Il quarantacinquenne Louis XVIII era poco meno di un fantoccio nella mani dell’abile primo ministro britannico William Pitt, che come prima cosa aveva fatto rapidamente occupare dalla marina britannica, a detta sua per proteggerle, buona parte delle colonie francesi sparse nel mondo.
L’abile statista d’oltremanica era riuscito a stringere un’alleanza con l’Olanda, l’Austria, la Svezia e la Russia in funzione antiromana. Balenando loro lo spettro di uno strapotere continentale di Costantinopoli in caso di scomparsa della Francia come attore indipendente e, in aggiunta, terrorizzando i monarchi conservatori europei descrivendo con tinte fosche gli effetti delle riforme portate avanti da Napoleone, era riuscito a radunare forse la più grande coalizione di nemici mai vista prima nella millenaria storia di Roma.
Insieme, infatti, i governi di Londra, Amsterdam, Vienna, Stoccolma e Russia potevano mettere in campo oltre mezzo milione di uomini, un’orda che nei piani di Pitt doveva rovesciare l’ambizioso corso e sopprimere il piano di cambiamenti sociali portati avanti dall’imperatore e magari, al contempo, sbocconcellare anche qualche territorio in Europa o nelle colonie al di là degli oceani.
Napoleone iniziò una feroce campagna di propaganda contro l’opportunismo britannico, con libelli che fece circolare in tutta l’Impero Romano ma anche clandestinamente in Germania, Francia, Ungheria, Polonia e Russia. Inoltre strinse buoni rapporti con la Polonia e la Prussia, in modo che queste ultime si tenessero fuori dal conflitto, e finanziò lo scoppio dell’ennesima guerra civile in Persia, azzerando i rischi di un’invasione al suo fianco orientale mentre concentrava le forse a nord e ad ovest.
Era da dieci anni che Costantinopoli era in pace, ma il riformismo del basileus non si era limitato alla sola economia o al sistema legislativo. Le forze armate erano state rinnovate e riorganizzare ampiamente. Napoleone aveva istituito le Legiones Augustae, unità totalmente autonome di circa 10-15.000 uomini dotate di fanteria di linea, schermagliatori, granatieri, cavalleggeri, cavalieri pesanti, genio, servizio medico e artiglieria da campagna. Questi corpi, guidati da un legatus legionis con ampia autonomia sulle decisioni da prendere sul campo, si dimostrarono molto più flessibili e mobili rispetto agli eserciti degli avversari di Roma, che spesso vennero superati dalla combinazione tra il genio strategico dell’imperatore e l’abilità di manovra di queste unità che, a detta del loro ideatore Napoleone: “Marciavano divise ma combattevano unite”.
La prima prova del fuoco fu in Ucraina. Il basileus voleva mettere subito fuori gioco il gigante russo, per evitare minacce sul fronte del Caucaso o del Danubio. Traghettata ai primi di aprile un’armata di 80.000 uomini a Chersonesos, Napoleone marciò con una velocità mai vista prima in direzione di Kiev, dove l’het’mаn cosacco Ivan Orlyk decise di schierarsi ai suoi ordini in cambio del trono di una Ucraina indipendente da San Pietroburgo. Qui trovò il generale Mikhail Barklaj-de-Tolli con 95.000 effettivi, che venne ricacciato indietro e poi quasi annientato poco fuori Černigov. Nel frattempo il suo magister militum georgiano Petros Bagrationi liberava Melitopoli, Marioupoli, Rostov sul Don e Donec’k, entrando come un trionfatore a Char’kov a fine maggio alla testa della III, XI, XVIII Legio e 7.500 alleati cosacchi e circassi.
Aleksandr I, tzar di tutte le Russie, preferì non rischiare ulteriori sconfitte e accettò una tregua d’armi valida fino all’estate del 1802 sulla base dell’uti possidetis, mentre richiamava soldati e li riorganizzava a Voronež e Caricyn.
Con le mani libere a nord, Napoleone trasferì con una marcia tanto veloce da sorprendere il mondo intero le sue truppe da Kiev all’Ungheria in poco più di un mese, bruciando gli oltre 1.000 chilometri di strade dissestate con una media di 30 al giorno. Il generale Karl Mack von Leiberich, che stava organizzando con tutta calma gli austriaci con gli alleati tedeschi degli innumerevoli Stati della Germania centro-meridionale per un’avanzata su Valacchia e Moldavia, si trovò accerchiato da 150.000 romani a Budapest. I suoi tentativi di rompere il blocco con delle sortite fallirono contro il preciso fuoco di fila e le scariche di mitraglia dei pezzi da 6, 8 e 12 libbre imperiali, mentre la sua cavalleria leggera magiara veniva sbaragliata dai drakonarioi e husarioi del basileus in un imponente scontro di truppe montate nei pressi di Solymár.
Dopo una settimana di fatti d’arme, compreso che i rinforzi da Vienna non sarebbero giunti in tempo, Mack si arrese con 48.000 soldati, 90 cannoni e immense quantità di rifornimenti e vettovaglie predisposte per la campagna balcanica. Fu uno schiaffo devastante al prestigio del kaiser. Franz II, che a maggio aveva proclamato che avrebbe fatto colazione a Belgrado entro l’inizio dell’estate, dovette implorare a sua volta una pace separata quando le prime avanguardie di Napoleone furono avvistate a pochi chilometri dalle mura della sua capitale.
Eliminati due dei suoi più importanti avversari in poco più tre mesi bastarono un paio di missive diplomatiche a far rientrare nei ranghi Olanda e Svezia, che rigettarono l’alleanza con i britannici per ripiegare dentro i loro confini. A questo punto al governo di Sua Maestà George III non rimase che puntare ai soli francesi, peraltro molto più favorevoli a Costantinopoli che a Londra, viste le sempre più diffuse idee illuministe tra la borghesia transalpina.
Napoleone reputò di avere ancora un po’ di tempo prima che arrivasse la brutta stagione, perciò programmò una campagna per assicurarsi almeno la Francia meridionale, in modo da organizzare la mossa definitiva nell’autunno o perfino l’inverno di quello stesso anno. Un capolavoro di logistica permise di passare i valichi alpini ai primi giorni di settembre e, dopo quasi un secolo di dominio francese, tutta la Provenza tornò in mano romana tranne la base di Tolone, che resistette fino a novembre. L’entrata a Marsiglia del basileus fu trionfale, con aquile dorate, striscioni e drappi rosso porpora che vennero esposti alle finestre da una cittadinanza festante, che intonava alternativamente “Vive l’Empereur” e “Ave, Caesar!” quando il cavallo bianco del sovrano avanzò tra due ali di folla in giubilo.
Alla notizia della caduta della città più importante del sud, Parigi insorse contro Louis XVIII, liberò il giovane nipote imprigionato pochi mesi prima da ufficiali inglesi e olandesi e lo ricollocò sul trono a patto che questi concedesse una Costituzione sul modello napoleonico. Louis XVII, poco più che adolescente, accondiscese a quella che si autoproclamò Assemblea Nazionale di tutti i Ceti, in cui erano rappresentati nobili, clero, borghesi e perfino contadini benestanti liberali.
L’Assemblea, guidata dall’aristocratico Charles-Maurice de Talleyrand-Périgord, offrì a Napoleone tutti i territori conquistati dall’Impero Romano nei tre secoli precedenti tra cui buona parte dell’Occitania con Tolosa ricompresa, l’antico Delfinato, Avignone, la Savoia francese e buona parte dell’Alvernia esclusa solo Lione, che rimaneva a Parigi sul confine. Erano condizioni più che vantaggiose e Napoleone fu pronto ad accoglierle, coronando in modo non sanguinoso una stagione bellica impeccabile. Le armi romane non erano risultate tanto celeri e schiaccianti dai tempi d’oro del tardo XV e primo XVI secolo, quando avevano piegato le truppe occidentali nelle guerre d’Italia.
Rimaneva solo la Gran Bretagna che, protetta dalla sua potente marina, abbandonò il continente tranne le basi fortificate di Calais e di Brest, da cui finanziarono il movimento separatista degli chouans e dei bretoni, puntando a mantenere una testa di ponte in Europa in attesa di un ritorno di fiamma di Austria e Russia.
Napoleone, consapevole di essere più debole sui mari e nelle colonie, decise allora di preparare un’invasione anfibia dell’isola partendo dalla Spagna. Per tutto l’inverno del 1801 e l’intero 1802 legname, materiale velico, cannoni ed esperti carpentieri furono concentrati nei cantieri navali di Lisbona, La Coruña e Bilbao. Qui vennero costruite due potentissime ammiraglie di primo rango, la Pantokrator e la Mars Ultor, rispettivamente di 65 e 60 metri, con circa 1.000 uomini di equipaggio ciascuna e dotate la prima di 145 e la seconda di 136 cannoni. Quando vennero varate erano le più potenti navi che avessero mai solcato i mari, superiori in stazza e potenza di fuoco rispetto al miglior vascello britannico, la HMS Victory, che vantava 130 pezzi.
A questi titani del mare Napoleone affiancò altre 10 navi di secondo e terzo rango nuove di zecca e quasi il doppio un po’ più antiquate, oltre che 36 fregate leggere e pesanti di cui una dozzina fresche di cantiere, di ultimissimo modello.
La “Megas Nautikon”, o la “Grande Flotta”, fu pronta solo l’anno successivo, mentre Napoleone supportava i nuovi alleati francesi nella repressione dei movimenti separatisti bretoni e reazionari in Vandea. Questi ultimi innalzavano lo stendardo di Louis XVIII, rifugiatosi a Brest e protetto dalla marina e dai soldati britannici, oltre che dal corpo delle fedelissime guardie reali svizzere e danesi.
La campagna in quelle fredde terre spazzate dai venti dell’Atlantico fu ben diversa dalle sofisticate manovre contro imponenti e ordinati eserciti nemici. I combattenti bretoni e i chouans evitavano gli scontri campali ma approfittavano della superiore conoscenza del terreno per organizzare imboscate, attacchi ai convogli di rifornimenti, uccisioni di ufficiali nei villaggi e gruppetti di soldati in esplorazione nelle campagne.
Una vera e propria guerriglia mordi e fuggi, inusuale ai canoni tradizionali bellici, che Napoleone paragonò nelle sue memorie alle incursioni dei bacaudae durante la crisi dell’Occidente romano più di quattordici secoli prima.
La risposta dell’Assemblée Nationale, in un primo momento conciliante, si inasprì via via che le violenze reciproche si moltiplicavano. Se, all’inizio, la questione vandeana e bretone fu affrontata come mero fenomeno di brigantaggio, da superare attraverso azioni di polizia, nella tarda primavera del 1802 Talleyrand dovette ammettere che i “ribelli” fossero ormai padroni non solo delle campagne, ma anche di centro di rilievo come Nantes e Rennes.
A quel punto, in cambio delle terre cedute a Costantinopoli, venne chiesto al basileus, che in quel momento si trovava a riorganizzare le truppe tra Provenza e Piemonte in modo da tenere sott’occhio gli austriaci nel caso volessero risollevare la testa mentre preparava l’invasione della Gran Bretagna, di sostenere lo sforzo dell’alleato di Parigi.
Napoleone decise di distaccare due legioni, la X e la XIX, per un totale di 26.000 uomini, a cui aggiunse 6.000 cosacchi a cavallo, che si rivelarono terribilmente efficaci nelle operazioni di contro-guerriglia con le loro strategie del terrore. Il loro operato rimarrà tristemente noto nelle memorie di quei luoghi fino ai giorni nostri, una pagina buia che pochi storici hanno avuto il coraggio di approfondire a sufficienza.
Ad ogni modo un’armata vandeana di 40.000 uomini, guidata da François de Charette e Charles de Bonchamps, fu spazzata via sulla Loira nel giugno del 1802, mentre Nantes veniva bombardata da 18o pezzi da campo e da assedio per tredici giorni, fino a che i comandanti delle guarnigione non si arresero per risparmiare ulteriori sofferenze alla popolazione civile. Il comandante romano addetto alle operazioni, Carlo Filangieri, concesse un salvacondotto ai ribelli che abbandonavano la città per dirigersi verso nord.
Purtroppo la parola data dal generale non valeva anche per i francesi agli ordini di François Joseph Westerman, che seguendo la “Direttiva Omega” di Parigi braccarono i fuggiaschi come una muta di cani, seminando la retroguardia dei 6.000 sopravvissuti con centinaia di impiccati, fucilati e perfino annegati.
Un trattamento ben peggiore fu riservato ai villaggi ribelli, in cui Westerman sguinzagliò la soldataglia per incutere paura e sgomento. Inutili furono le proteste formali mosse da Filangeri, a cui venne risposto: “Le questioni tra francesi sono cosa nostra, come le questioni tra romani sono cosa vostra”. Ad ogni modo, dopo quanto visto, il comandante imperiale bloccò le sue truppe e chiese di essere rimosso dall’incarico a Napoleone, che rifiutò le dimissioni ma acconsentì a non impegnare le truppe regolari in quella che si stava diventando in una brutta guerra civile. Concesse, però, l’utilizzo dei reparti cosacchi, che vennero “prestati” a Westerman, che ne fece l’uso cui accennavamo prima. Per i duri uomini giunti dalle steppe dell’Ucraina fu un vero sogno poter scatenare appieno la propria brama di saccheggio, liberi dalla disciplina imposta – seppur a fatica – dai loro precedenti comandanti romani.
Westerman, invece, fu molto chiaro. Cercare, individuare e spazzar via il nemico senza andare troppo per il sottile. Tutto quello che trovavano nei villaggi e nelle cittadine ribelli, o considerate tali, poteva essere preteso come premio di guerra. Lo spaventoso risultato di tali ordini fu il sacco e la distruzione di ben 40 centri e la morte di almeno 10.000 persone.
Napoleone, preso dalla pianificazione della sua campagna anti-inglese, pose poca attenzione alle notizie di quello che reputava un fastidioso problema di non sua pertinenza, in cui si era controvoglia impegnato solo per tener buoni i nuovi alleati francesi, di cui in seguito si proclamerà grande protettore.
Mentre la flotta si andava ad ultimare, il basileus riuscì a chiudere le trattative con l’Austria per una pace definitiva, che vedeva la riconsegna in mani romane di buona parte dell’Ungheria a sud del Danubio, esclusa Budapest, in cui fondò il thema di Pannonia. Franz II dovette, a denti stretti, accettare la situazione, anche perché la Prussia – in quel momento in buoni rapporti con Costantinopoli, stava creando problemi a nord, invadendo i ducati tedeschi di Mecklenburg-Schwerin e di Hessen-Kassel in palese violazione della pace dell’ormai vetusto Sacro Romano Impero della Nazione Germanica.
A questo successo diplomatico si aggiunse una grande soddisfazione personale quando gli giunse notizia che la sua giovanissima moglie, la neanche ventenne Eudoxia, aveva partorito senza problemi il piccolo Napoleone, suo primo figlio e futuro della dinastia.
Ben più spinosa fu la questione russa. Lo tzar Aleksandr aveva desiderio di rivincita e minacciava di ricominciare la guerra per l’Ucraina. L’imperatore, che non voleva allontanarsi dal fronte occidentale, incaricò Giacomo Francesco Pes di Villamarina e Petros Bagrationi di difendere le fortezze di Char’kov e di Černigov, mentre inviava una forza di disturbo nel Caucaso per fomentare la ribellione tra i circassi e i ceceni musulmani contro il dispotismo di San Pietroburgo.
Ben presto le fiamme della rivolta si alzarono a Grozny e Čerkessk, finanziate dall’oro di Costantinopoli e supportate dagli invii di armi, rifornimenti e istruttori militari da Trebisonda e Teodosiopoli. Furioso e frustrato, il sovrano russo dovette dirottare in quell’aspro e difficile teatro sempre più uomini, in una replica orientale, ma molto più vasta in termini di spazi di operazione, di quello che stava contemporaneamente avvenendo in Vandea e Bretagna.
Con la morte nel cuore dovette quindi rinnovare la tregua per un altro anno, ma senza impegnarsi ancora in una pace definitiva. Ma Napoleone stesso aveva piani per rimettere al suo posto l’ambizioso tzar una volta per tutte.
Nella primavera del 1803 era infine tutto pronto, e Napoleone poté concentrare tutta la sua attenzione contro i britannici, che nel frattempo avevano occupato alcune basi in India e diverse isole nei Caraibi e nel Pacifico. Il 3 maggio, al comando del megas droungarios Ioannes Kapodistrias, la magas nautikon prese il mare per intercettare la marina inglese, agli ordini dell’ammiraglio Horatio Nelson.
Questi si fece sotto non lontano da Brest, dove stava facendo base e supporto al sempre più traballante trono di Louis XVIII. La battaglia fu violenta ma, a causa di venti difficili, risultò incerta, con danni ad entrambe le flotte ma nessuna nave catturata o affondata e qualche centinaio tra morti e feriti per parte.
Ad ogni modo Nelson dovette ritirarsi in patria per riparare i suoi vascelli e Kapodistrias poté bombardare con tutto agio la roccaforte anglo-francese con le potentissime unità di primo rango finché Louis XVIII, sconvolto dalla violenza della guerra a cui non era mai stato abituato nella sua vita dorata di privilegiato di corte, intimò al comandante della piazza britannico sir John Moore di cedere le armi, consegnando 5.200 soldati inglesi e 8.600 francesi con immense quantità di munizioni, polvere da sparo di prima scelta, il tesoro reale, opere d’arte provenienti da ogni angolo d’Europa portate via da Parigi e Versailles e quasi tutti gli aristocratici della fazione ribelle, decapitando i vertici della stessa, che dovette deporre le armi nel luglio 1803, stremata anche dalle azioni delle armate di Parigi e dei cosacchi.
La Gran Bretagna, vista la grande disfatta strategica per quanto la sua marina fosse ancora intatta, dovette accettare i termini di una tregua, in vista di una pace generale da trattare in una grande conferenza internazionale da convocare entro la fine dell’anno. Era il trionfo di Napoleone, che era riuscito a piegare quella che passò alla storia come “Prima Coalizione”. Le armi tacevano in tutto il continente. Per ora.
Alberto Massaiu
Leave a reply