I turchi erano stati completamente sconfitti davanti a Larissa, e non si sarebbero più fatti rivedere in Europa. Gli agareni erano stati ricacciati nuovamente indietro, come più di otto secoli prima durante gli assedi arabi del 678 e del 718.
Messo in sicurezza quel fronte, Alexios venne incaricato dell’occupazione e della pacificazione di tutte le terre balcaniche un tempo occupate dagli ottomani. Se, infatti, la comune paura del nemico turco aveva brevemente unito tutti i signori cristiani di Macedonia, Serbia, Tessaglia, Bulgaria e Albania, ora questi non volevano sostituire il dominio del sulṭān di Edirne con quello del basileus di Costantinopoli.
I più importanti leader che emersero in quegli anni travagliati furono Andreas Dušan, lontano parente di quel Ștefan Uroš Dušan che un secolo prima aveva fondato un grande impero serbo che andava dalla Tessaglia fino alla Bosnia, e Theodoros Asen, un aristocratico bulgaro-macedone imparentato con l’antica casata regnante della Bulgaria.
Il primo aveva stabilito la propria capitale a Belgrado, strappata al reggente d’Ungheria János Hunyadi e al precedente despotes di Serbia Đurađ Branković, che aveva fatto avvelenare durante un banchetto. Theodoros, invece, covava propositi regali presso Tarnovo, dove voleva fondare un terzo grande impero bulgaro.
Entrambi i ribelli cercarono di portare dalla loro il più potente e abile comandante militare balcanico, Gjergj Kastrioti, detto Skanderbeg. Questi aveva avuto qualche abboccamento diplomatico con i loro ambasciatori, perciò Alexios decise di portare un’azione intimidatoria nel suo territorio, in modo da guadagnare prestigio alle armi romane e renderlo alleato o vassallo di Costantinopoli.
Per l’azione vennero radunati a Tessalonica 15.000 effettivi tra fanti, cavalieri e persino una decina di pezzi d’artiglieria. Era la più grande armata offensiva radunata dall’impero da oltre un secolo. Alexios, con il titolo di strategos autokrator, la guidò verso Ocrida, che prese nella primavera del 1456.
Ma l’azione risultò troppo precipitosa, rischiando di finire in un disastro. Il 15 aprile il comandante romano subì l’accerchiamento da parte di una forza di 12.000 montanari presso il lago di Prespa e solo con l’ausilio di alcune guide sfuggì alla disfatta. Il condottiero albanese decise però di non approfittare della situazione e, anzi, intavolò subito trattative di pace con l’imperatore Konstantinos.
In maggio fu stabilita una tregua d’armi e tutta la regione passò sotto il protettorato di Costantinopoli dopo che il basileus offrì sua nipote Eirene Palaiologa in sposa a Gjergj Kastrioti. L’accordo a cui giunsero prevedeva che il condottiero albanese si convertisse dal cattolicesimo all’ortodossia e si unisse con i propri uomini alle forze imperiali. In cambio ottenne il titolo di patrikios, di despotes dell’Epiro e strategos, con un potere molto ampio nell’amministrare la sua gente. Nel giro di breve tempo, dopo aver grecizzando il suo nome in Georgios Kastriotas, fondò una delle dinastie di militari più famose e longeve dell’Impero Romano.
Grazie a questo patto le armate imperiali crebbero in numero, morale ed esperienza. Fu un bruttissimo colpo per le forze separatiste di Dušan e Asen, che si videro privati di un potente alleato nella loro ambizione di sbriciolare l’appena rinata autorità romana nei Balcani.
Konstantinos rinnovò alleanza con il reggente di Ungheria, János Hunyadi, che si impegnò a sostenere nella presa di Belgrado contro il nobile serbo. In tal modo liberò le armate imperiali da minacce settentrionali, permettendo loro di concentrare tutta la forza d’urto contro Theodoros Asen, che stava assediando Sofia con 18.000 uomini.
Egli si era fatto incoronare tsar di Bulgaria a Tarnovo, rifondando il patriarcato indipendente bulgaro in spregio all’autorità politica e religiosa di Costantinopoli. Aveva inoltre stretto alleanza con il vojvod di Valacchia Vlad III Dracula, che lo rifornì di derrate alimentari, armi e oro per pagare i mercenari, in cambio della cessione delle fortezze di Nicopoli e Giurgiu, sul Danubio.
Ad ogni modo, incalzato dalla spinta di quasi 25.000 romani e albanesi, Theodoros dovette abbandonare l’assedio di Sofia e ritirarsi verso Preslavia, dove venne raggiunto e sconfitto da Skanderbeg in una battaglia di cavalleria. Nel frattempo Alexios si era spinto con la flotta presso Mesembria, sul Mar Nero, espugnandola con un veloce assalto di sorpresa.
Theodoros tentò il tutto per tutto, chiamando in aiuto sia Vlad di Valacchia che Ștefan di Moldavia, ma entrambi, vista la mala parata del ribelle bulgaro, non vollero rischiare le loro forze in una campagna che appariva persa in partenza. Al contrario approfittarono della debolezza bulgara per appropriarsi di alcune città e fortezze di confine come Chilia, presso la foce del Danubio.
Raggiunto presso Varna, lo tsar bulgaro venne stritolato dalle forze congiunte di Skanderbeg e Alexios Komnenos, che sbaragliarono le forze a lui fedeli in uno scontro in campo aperto. Sopravvissuto alla battaglia, Theodoros cercò rifugio presso il sovrano di Moldavia, dove morì avvelenato dal suo ospite qualche mese dopo.
Konstantinos aveva raggiunto i suoi generali presso Tarnovo, dove il patriarcato bulgaro venne ridotto nuovamente ad un semplice vescovado, sottomesso al patriarca di Costantinopoli. Da là il sovrano avrebbe voluto sfruttare l’abbrivo per riottenere, con la diplomazia o le armi, anche piazzeforti cadute in mani valacche e moldave, oltre che supportare come promesso Hunyadi nella presa di Belgrado.
Purtroppo, questa azione dovette aspettare.
In maggio, infatti, Demetrios Palaiologos, fratello del basileus, si ribellò presso Tessalonica, proclamandosi imperatore. Thomas, fratello minore di entrambi ed eroe della riconquista dell’Attica e della Tessaglia contro i turchi, lo affrontò in battaglia ma venne sconfitto e ucciso presso Beroia. Demetrios, ottenuti denaro e mercenari dai bey turchi dell’Anatolia, marciò verso Costantinopoli, costringendo Konstantinos ad intraprendere una guerra fratricida.
Alexios Komnenos mosse con rapidità contro i ribelli, bloccandoli a pochi chilometri dalle mura della capitale. Demetrios tentò di spostarsi a Gallipoli, dove contava di ottenere aiuti dai turchi, ma venne intercettato nuovamente, questa volta da Georgios Kastriotas e Konstantinos. Le sue truppe vennero sbaragliate e Demetrios catturato. Un paio di settimane dopo venne accecato con dei ferri roventi, in modo che non potesse più ambire al trono. Concluse la sua triste vita in un piccolo monastero della Tessaglia, con il nome di fratello Euthymios, nel 1461.
Il 15 luglio 1456, sostenuto da tutto il popolo, con un editto imperiale l’imperatore riaffermò la Chiesa Ortodossa come religione di Stato, ma mantenne anche dei sacerdoti latini nel caso i mercenari europei, i funzionari stranieri e i mercanti occidentali volessero professare il loro credo.
Il vecchio patriarca filo-unionista Athanasios II venne deposto e sostituito con un acceso ortodosso, Gannadios II Scholarios.
La celebrazione che si svolse ad Aghia Sophia fu un momento di grande festa per tutta la popolazione di Costantinopoli. Il partito filo-unionista, che appoggiava il concilio di Firenze del 1439, si sciolse definitivamente. Nessun berretto rosso da cardinale si sarebbe più visto nella Regina delle Città.
Il Papa Pio II, sgomento, inviò una lettera di protesta, ricordando al basileus il suo atto di sottomissione alla Chiesa di Roma. Konstantinos rispose che essendo lui stesso l’isapostolos, cioè il primo tra gli apostoli, sulla terra era tenuto ad essere sottomesso solo a Cristo e non al vescovo di Roma. Il Papa iniziò quindi a porre le basi per una nuova crociata, contattando il sovrano di Napoli Ferrante I d’Aragona e mandando emissari a Venezia e Genova.
Queste due ultime città furono spinte contro Costantinopoli dallo stesso basileus. Egli, infatti, diminuì gli immensi privilegi commerciali che le due repubbliche vantavano nei confronti dell’Impero Romano e nel 1457 accettò anche l’incorporazione delle isole di Tenedo, Samotracia, Lemno e Lesbo che, vedendo la ripresa della flotta romana, si ribellarono alle città marinare italiane, per tornare sotto la giurisdizione imperiale.
Mentre queste nubi temporalesche si addensavano sul mare, Andreas Dušan, stretta una tregua con Hunyadi, che aveva dovuto abbandonare l’assedio di Belgrado in quanto attaccato da Vlad Dracula in Transilvania, guidò una scorreria in territorio imperiale. All’inizio tutto andò bene. Occupò Nissa e Kosovo con una forza di 7.000 fanti e 5.000 cavalieri e sconfisse un contingente di mercenari cumani posto a difesa di Sofia. Nel maggio dello stesso anno si proclamò basileus dei serbi e dei bulgari, cercando di soffiare nei fuochi separatisti degli slavi danubiani.
Si spinse poi verso la catena montuosa del Rodope, con l’obiettivo di invadere la Macedonia, ma ad attenderlo trovò uno dei futuri grandi comandanti romani: Romanos Doukas, un giovane ufficiale erede di una delle più antiche e nobili casate romane. Con un contingente mercenario di 2.000 balestrieri genovesi, 600 archi lunghi inglesi e 300 cavalieri corazzati ungheresi tese un imboscata alle forze di Dušan, infliggendo loro numerose perdite. Secondo lo storico Georgios Sphrantzes, amico personale dell’imperatore, vi furono tra i serbi 3.000 caduti e 1.000 prigionieri. Il piano dell’ambizioso avversario era miseramente fallito.
Ben presto Romanos fu rafforzato da nuovi continenti di truppe regolari romane e ausiliari albanesi, con cui invase la valle della Morava, riprendendo tutte le città e le fortezze cadute in mano ai serbi. Andreas Dušan cercò rifugio nella sua roccaforte di Belgrado, che ai primi di settembre fu messa sotto assedio. Il 14 dello stesso mese, grazie al tradimento di un gruppo di ufficiali bosniaci, l’armata romana entrò in città.
Lo strategos proibì il saccheggio e distribuì un terzo del tesoro cittadino ai suoi soldati, un terzo lo inviò a Costantinopoli e l’ultimo terzo lo utilizzò per rafforzare e ammodernare la città, trasformandola in una robusta fortezza che potesse controllare la nuova frontiera danubiana dell’Impero Romano, minacciata dalla potente e cattolica Ungheria.
Il cosiddetto basileus dei serbi e dei bulgari venne catturato e inviato in esilio nelle isole dei principi, dove divenne anch’egli monaco fino alla morte, giunta nel 1479.
Nel 1458 l’isola Eubea, controllata dai veneziani, si ribellò e chiese di essere ammessa ai domini dell’imperatore. Konstantinos si prese due settimane per decidere: accettare questa nuova e importante base avrebbe fatto di sicuro scoppiare le ostilità con la repubblica lagunare, ma allo stesso tempo avrebbe permesso il controllo quasi totale dell’Egeo.
Infine, il 9 aprile, l’autokator dei romani decise di appoggiare i cittadini dell’isola. Come risposta gli ambasciatori veneziani abbandonarono Costantinopoli mentre le galee della repubblica iniziarono a mobilitarsi e a razziare le coste della Grecia occidentale e meridionale.
Konstantinos replicò azzerando i privilegi commerciali dei veneziani e sequestrando i beni dei loro mercanti, riempiendo così la tesoreria imperiale. In più autorizzò la guerra di corsa contro Venezia, cosa che fruttò ricche entrate al governo, che furono utilizzate per far rifiatare l’economia e potenziare la marina e l’esercito.
Nell’estate del 1459 si formò un’alleanza tra Venezia, il papato e il regno di Napoli. Secondo gli accordi i primi due avrebbero dovuto fornire la flotta e i finanziamenti necessari alla campagna, mentre gli ultimi l’esercito. La flotta alleata era composta da 54 galee da battaglia e 79 da trasporto. Queste imbarcazioni non erano le piccole fuste turche, ma grandi vascelli a vela con alte murate. Erano ancora troppo superiori alla piccola marina imperiale. L’esercito era formato da 7.500 fanti siciliani, sardi e baleariani, e 3.000 cavalieri corazzati napoletani.
Le discussioni sui piani di operazione e sui finanziamenti necessari fecero slittare di un anno intero la campagna, cosa ben gradita a Konstantinos, che ebbe il tempo di perfezionare le difese e addestrare le sue milizie. Nella primavera del 1460 iniziarono le operazioni con lo sbarco in Albania del contingente napoletano, che pose l’assedio a Durazzo, difesa da 1.500 uomini agli ordini del despotes Georgios Kastriotas.
L’imperatore, nonostante i suoi cinquantasette anni di età, decise di guidare personalmente la controffensiva, lasciando a Costantinopoli Alexios, nominato reggente.
L’armata romana, composta da 10.000 regolari, 2.500 mercenari tartari a cavallo e 4.000 ausiliari albanesi, si apprestò a dare battaglia. Lo scontro fu aspro e sanguinoso, soprattutto al centro della mischia, dove la Guardia Variaga falciava con le lunghe asce i cavalieri napoletani lanciati alla carica. Alla fine il combattimento si concluse in parità, con le due schiere che si ritirarono negli accampamenti esauste e decimate.
Le due forze si fronteggiarono per le successive tre settimane con continue schermaglie, mentre i latini venivano riforniti dalla flotta e gli imperiali da terra. In giugno, a causa del gran caldo, scoppiò un’epidemia nel campo napoletano, che causò molte vittime.
Dopo un’altra settimana Marino Longo, vedendo le condizioni del suo esercito, decise di dare battaglia prima che quest’ultimo si disintegrasse completamente a causa della malattia. Le sue truppe, demoralizzate e indebolite, furono sconfitte definitivamente il 7 luglio. Metà delle forze nemiche rimaste uccisa e l’altra catturata. Ai fanti siciliani e sardi sopravvissuti, in relazione al grande spirito e abilità dimostrato in combattimento, venne offerto di entrare nell’esercito romano. 2.000 di loro accettarono, andando a formare una forza ausiliaria che venne soprannominata stratiotai esperiai.
Tra i prigionieri era presente anche il condottiero italiano Marino Longo, che venne riscattato l’anno dopo per 10.000 ducati d’oro. La flotta alleata, non avendo più un esercito da sostenere, si ritirò a Corfù. Era la vittoria totale dell’autokator dei romani.
Nell’autunno dello stesso anno nacque il secondo figlio di Alexios Komnenos, che fu chiamato Konstantinos, in onore del suo imperatore, amico e mentore.
Questi sentiva oramai il peso degli anni, e l’ultima campagna l’aveva sfibrato. Sapendo di non essere immortale, e soprattutto di non avere figli o parenti prossimi adatti al comando, l’augusto decise di sistemare la pratica della sua successione nel modo che ritenne più opportuno.
In dicembre il basileus associò Alexios alla porpora, nominandolo co-imperatore ed erede. In più lo adottò come figlio, fondando una nuova dinastia. Alexios aggiunse al proprio cognome quello dei Palaiologoi, dando vita alla più fortunata e duratura delle casate nella storia romana.
Alexios, in veste di basileus, decise di ampliare la flotta in modo da poter contrastare le marine dei rivali latini. Aiutato anche dallo sfruttamento del ricco complesso di miniere d’oro e d’argento di Novo Brdo, in Serbia, oltre che a nuovi introiti dovuti all’annullamento di tutti i privilegi commerciali veneziani e genovesi, poté inaugurare per la fine dell’estate del 1461 la nascita della Neon basilikon nautikon, la nuova flotta imperiale.
Furono arruolati migliaia di esperti marinai italiani, romani e turchi. Le nuove navi erano dotate di cannoni leggeri, rostri per speronare le imbarcazioni nemiche, ma soprattutto l’arma segreta romana, il fuoco greco. Vennero varate in pochi anni ben 75 moderne galee e galeazze da battaglia, molte fabbricate da abili maestri d’ascia anconetani, livornesi e triestini.
Il comando di questo gioiello venne affidato all’esperto Loukas Notaras, nominato megas droungarios della flotta.
In quanto all’esercito terrestre, Alexios si ispirò ai vecchi trattati militari dei suoi avi e riesumò i nomi delle antiche legioni: queste prime unità, composte ognuna da 5.000 soldati a piedi e a cavallo che provenivano da un determinato territorio, furono battezzate I Legio Tracica, II Legio Macedonica e la III Legio Tessala. I restanti soldati, ancora non inquadrabili in legioni, vennero divisi in reggimenti ausiliari di albanesi, bulgari, serbi e turchi, a cui si aggiungeva il corpo scelto degli stratiotai esperiai e i due reggimenti della Guardia Imperiale, i variaghi e le scholai catafratte.
I finanziamenti furono utilizzati anche nel campo civile. Venne infatti iniziata la ristrutturazione del grande ippodromo, di alcune parti cedenti di Aghia Sophia e dell’acquedotto di Valente. Quest’ultimo era fondamentale per lo sviluppo della città e per la sua sicurezza in caso di assedi.
Alexios e Konstantinos si mossero giusto in tempo, infatti nuove nubi si addensavano all’orizzonte. Costantinopoli, nonostante la vittoria del 1460, non aveva ancora ricevuto alcun ambasciatore per trattare la pace con i suoi nemici. Formalmente era ancora in guerra con i suoi tre rivali occidentali, che si stavano leccando le ferite e allestivano nuovi piani d’invasione, bramando territori ad oriente.
Ferrante, una volta sconfitta la fazione angioina che aveva tentato di soffiargli il trono dopo la disfatta in Albania, si fece di nuovo sotto nel 1462, ottenendo l’appoggio navale di Venezia e quello finanziario genovese, fiorentino e papale. Ormai era chiaro che il loro obiettivo era quello di occupare l’intera Grecia continentale, se non tutto l’Impero Romano, per poi spartirlo tra loro come due secoli e mezzo prima. Ma avevano sbagliato i loro biechi calcoli, infatti una tempesta e un’epidemia scoppiata nel campo alleato a Messina rallentò la partenza dell’armata e della flotta, lasciando ai romani campo libero.
Marzo e aprile passarono velocemente mentre le galee da guerra della neon nautikon, con una serie di attacchi navali e sbarchi di thalassatoxotai, occuparono Chio, Andros, Paros, Naxos e la altre piccole isole dell’Egeo ancora sotto il dominio occidentale.
Le uniche basi orientali rimaste in mani latine erano l’isola di Rodi, controllata dall’Ordine dei Cavalieri di San Giovanni e Creta, protetta da una robusta guarnigione veneziana, che fu tuttavia messa sotto assedio. I cavalieri di Rodi preferirono un trattato che manteneva la loro neutralità e indipendenza in cambio di un accordo di mutua protezione con l’Impero Romano.
Solo nella primavera del 1463 gli alleati riuscirono ad abbandonare la Sicilia e mossero all’attacco.
L’armata napoletana, rafforzata da milizie veneziane e papaline, sbarcò di nuovo a Durazzo il 28 marzo, ricalcando le orme della precedente invasione. Questa volta, però, le truppe italiane videro in diretta, pochi giorni dopo, la completa distruzione della flotta che li aveva trasportati per tutto il viaggio. Infatti le galee da battaglia della neon nautikon, distaccate dalla flotta che stava stringendo Creta in una morsa, avevano attaccato di sorpresa il naviglio nemico, seminando morte e distruzione. Magistrale fu l’intuizione di Loukas Notaras, che mosse contro i vascelli veneziani quando quasi tutti gli equipaggi erano scesi a terra per il rancio, lasciando incautamente indifese le imbarcazioni.
Il 4 aprile agli alleati rimanevano solo poche carcasse fumanti, bruciacchiate dal fuoco greco e squarciate dalle cannonate.
Durazzo era di nuovo difesa da Georgios Kastriotas, che aveva trasformato la città in una rocca inespugnabile, difesa da 4.000 forti e motivati veterani albanesi.
I 17.000 latini, comandati dallo stesso sovrano Ferrante e dal suo braccio destro Marino Longo, riscattato tre anni prima, fecero un timido tentativo d’assedio ma, constatata la solidità delle posizioni imperiali e senza più rifornimenti, avevano abbandonarono ben presto l’idea.
Avanzarono quindi verso Tessalonica, dov’era accampato l’esercito romano, sperando di vincere una battaglia campale con esito decisivo. Il 22 aprile, le truppe latine si trovarono sbarrato il passo da tre legioni al completo presso Edessa, in Macedonia. Non potevano neanche manovrare, visto che alle loro spalle c’era Georgios Kastriotas che, liberato dall’assedio, stava arruolando un’altra armata di 8.000 albanesi.
Lo scontro era inevitabile. Questo perdurò, lungo ed incerto, per quattro ore. Le nuove legioni conobbero così il loro battesimo del sangue, comportandosi molto bene. I sardi e i siciliani del reggimento ausiliario respinsero due poderose cariche dei cavalieri napoletani di Longo. Alla fine fu una carica delle scholai, guidata da Alexios contro il fianco destro avversario, che portò al collasso l’intera armata nemica. La fuga che seguì fu disordinata e disorganizzata, a causa del tallonamento da parte degli arcieri a cavallo romani.
I resti delle forze latine non ebbero miglior fortuna, in quanto furono catturate o massacrate nei giorni seguenti dagli uomini di Skanderbeg nelle forre montane tra Tessaglia, Macedonia e Albania.
Il 28 maggio, dopo quasi due mesi d’assedio, cadde Candia, capoluogo veneziano di Creta. Tra giugno e agosto vennero prese le isole ionie e la roccaforte di Corfù, facendo perdere così tutti i territori veneziani e genovesi in oriente.
Il conflitto, però, continuò: Ferrante, riparato in Puglia, stava armando nuove truppe e radunando una piccola flotta. Per questo motivo a fine agosto, nonostante la stagione avanzata, i romani sbarcarono per la prima volta dopo tre secoli nella penisola italiana.
All’azione non partecipò Georgios Kastriotas, che chiese all’imperatore di non costringerlo a combattere in una guerra offensiva contro coloro che, negli anni precedenti, lo avevano sostenuto nel conflitto con i turchi. Konstantinos capì lo stato d’animo del fiero condottiero e lo congedò quindi dalla campagna, inviandolo a presidiare il fronte danubiano.
Il 26 settembre la città di Bari cadde nelle mani di Romanos Doukas, che la presidiò con una robusta guarnigione e respinse le controffensive del re di Napoli. La presa di questa specifica città fu molto significativa per Costantinopoli. Era stata infatti l’ultima roccaforte italiana ad essere perduta nel lontano 1071, e ora era la prima a tornare in possesso dell’Impero Romano.
I contendenti vennero così a una tregua e furono intavolate trattative di pace nell’ottobre del 1462. L’accordo che si raggiunse con il trattato di Tessalonica era una netta vittoria diplomatica, militare e morale per il basileus. I napoletani dovettero pagare una forte indennità di guerra e cedere il tacco dello stivale, da Bari fino a Leuca, mantenendo il possesso della sola Taranto. In quanto a Venezia e Genova dovettero rinunciare a tutte le loro basi commerciali nell’Egeo e nello Ionio.
In più, Venezia dovette accondiscendere al protettorato dell’Impero Romano sulla ricca repubblica dalmata di Ragusa. In cambio, l’imperatore permise ai veneziani e ai genovesi di ristabilire delle piccole comunità di mercanti e sedi consolari a Costantinopoli, Candia e Tessalonica, seppur con appena un decimo dei privilegi e delle esenzioni doganali di un tempo.
Nel 1463, a sessant’anni, moriva Konstantinos XI Dragases Palaiologos.
L’augusto che aveva salvato l’impero nel momento della sua massima crisi trapassò in pace, durante la notte. I servitori che lo trovarono la mattina dopo affermarono che la sua espressione era tranquilla e rilassata, pienamente soddisfatta. Di sicuro non aveva nulla di cui rimproverarsi: lasciava infatti uno Stato solido e rinvigorito ad un ottimo successore.
Alexios salì al trono la mattina del 15 Aprile del 1463 con il titolo di Alexios VI Komnenos Palaiologos. In seguito, per le sue conquiste e le sue riforme, si guadagnerà il titolo di “megas”, ovvero “il grande“.
Il nuovo sovrano non stette con le mani in mano. Impiegò tutto il 1463 e il 1464 nell’affermare la sua autorità, ottenendo l’appoggio delle potenti famiglie dei Doukai, degli Angeloi, dei Phokai e dei Kantakouzenoi, anche grazie al sostegno del nuovo strategos autokrator Georgios Kastriotas, suo compagno d’armi fin dal 1456, che gli assicurò il pieno controllo di tutte le terre recentemente conquistate.
L’alleanza con le importanti casate romane fu gestita molto bene dal nuovo basileus, che fece fidanzare nel 1468 il primogenito Basileios con Theophanos Doukas, e, nel 1474, il secondogenito Konstantinos con Sophia Phokas.
Godendo quindi di un periodo di relativa pace, Alexios si dedicò alla ristrutturazione amministrativa delle province, che vennero riorganizzate, come nei tempi antichi, nei themata. Ne vennero istituiti otto: Tracia, Macedonia, Grecia, Morea, Bulgaria, Serbia Superiore, Serbia Inferiore ed Epiro.
In più fu istituito un comando speciale per l’amministrazione delle isole dell’Egeo con sede a Creta. Qui fu stanziata una base avanzata della neon nautikon, con una forza di 40 galee da battaglia e 1.500 thalassatoxotai. In più, secondo il loro patto di vassallaggio, i cavalieri di Rodi fornirono un contingente di 30 cavalieri e 90 sergenti che doveva prestare servizio a Candia.
Nella penisola italiana venne istituito un principato vassallo di Costantinopoli, con a capo Romanos Doukas, il generale distintosi nella guerra contro Andreas Dušan e conquistatore del Salento. A questi venne assegnato il titolo di prinkeps di Bari.
Furono accolti coloni dall’Italia meridionale, dalle regioni di lingua greca dell’Asia Minore e dalle regioni danubiane slavo-ortodosse per ripopolare i campi, che furono coltivati con metodi moderni importati dall’occidente, in modo da potenziare l’agricoltura e l’allevamento. Le ricche miniere d’oro furono ampliate e migliorate per aumentare la quantità di denaro nei forzieri statali. Era da moltissimo tempo che la pace non regnava così incontrastata nei Balcani e la prosperità aumentò di anno in anno.
Nel 1465 l’economia era diventata sufficientemente florida per permettere al basileus di coniare di nuovo l’hyperperion, moneta che i latini storpiarono ben presto in “bisante”, indicando la sua provenienza dalle zecche di Costantinopoli, l’antica Bisanzio. Ne fece produrre di due tipi: quello d’oro e quello d’argento, entrambi con una percentuale di metallo prezioso così alta che ne fece presto la valuta più ricercata e sicura di tutta l’Europa.
L’hyperperion o bisante fatto battere da Alexios aveva la sua effige circondata dal proprio monogramma da un lato e l’aquila bicipite dall’altra, con inciso il motto dell’Impero Romano: “Basileus Basileon, Basileuon Basileuonton” ovvero “Re dei Re, Regnante dei Regnanti”.
Le uniche noie in quel periodo vennero dal nord. Qui, come abbiamo precedentemente scritto, regnava il turbolento e astuto vojvod della Valacchia, Vlad III Dracula. Governante severo ma giusto con i sudditi, implacabile con i nemici, coraggioso in battaglia e buon stratega, era sempre stato in conflitto contro i vicini cattolici di Transilvania e Ungheria a nord. Schieratosi inizialmente in favore dei romani nella guerra contro i turchi a cavallo del triennio 1453-56, aveva poi approfittato della guerra contro Theodoros Asen per occupare delle fortezze bulgare che sarebbero spettate all’impero.
Durante l’invasione napoletana del 1462, mentre la maggior parte delle truppe romane erano impegnate in Macedonia e Albania, aveva invaso la Bulgaria, prendendo Tarnovo e Pleven, puntando poi a Sofia. Contro di lui era stato inviato Georgios Kastriotas, che non aveva partecipato alla guerra nell’Egeo o all’invasione della Puglia.
Dopo le prime schermaglie, con cui rese sicura Sofia, Skanderbeg ricevette 7.000 uomini di rincalzo, per metà arcieri turchi a cavallo e per il resto un misto di albanesi, serbi e bulgari veterani delle recenti campagne. Nella primavera del 1463 diede battaglia a Vlad, che non arretrò. Il vojvod si dimostrò un comandante di talento, e respinse tre volte i romani, ma infine, viste le dure perdite tra la sua cavalleria boiarda, si ritirò.
Georgios Kastriotas lo inseguì, ma fu sempre più ammirato dall’abilità dell’avversario, che gli sfuggiva e lo attaccava quando meno se lo aspettava. In più tra i due condottieri, che insieme avevano affrontato il pericolo ottomano, non poteva che crearsi una sorta di rispetto e di ammirazione reciproca. Il nuovo imperatore Alexios, dopo il suo insediamento a metà maggio di quell’anno, era però pronto a mobilitare le sue forze, e una legione fu portata oltre il Danubio ai suoi diretti comandi.
A luglio cadde Targoviste, ma la resistenza di Vlad e i monti dei Carpazi resero impossibile una netta vittoria. Alla fine il basileus capì che il principe valacco sarebbe stato più utile da alleato che da suddito, perciò vennero intavolate trattative di pace.
Vlad avrebbe protetto i confini danubiani dell’Impero Romano, in cambio la sua famiglia avrebbe ottenuto la cittadinanza romana e lui acquisì il titolo di patrikios – già concesso a Skanderbeg, che divenne pian piano il titolo onorifico più comune per onorare i nobili stranieri alleati di Costantinopoli – e di prinkeps della Valacchia. Questa terra ottenne a sua volta la protezione di Costantinopoli e fu organizzato un sistema di difesa congiunto nel caso di minacce provenienti delle cattoliche Ungheria, Transilvania e Polonia, oppure di eventuali infiltrazioni tartare dalle steppe ucraine.
Un’intesa simile venne proposta a Ștefan di Moldavia, che accettò un accordo di mutuo soccorso in caso di attacchi da parte dei polacchi o dei tartari della Crimea. Nel 1465, a suggello di questi patti, Alexios ottenne con la diplomazia le fortezze strategiche di Nicopoli, Giurgiu e Chilia, che negli anni precedenti erano stato motivo di rivendicazioni incrociate nella regione. In cambio il basileus si impegnò a versare ad entrambi i nuovi alleati un tributo di 2.500 hyperperion d’oro per cinque anni, in modo da finanziare nuove fortezze da innalzare contro le possibili linee di invasione dei comuni nemici.
Grazie a questa saggia politica Alexios si era guadagnato due fedeli Stati cuscinetto sul fronte del Danubio, che gli lasciarono le mani libere nel mobilitare tutte le sue forze, nel tentativo di riappropriarsi delle perdute province asiatiche.
Alberto Massaiu
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