L’Impero Romano cresceva ogni giorno in forza e prosperità, anche perché Alexios per diversi anni non ebbe noie con i suoi vicini, limitandosi a svolgere campagne limitate a contenere le scorrerie di bande turche in Anatolia, evitando la nascita di un solo Stato che si ispirasse all’antico potentato ottomano.
Questa situazione di benessere attraeva avventurieri in cerca di fortuna di ogni tipo, specialmente dall’Europa occidentale. La fama di mecenate del basileus, oltre che di appassionato di tutto ciò che era latino, era paragonata a quella dei tempi del grande Manouel I Komnenos, suo lontano antenato, che aveva persino organizzato – partecipando di persona – dei tornei cavallereschi a Costantinopoli.
Nel 1482 giunse in città un uomo che avrebbe cambiato i destini non solo dell’impero, ma del mondo intero. Nell’estate approdò a Galata, nel quartiere storico genovese, un marinaio con un progetto ambizioso e rivoluzionario: Cristoforo Colombo.
Questi aveva un piano per raggiungere le Indie evitando la circumnavigazione dell’Africa o le carovane continentali che tagliavano le steppe siberiane o gli altopiani e i deserti asiatici, infestati da predoni e bestie selvagge di ogni sorta. La sua teoria presupponeva la navigazione verso occidente, fino a raggiungere il Cipango e il Catai, terre lontane piene d’innumerevoli opportunità da sfruttare.
La sua lunga esperienza da navigatore, gli studi di carte geografiche, libri e documentazione nelle migliori università e coorporazioni di mercanti lo aveva convinto che, al di là delle Azzorre portoghesi, ci fosse altra terra e nello specifico questi immaginifici regni raccontati dal veneziano Marco Polo. Le sue ipotesi erano state bocciate alla corte del Portogallo, in quella di Castiglia e persino dalle assemblee oligarchiche di Genova e Venezia. Scoraggiato, Colombo aveva deciso di viaggiare ancora più ad est, puntando al basileus di Costantinopoli.
Il 29 novembre il genovese fu interrogato da una commissione composta da prelati, membri dell’amministrazione ed eruditi della capitale. Questi, dopo cinque ore di duro e aspro dibattito, conclusero che non ci fossero sufficienti ragioni per finanziare un viaggio del genere, nel quale le incognite non controbilanciavano le spese, che in quel periodo erano già troppe.
Colombo non si arrese e, grazie all’intercessione di due toscani che si stavano occupando della ristrutturazione del palazzo imperiale, Sandro Botticelli e Giuliano da Sangallo, ottenne un colloquio privato con l’imperatore in persona. Nella notte del 21 dicembre, dopo un’appassionata discussione, riuscì a portarlo dalla sua parte. I due parlarono fino a notte fonda e l’indomani tutto era deciso. Il basileus, affascinato dalle prospettive di un tale viaggio, finanziò una spedizione di cinque navi con a capo Colombo. I loro nomi diventeranno immortali: la Basilinna, la Aghios Georgios, la Theotókos Odigitria, la Helpìs e la Erinys.
Questa partì da Costantinopoli il 15 maggio del 1483, e fece vela verso Gibilterra.
Dopo quasi due mesi, versi i primi di agosto, la piccola flotta sbarcò nel regno arabo di Granada che, in cambio di un tributo di 10.000 hyperperion aurei e un trattato di alleanza e sostegno militare contro gli aggressivi sovrani iberici di Aragona e Castiglia, Ferrando e Isabel, rifornì e accolse la flotta prima che intraprendesse la parte più difficoltosa dell’audace impresa.
Colombo fece salpare le ancore due settimane dopo e, dopo un lungo ed estenuante viaggio, sbarcò finalmente in una terra sconosciuta. Era il 12 ottobre del 1483, e l’isola venne battezzata dal navigatore col nome di Nuova Creta.
Approntata una base sicura, il genovese iniziò ad esplorare le varie isole di un immenso arcipelago ed infine sbarcò sulla terraferma, dove entrò in contatto con un fiorente e potente popolo, i mexihcah. Con loro furono instaurati rapporti pacifici, aiutati dal fatto che ben presto i romani compresero di essere considerati dai locali quasi come delle divinità.
L’aspetto più importante fu la scoperta di immense quantità di oro, gioielli di pregevolissima fattura, nuove colture e beni che ben presto verranno commerciati in tutta Europa attraverso le compagnie di commercio imperiali.
Colombo tornò a Nuova Creta, dove fondò un piccolo insediamento con un porto d’attracco sicuro, una cappella e una piccola fortezza equipaggiata con 5 cannoni e una guarnigione di 40 uomini. Questo centro, che entro una ventina anni crescerà fino a raggiungere i 20.000 abitanti, venne battezzato Alessiopoli, in onore del finanziatore e protettore dell’impresa.
Subito dopo l’esploratore riprese la via del ritorno con beni di ogni tipo e alcuni indigeni, giungendo in trionfo a Costantinopoli con la sua ammiraglia, la Basilinna, e le navi di supporto Helpìs ed Erinys. L’entusiasmo per la scoperta fu immenso, celebrato ai quattro angoli dell’intero Impero Romano.
Azzittita la voce di tutti gli scettici a corte, una flotta ancora più grande venne approntata per il 1485.
Una nuova flotta fu approntata per il 1485: 12 navi con alte murate e totalmente a vela, progettate da maestri d’ascia inglesi e portoghesi per navigare nelle perigliose acque oceaniche, che portavano a bordo ben 1.200 uomini tra marinai, soldati, studiosi, geografi, interpreti, ambasciatori e sacerdoti.
Al comando c’erano Colombo e Basileios, primogenito di Alexios ed erede al trono. La sua presenza era necessaria per trattare con Muhammad XII, sovrano di Granada, affinché questi cedesse una base navale all’impero, in modo da avere una centro di commercio sicuro con le terre d’oltreoceano. L’accordo venne raggiunto nell’arco di un mese, con la firma del trattato dell’Alhambra, che garantiva l’intervento militare romano in caso d’invasione militare del regno di Granada da parte di castigliani o aragonesi, oltre che un tributo di 500 hyperperion annui per la concessione esclusiva della città di Gibilterra agli imperiali per dieci anni.
La spedizione non ebbe problemi a raggiungere di nuovo la meta, e rimase ad esplorare le nuove terre per più di un anno, comprendendo infine che si era scoperto un vero e proprio nuovo continente, che venne battezzato Colombia Basilika.
Il secondo viaggio si incentrò sull’esplorazione, lo scambio di doni, lo studio della cultura indigena e la stipula di trattati di commercio e alleanza con il più potente sovrano locale, Tízoc, il tlatoani dei mexihcah. Nell’aprile del 1486 Basileios venne a sapere di un altro grande popolo il cui dominio si estendeva molto più a sud, in una regione chiamata Perù.
Mentre l’erede al trono dei Cesari, che per il suo spirito avventuroso verrà soprannominato nautes, ovvero il navigatore, scopriva la grande catena delle Ande, Colombo si occupò di gettare le basi degli insediamenti marittimi di Nuova Atene e Colonia Augusta.
Maggiori informazioni su questi favolosi avvenimenti sono stati trattati, da altri autori ben più preparati di me. Alcuni, come Ludovico Italico nella sua Historia Colombiana (1496-1498), sono pieni di aneddoti fantasiosi, riportati nei primi viaggi in quel mondo sconosciuto. Altri, come gli stupendi lavori di Ioannes Kantakouzenos con la sua Istoria tou neou Epeirou (1501-1505) o di Mehmet di Antiochia con Istoria tes Kolombies (1515-1521), sono molto più affidabili e si fondano sui resoconti ufficiali dei governatori, ufficiali e burocrati che hanno prestato servizio in quei lidi lontani, perciò risultano scevri da romantiche fantasticherie.
Per la fine dell’anno Colombo e Basileios erano di nuovo a Costantinopoli e con loro un fiume d’oro, argento, pietre preziose, materie prime, nuove colture come tabacco, patate e cacao, oltre che un reggimento d’onore di 500 guerrieri fornito dal sovrano mexihcah, in segno di alleanza.
La notte di natale dell’anno domini 1486 l’imperatore Alexios assistette ad una solenne messa ad Aghia Sophia con al posto d’onore i primi delegati dei popoli del nuovo continente. La cerimonia fu così solenne e il tempio tanto maestoso che i dignitari credettero di essere al cospetto del più potente degli dei. Il giorno dopo ricevettero il battesimo e tornarono in Colombia come predicatori della fede cristiana.
Negli anni successivi, anche grazie all’entusiasmo di questi ultimi, i sovrani e i signori della guerra della Colombia richiesero l’invio di sacerdoti e studiosi – oltre che di militari, ma su questo punto il basileus fu sempre saggiamente parco – per confrontarsi con le genti venute dal grande oceano. Questo approccio pacifico, in netto contrasto con le attitudini predatorie che dimostreranno i futuri esploratori giunti da altre nazioni europee, garantì il predominio romano su quest’area del mondo nei decisivi decenni che verranno.
Parlando proprio di questo, nel 1487, comprendendo di aver commesso un terribile sbaglio nello snobbare le idee del navigatore genovese, i regnanti di Aragona e Castiglia tentarono di sabotare quella che stava iniziando a venir chiamata “La via per la Colombia”. Stretta un’alleanza con il Portogallo, bloccarono con le loro tre potenti flotte lo stretto di Gibilterra, muovendo guerra all’unico alleato locale di Costantinopoli, il debole Muhammad XII di Granada.
L’assedio di Gibilterra stessa, difesa da 500 ausiliari armeni e moldavi, oltre che la requisizione di tre navi mercantili imperiali, fece maturare nel basileus il convincimento a rompere la ventennale pace in cui aveva preservato il popolo romano. Venne mobilitato il meglio della flotta imperiale, alla cui guida venne posto il figlio Basileios, affiancato dall’esperienza di Cristoforo Colombo e del grande comandante Leon Phokas.
Nonostante la stagione fosse molto avanzata, era la fine di settembre, la spedizione di soccorso intercettò e distrusse una parte del naviglio portoghese, oltre che liberare Gibilterra e prendere Ceuta e Tangeri, di recentemente conquistate da questi ultimi al sulṭān del Marocco. Il Portogallo, già tiepido rispetto all’alleanza con il vicino castigliano, di cui temeva le mire di conquista, chiese subito la pace, in cambio del diritto di commerciare con le basi imperiali sul nuovo continente.
Basileios, dotato di poteri assoluti in quanto strategos autokrator, accettò al volo la proposta, riducendo il fronte nemico da tre a due avversari, mentre incaricava Leon Phokas di proteggere il debole alleato granadino. Ferrando, re in Aragona e marito della regina di Castiglia Isabel, aveva infatti invaso il paese con 25.000 fanti e 9.000 cavalieri.
L’armata romana era composta dalla VII Legio Ulpia Traiana, alcuni reggimenti ausiliari tra cui 2.000 arcieri turchi a cavallo e 500 cavalieri pesanti georgiani, 1.000 fanti di marina equipaggiati con archibugi e 15 cannoni leggeri. In tutto 13.000 uomini, supportati da 24.000 musulmani andalusi al comando del sovrano di Granada.
Lo scontro ebbe luogo davanti alle mura della splendida capitale di Muhammad. Dopo la prima mezz’ora i romani sbaragliarono facilmente il fianco destro spagnolo, ma quello sinistro mise in rotta i poco motivati alleati granadini, che fuggirono in massa anticipati a diverse lunghezze dal loro signore. La battaglia sembrava segnata, ma non per Leon. Questi fece infatti ruotare la sua legione, schierandola contro il centro e il fianco sinistro iberico, mentre gli ausiliari completavano la disfatta del fianco destro.
I fanti di marina, schierati proprio nel punto che congiungeva le truppe imperiali con quelle musulmane, dovettero affrontare il primo urto dell’ala nemica vittoriosa. Dimostrando una ferrea disciplina, con il fuoco dei loro archibugi e il sostegno dei cannoni caricati a mitraglia, aprirono enormi varchi tra le compatte formazioni nemiche, che furono infine messe in rotta dalla carica del reggimento di kataphraktoi legionari.
Ferrando non poté far altro che ordinare la ritirata, ma venne tallonato dappresso dagli arcieri a cavallo romani e ausiliari, che misero in rotta totale le sue forze, catturando 5.000 iberici.
Giunto a Siviglia con poche migliaia di sopravvissuti demoralizzati, venne stretto d’assedio e capitolò il 22 dicembre. Mentre veniva portato in cattività a Granada, dove venne in seguito raggiunto dalla moglie Isabel per trattare una pace e un riscatto onorevoli, gli venne comunicato che il napoletano, retto dai cugini del ramo italiano della famiglia, era stato invaso da 25.000 soldati imperiali.
Alla fine dell’anno il sovrano venne riscattato per una somma di 50.000 reali aragonesi, la cessione di Siviglia ma soprattutto il riconoscimento del vassallaggio del meridione italiano – tranne la Sicilia – rispetto all’impero, mediante l’abdicazione del re Ferrante e l’investitura, avvenuta a Costantinopoli nella primavera del 1488, del figlio Alfonso come exarchon di Napoli.
Il 24 dicembre, alla vigilia di Natale, Leon Phokas depose Muhammad XII, che “abdicò” in favore di Alexios, ricavando in cambio una serie di vaste tenute in Morea. La parte più a sud della penisola iberica venne così incorporata nell’Impero Romano come thema dell’Andalusia.
Ora i commerci erano definitivamente al sicuro. I portoghesi, consci del potere appena giunto nella penisola, strinsero un’alleanza con il basileus, per godere almeno di una piccola parte degli immensi profitti degli scambi con la Colombia. La Castiglia, invece, iniziò una politica di guerra di corsa indiretta, cercando di sabotare il naviglio commerciale romano. Le loro basi, però, vennero attaccate e messe a fuoco grazie ad una decisa azione di polizia marittima imperiale e, come vedremo in seguito, il futura Stato spagnolo – che unirà le corone di Castiglia e Aragona – verrà messo ben presto sulla totale difensiva.
Vista le nuove conquiste, Alexios decise di riorganizzare l’amministrazione dei propri territori e della burocrazia atta a governarli. Per ridurre il concentramento di poteri in una sola persona, vennero istituiti due comandi separati nelle province: quello civile, affidato al praetor o archon e quello militare, assegnato allo strategos o magister militum. I più elevati tra loro, veri e propri comandanti supremi di ampie aree strategiche, erano il magister militum per occidentem, con base a Sofia, il magister militum per orientem con base ad Antiochia e infine il magister militum praesentalis, terzo grado più importante nell’esercito dopo il megas domestikos, il comandante della Guardia Imperiale, e il basileus stesso.
Per quanto riguardava l’alta burocrazia assunse un ruolo di primo piano il megas logothetes o magister officiorum, che divenne il vero e proprio primo ministro del sovrano. La carica venne ricoperta in quegli anni da Axuch, un turco convertito molto competente e fedele. Vi era poi il logothetes ton oikeiakon, che svolgeva il ruolo di capo degli affari interni, della sicurezza di Costantinopoli e dell’economia della capitale. Il titolo era simile a quello del cancelliere o del gran ciambellano nei paesi latini, una sorta di ministro e consigliere privato del sovrano. Questa carica verrà rivestita dall’italiano Leonardo da Vinci dal 1490 al 1516.
Venne inoltre rispolverato il vecchio grado dell’exarchon, in principio come il governatore generale delle colonie colombiane, in seguito applicati per diversi signori italiani che giurarono fedeltà all’impero. L’exarchon aveva poteri sia amministrativi che militari, unica eccezione rispetto alla normale suddivisione di potere tra i due rami che caratterizzava i themata. Questa soluzione temporanea venne adottata per alcuni territori di recente conquista o per non far sentire totalmente svuotati dei propri antichi privilegi e prerogative i sovrani o i signori di aree strategiche. Vedremo bene più avanti.
Infine, per migliorare l’economia, fu stabilito il monopolio statale sulle nuove risorse colombiane come tabacco, patate, cacao, oro, argento, pietre preziose e altri prodotti. L’utilizzo della patata in agricoltura portò ad un sostanziale incremento di produzione anche in zone non molto fertili, diminuendo i rischi di carestia tra la popolazione più indigente.
Questo grande benessere e stabilità fece nascere nel sovrano nuove idee di conquista. Nella primavera del 1488 Alexios decise di riprendere possesso del resto dell’Anatolia ancora occupata dai turchi. Negli ultimi vent’anni era stata mantenuta la pace, anche perché il basileus aveva alternato diplomazia, corruzione e deterrente militare per far combattere i signori musulmani della regione tra di loro, creando dei potentati vassalli ai confini dei themata e intervenendo con le truppe solo quando sembrava spuntare un leader capace di infastidire il predominio romano sulla parte occidentale e meridionale della regione.
Ora, però, l’imperatore voleva riportare sotto il suo controllo anche il cuore dell’Anatolia, in modo da creare una frontiera più razionale che avesse come confini naturali i monti del Caucaso al nord e del Tauro a sud. Perciò venne progettata una grande offensiva che sarebbe stata diretta contro gli emirati di Ankara, Iconio e Cesarea.
L’impresa, in principio, venne giudicata conseguibile con le sole forze di Leon Phokas, tornato di recente carico di onore dalla Spagna e nominato, per meriti sul campo, magister militum per orientem. 12.000 legionari più 5.000 ausiliari muovevano da Antiochia mentre un’altra legione venne spedita insieme a 1.000 thalassatoxotai e 4.000 ausiliari da Nicea agli ordini di Mikhael Doukas, figlio di quel Romanos Doukas che aveva combattuto con onore trent’anni prima nei Balcani e in Italia.
L’inizio della campagna fu coronata da una serie di successi esaltanti. Le forze militari turche erano impreparate alla guerra e già in aprile Ankara cadde nelle mani di Mikhael, mentre a fine mese anche Cesarea venne conquistata con una coraggiosa manovra da parte di Leon. Le forze dei due comandanti, ricongiuntesi negli altopiani anatolici, puntarono verso Iconio. La città era il simbolo dell’antico sultanato di Rum, il primo insediamento turco nella regione, caduto ben quattro secoli addietro in mani musulmane e mai più recuperato.
L’amīr di Karaman accettò una resa onorevole, in cambio del rispetto dei beni dei musulmani, e Leon e Mikhael, seguendo le direttive del basileus, che aveva stabilito una strategia di potenza militare da un lato e di accomodamento politico dall’altro, accettarono. In giugno i due generali entrarono all’interno di Iconio alla testa di 20.000 soldati, la moschea più importante venne convertita nella chiesa di Aghia Eirene e lo stendardo imperiale sventolò di nuovo sulle mura con fierezza.
Le perdite romane erano state di poco rilievo, tranne la morte di Ioannes Kastriotas, figlio primogenito di Skanderbeg, perito per una caduta di cavallo accidentale durante l’attraversamento di un passo montano durante le operazioni presso Ankara.
Questo successo troppo repentino, che alterava in maniera significativa gli equilibri della regione, mise però in allarme tutti i restanti potentati musulmani della regione. Nell’arco di poche settimane gli altri amīr e bey di Anatolia formarono una possente coalizione, che comprendeva i signori di Candar, Canik, Eretna, Dulkadir e Ak Koyunlu. Le cronache dell’epoca danno cifre che vanno da 100.000 fino all’iperbolica vetta di 400.000 uomini, ma noi pensiamo che la stima corretta si aggiri intorno ai 50-60.000 guerrieri al massimo. Ma il pericolo che rappresentavano era molto grande, tanto da mettere in gioco non solo le recenti conquiste, ma anche l’esistenza dei themata orientali.
Il comandante supremo dell’armata, il signore delle città di Sivas e Amasya Othman, si spacciava per lontano parente degli ultimi dinasti ottomani, affermando di discendere da una concubina di Murad II, padre di quel Mehmet che aveva tentato l’ultimo assedio di Costantinopoli nel 1453. Al di là della veridicità o meno delle voci fatte da lui circolare egli era riuscito a coagulare intorno a sé tutta l’aristocrazia turca ancora indipendente, e rischiava di attirare ulteriori nemici dal Caucaso o dalla Mesopotamia, dove aveva buoni rapporti con gli Stati eredi del grande impero fondato da Timur meno di cent’anni prima. Si parlava di jihād, la guerra santa, un pericolo da non sottovalutare.
Othman respinse Leon verso Antiochia con la sola forza dei numeri, riprendendo Cesarea e occupando Tarso. Solo sotto le mura della metropoli romana della Siria il magister militum riuscì infine ad arginare i turchi con uno scontro pesantissimo, sostenuto il in una torrida giornata estiva. Il condottiero musulmano decise di lasciare 10.000 uomini a sorvegliare Leon ad Antiochia e si diresse verso Iconio, puntando a spazzar via i 10.000 uomini al comando di Mikhael Doukas prima che ricevessero rinforzi. Non fece in tempo.
Un armata scelta agli ordini di Basileios, anche lui richiamato dalla gestione della nuova provincia spagnola, fu inviata in soccorso alle forze romane già schierate nella regione: Due ulteriori legioni, più 7.000 ausiliari e 1.000 thalassatoxotai equipaggiati con archibugi e cannoni. Ora Costantinopoli schierava nel teatro anatolico quasi 50.000 uomini e i risultati non tardarono ad arrivare.
Il primo scontro avvenne proprio presso Iconio, dove Mikhael e Basileios scompaginarono le forze nemiche in una dura battaglia ai primi di agosto. Othman si ritirò in disordine, e i romani ebbero campo libero. Amorio fu saccheggiata, Sinope messa sotto assedio dalla sopraggiunta marina imperiale, mentre Tarso e Cesarea vennero rioccupate da Leon Phokas che, reclutati 5.000 mercenari veneziani, armeni e mamelucchi, aveva avuto buon gioco a sbaragliare il piccolo esercito posto alla sua sorveglianza, avanzando di nuovo in Cilicia e Armenia Minore.
Ritiratosi presso Erzincan, Othman vide liquefarsi le sue forze in seguito alle diserzioni e la corruzione portata avanti da agenti imperiali, che convinsero molti signori che avevano perso le loro roccaforti a firmare la pace e cedere i loro possedimenti in cambio di un rango e delle terre come signori privati in Macedonia e Tracia, senza per forza convertirsi al cristianesimo. Othman, che si vantava di essere il nuovo sulṭān di Rum, vide le sue fortune protrarsi ancora un poco solo grazie all’arrivo di 10.000 rinforzi inviati dai tartari dell’Orda d’Oro.
A metà settembre Basileios riuscì, dopo la caduta di Sinope in mano romana e la totale sottomissione di tutte le terre alle sue spalle, a concentrare tutte le forze verso l’ultima armata avversaria. Con una splendida manovra a tenaglia, con al fianco gli esperti comandanti Mikhael e Leon, le ultime resistenze vennero meno. Non ci fu neanche una vera e propria battaglia finale, perché Othman si fece uccidere come un semplice soldato mentre guidava una sortita contro un accampamento romano avanzato. La sua causa, insieme allo spirito nemico, perì con lui.
Alexios, scortato da 5.000 uomini della Guardia Imperiale, giunse ad Iconio, dove convocò tutti gli ex signori turchi che si erano arresi o erano stati presi prigionieri durante la campagna. Mantenne la parola data, garantendo a tutti loro terre e prebende in Tessaglia, Tracia, Serbia e Bulgaria. Per quanto non venne mai imposta una conversione forzata, per far carriera nella burocrazia o nell’esercito la maggior parte dei loro figli si convertirà in seguito al cristianesimo, sposandosi con donne di stirpe romea o slava, fondando alcune delle dinastie aristocratiche che sopravvivono ancora oggi nell’impero.
Il territorio anatolico venne riorganizzato in themata, ingrandendo i vecchi e creandone di nuovi, mentre solo pochi principati e signorie di confine armene, georgiane, azere e, ancora per qualche anno, lo Stato separatista di Trebisonda – retto da lontani parenti dello stesso basileus, i cosiddetti Mega Komnenoi – rimasero più o meno indipendenti. Nacquero così i themata di Ponto e Cappadocia che si aggiunsero ai precedenti.
Era da ben quattro secoli che l’Impero Romano non possedeva così tanti territori a levante. Questo successo repentino e totale fu la conferma assoluta della bontà delle riforme attuate nei vent’anni di pace precedente dal grande sovrano, che si sentì così invogliato a portare avanti piani ancora più ambiziosi.
I giovani generali, alla cui guida stava il valente e dinamico Basileios, erede al trono amatissimo e stimato sia dal popolo che dall’aristocrazia, convinsero con facilità Alexios ad allargare lo spazio strategico delle operazioni, guardando alla costa africana. La via per la Colombia poteva usufruire dei porti pugliesi e calabresi, ma aveva un grosso ostacolo nella Sicilia aragonese.
La soluzione ideale per avere ulteriori punti di sosta – senza entrare di nuovo in guerra con gli iberici – fu individuata nelle città costiere tunisine, libiche e algerine. La potenza maggiore nella regione era il sulṭān mamelucco d’Egitto, Sayf al-Din, a cui era stata inviata un’ambasciata già durante la guerra contro Othman, per evitare l’apertura di un pericoloso fronte siriano.
Colpito dai doni e dall’abilità retorica del megas logothetes Axuch, inviato al Cairo con poteri quasi assoluti di trattativa, oltre che dai numerosi doni di uno sfarzo e una ricchezza infinita, compresi pregevoli gioielli messicani e peruviani, il sovrano egiziano strinse un patto di amicizia e alleanza con Costantinopoli, mettendo a disposizione le sue truppe di terra per un’operazione congiunta con la marina imperiale.
Grazie a questo patto tutte le regioni costiere da Tunisi fino alla Cirenaica caddero sotto l’influenza delle due potenze quasi senza combattere. In attesa di un accomodamento definitivo, la Libia doveva essere assegnata in linea generale al Cairo, mentre la Tunisia a Costantinopoli.
La campagna, condotta nella prima parte del 1489, permise l’installazione di un presidio romano a Tunisi, mentre agli amīr e ai bey locali venne imposto un vassallaggio nei confronti dell’Impero Romano. Sembrava che nulla potesse fermare la spinta propulsiva di quegli anni e che, soprattutto, nessuno avesse il coraggio o la forza di opporsi alla straripante energia e abilità dimostrata dagli eserciti e dai comandanti romani.
Niente di più sbagliato. La prova più dura, che rischiò di rimettere tutto in gioco, era alle porte.
Alberto Massaiu
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