e i Lusignano di Cipro in oriente.
Mikhael Timokrates divenne patriarca di Alessandria nel 1511 e suo fratello Markos ottenne il titolo di praetor dell’Egitto. Alexios Kastriotas, nipote del grande Skanderbeg, divenne strategos dell’Epiro e a più riprese magister militum. Mircea Dracula, nipote del famoso Vlad III e fratello minore del prinkeps di Valacchia Vlad IV, divenne megas droungarios della flotta nel 1510, alla morte di Cristoforo Colombo. Gli Strategopouloi divennero partigiani della potentissima famiglia dei Phokai, e, grazie all’intercessione di Andronikos Phokas – nuovo patriarca della casata dopo la dipartita dell’anziano Leon in battaglia contro i persiani, ottennero diverse cariche nell’amministrazione e nell’esercito nei themata del levante.
Cesare Rizzo rimase alla corte costantinopolitana, sposando la figlia del basileus Konstantinos in un rarissimo matrimonio d’amore che fece scrivere poemi e canzoni in ogni angolo d’Europa per la sua eccezionalità, ottenendo per fedeltà e meriti la carica di prinkeps di Roma dopo la cacciata dei Borgia, che si rifugiarono in Spagna, oltre che il delicatissimo ruolo di tutore di Basileios e Nikolaos, i figli dell’erede al trono Isakios.
Soldato fin dalla più tenera età, Konstantinos avviò una nuova rivoluzione nell’arte militare romana. Ben consapevole che in Francia, Fiandre, Germania, Spagna e Inghilterra la guerra stava mutando, portando alla scomparsa delle indisciplinate e irruente cavallerie e fanterie che venivano soppiantate con professionisti addestrati secondo il modello dei mercenari armati di picca e archibugio di provenienza svizzera o germanica, decise di portarsi al passo a sua volta.
Negli anni dal 1510 al 1519 ci fu un incremento nel numero di legioni e auxilia, che furono riequipaggiati e addestrati alle nuove tattiche di guerra. Le lance relativamente corte degli skutatoi passarono da due metri a sei-sette, vennero abbandonati gli scudi e si andò a creare un nuovo tipo di fante chiamato menavlatos – dal termine greco che definì questo tipo di picche, ovvero menavlion – che si disponeva in pesanti formazioni quadrate che componevano istrici irti di punte, impenetrabili alla cavalleria.
Per proteggere e supportare i menavlatoi vennero creati reparti specializzati di archibugieri – più tardi sostituiti da moschettieri – chiamati telebolontarioi e di fanti leggeri scelti armati solo di spada e scudo – gli spatharioi – addestrati all’assalto corpo a corpo. Anche le cavallerie legionarie si adattarono al nuovo modo di fare la guerra, con i kataphraktoi che si alleggerirono e, oltre alle lance e alle armi da urto, iniziarono ad utilizzare le prime pistole a ruota, mentre gli hippotoxotai introdussero sempre più armi da fuoco al loro equipaggiamento, che nel tempo sostituirono del tutto gli archi, fino alla loro evoluzione in reparti di drakonarioi e usarioi nel tardo XVII secolo.
A concludere l’opera di ammodernamento militare va citato il capolavoro d’ingegneria del Vallum Contantinii, una lunga serie di castelli, torri d’osservazione e fortificazioni che vennero innalzati dal Mar Nero fino al Mar Rosso, coprendo tutte le recenti conquiste in oriente e garantendo una difesa migliore nel delicato fronte persiano per gli anni a venire. Quest’impresa titanica fu iniziata dal basileus e venne proseguita, con intervalli più o meno lunghi, anche dai suoi successori, e finalmente conclusa solo nel 1536, appena due anni prima della scadenza del trentennio di pace con la Persia safavide.
Alberto Massaiu
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