La guerra aveva indicato alcune pecche del sistema imperiale, ma tutto fu dimenticato in quegli anni di pace e tranquillità. Unico neo sarà la brevissima guerra con i persiani del 1664, che verrà risolta dal grande Andronikos Kastriotas prima in Armenia e poi in Mesopotamia. È utile menzionare che questo conflitto vide il primo intervento russo nell’area caucasica. Infatti lo tzar Michail IV inviò 9.000 uomini di rinforzo all’alleato romano, che si comportarono egregiamente. A seguito di questa vittoria appariranno le prime guarnigioni russe nell’area del Mar Caspio, esattamente a ridosso del confine imperiale, che diventeranno una pericolosa testa di ponte al di là dei monti che da sempre proteggevano Roma dalle scorrerie provenienti dalle steppe.
Ma questi problemi si acuiranno solo nel secolo successivo, quando i russi abbandonarono la sudditanza psicologica verso i loro benefattori romani, e inizieranno delle guerre per l’annessione dei vassalli di Costantinopoli sul Mar Nero, nei Balcani e nel Caucaso.
Per ora il dio della guerra arrideva alle armi imperiali, tanto che un nuovo sacco di Tabriz fece scendere a più miti consigli Ismāʿīl IV, che implorò la pace e accettò un oneroso tributo in termini di danaro e di influenza commerciale sull’Oceano Indiano. Inoltre dovette sottostare anche alla creazione di ulteriori principati e Stati cuscinetto tra le sue frontiere e quelle romane, sia nel deserto antistante a Siria e Palestina, sia nella Mesopotamia settentrionale e infine nei monti del Caucaso. Naturalmente i loro sovrani sarebbero stati scelti da Costantinopoli tra azeri e curdi convertiti, armeni e georgiani.
La pace ad oriente era così assicurata, e perdurò per quasi un secolo.
Le attenzioni del basileus Germanikos e dei suoi successori d’ora in poi si concentreranno su tre obiettivi: politica religiosa, strategia di conservazione dell’immenso dominio continentale e la salvaguardia delle colonie.
Almeno sul continente questo obiettivo sarà rispettato, con una supremazia che perdurerà fino ai moti dovuti alle idee illuministe della seconda metà del XVIII secolo, ma il conflitto per i territori d’oltremare rimarrà sempre acceso, anzi, sarà una vera fucina di perdite in uomini, mezzi e denaro che dissanguerà l’impero nei decenni successivi.
La situazione navale infatti si stabilizzò solo nel quinquennio 1660-1665, dove le varie tregue e gli effetti della guerra sedarono la volontà d’azione delle flotte nordeuropee.
Nonostante gli accordi diplomatici e i giuramenti prestati la guerra di corsa continuò. Il 1666 si aprì con il sacco di Porto Romano, sull’isola di Nuova Creta, da parte di corsari francesi. Anche l’altra grande isola prospiciente, Aghios Georghios, subì una pesante incursione olandese nello stesso anno.
La fortuna fu che gli inglesi, ligi all’alleanza con l’impero, si tennero fuori da questi atti, perlomeno fino al 1668. In quel triste anno la popolazione si ribellò ad una legge che vietava la confessione protestante e che sanciva il ritorno ad un sistema assolutistico della monarchia sul modello romano.
Charles II dovette fuggire definitivamente dall’isola, e il parlamento elesse come nuovo sovrano un olandese, il giovane William III d’Orange. Questi era un eroe dell’endemica lotta dei separatisti locali dal Reich germanico, e tra il 1665 e il 1668 aveva riportato ben tre vittorie campali contro gli eserciti del kaiser Albrecht IV.
Era andato per la prima volta in guerra a quindici anni, nel 1663, e si era subito distinto per comando e coraggio, tanto che l’anno successivo era succeduto allo zio August a capo della ribellione antitedesca dei Paesi Bassi.
Inutile dire che, protestante, tollerante e liberale com’era, fu subito scelto come candidato al trono britannico. William accettò immediatamente e salì al potere, utilizzando la forza delle truppe e della flotta inglese per ottenere la tanto agognata indipendenza della sua terra natia.
Nel 1670 il kaiser accettò i termini di pace, che sancivano la nascita dello Stato delle Province Unite, anche detto Olanda. Ora William era sovrano del Regno Unito e stadhouder dell’Olanda. La sua politica fu incentrata sul potenziamento della flotta e della ricerca di nuove vie commerciali in oriente e negli oceani, riaprendo immediatamente le ostilità con Roma.
La sua opera fu inaugurata con la vittoria navale di Finisterrae, dove nel 1671 la marina oceanica imperiale venne spazzata via in un epico scontro. Lo stesso droungarios Rosario De Guzman colò a picco con la sua ammiraglia e buona parte del suo stato maggiore. L’anno dopo, con un’operazione a sorpresa, venne occupata Gibilterra, mentre nei due anni successivi molte basi sparse negli oceani passarono più volte di mano.
Germanikos era un basileus forte, relativamente giovane ed energico, e forse sarebbe riuscito a risistemare la situazione come aveva fatto con tedeschi, inglesi, francesi, olandesi e persiani, ma nel 1673, in pieno conflitto, si ammalò gravemente e morì. Aveva trentanove anni.
Gli succedette il terzogenito Konstantinos, visto che il primogenito Andreas era morto per una caduta da cavallo nel 1661 e la secondogenita Eirene non poteva ereditare. Il nuovo imperatore aveva tredici anni, perciò fu esercitata la reggenza da parte del fratello minore di Germanikos, Andronikos.
Questi però, appena due mesi dopo, si proclamò basileus ad Aghia Sophia, con il nome di Andronikos V.
Figura scialba e vuota, che aveva passato tutta la sua vita in stravizi, alcol e donnacce, non aveva la tempra di un buon governante. Era salito al vertice più per cupidigia e avidità piuttosto che per desiderio di comando e potere. L’unica nota positiva del suo regno fu il suo inizio, che per fortuna risultò esangue. Infatti non fece uccidere il giovane principe, ma lo relegò in un ala del Palazzo Magnaura e proclamandolo suo erede, visto che non aveva figli.
Molto peggiore fu la gestione della questione anglo-olandese. Nel 1674 decise di firmare una pace ingiuriosa e pesantissima con William pur di evitare il confronto bellico. Quello sciagurato anno molte basi e porti in India, Colombia, Africa e Oceania andarono ad ingrossare il dominio d’oltremare dei britannici.
L’affronto maggiore fu però la scelta di cambiare molti dei nomi imposti in questi luoghi, scoperti tra il XV e il XVI secolo dai romani, con denominazioni differenti. Abbiamo già citato il caso del continente-isola di Basilia, chiamato dagli invasori Australia, ma la modifica più eclatante, che avrà più risvolti nel futuro, sarà la nuova denominazione data alla Colombia del nord.
Come abbiamo già detto nella nostra cronaca, a parte sporadiche esplorazioni, quest’area della Colombia non era mai interessata a Costantinopoli, perciò era diventata oggetto di attenzione da parte di francesi e inglesi, che in questi anni la ribattezzeranno America, da Amerigo Vespucci, il primo esploratore finanziato da questi stati nel XVI secolo affinché fondasse le loro colonie d’oltreoceano.
Durante la decadenza romana in questo scacchiere, che inizierà proprio con questi avvenimenti e proseguirà per tutto il secolo e quello successivo, sarà questo nome che si affermerà e si sostituirà al precedente, portando fino ai giorni nostri, dove solo pochi storici nostalgici utilizzano ancora il termine di Colombia per tutto il continente, mentre le masse lo identificano con l’America.
Anche i francesi decisero di approfittare della debolezza strutturale di Roma, inviando a Costantinopoli i loro ambasciatori con al seguito, a scopo intimidatorio, una flotta di 136 galeoni da guerra.
Il pavido Andronikos si sarebbe piegato, ma la popolazione insorse, linciò il sovrano alla fine di una corsa presso l’ippodromo ed elesse come reggente il droungarios della flotta, Ioannes Phokas.
Questi era l’uomo giusto al momento giusto. Giovane, aveva ventisei anni, prestante, cavalleresco e bello, si accordò subito per avere il sostegno dell’inossidabile patriarca Maximos VI, delle alte gerarchie burocratiche e militari, e infine distribuì cibo alla plebe per ingraziarsela. Il suo discorso pubblico, tenuto la mattina del 15 luglio del 1674, galvanizzò tutti. Parlò di resistenza, di orgoglio romano e, soprattutto, di vittoria.
Come più e più volte era accaduto nella storia della capitale, un nuovo nemico si faceva sotto per tentare di prenderla o di far cedere la volontà dei suoi governanti. L’ultimo assedio compiuto da popoli stranieri contro la Regina delle Città risaliva a oltre due secoli prima, quando i turchi erano stati definitivamente respinti.
Per quanto l’incursione marittima francese non fosse un vero e proprio assalto, stava ad indicare le ormai palesi debolezze del sistema imperiale, soprattutto nel settore navale. La flotta nemica aveva spezzato la resistenza della Neon Nautikon presso Cartagena, Milazzo e Capo Sounion, penetrando di forza nell’Egeo e puntando verso i Dardanelli.
Ioannes Phokas, dopo aver portato con sé per la città il giovane basileus Konstantinos, in modo da risollevare il morale della popolazione, si era poi imbarcato sulla flotta rimasta di stanza nei grandi porti cittadini, e aveva ordinato di levare le ancore.
Il 9 agosto le due marine si incontrarono presso l’imboccatura degli stretti che separano l’Asia dall’Europa, e li si diedero battaglia. Nonostante le molte sconfitte subite, quello che si trovava a Costantinopoli era il meglio del naviglio romano, e lo dimostrò ancora una volta.
All’imbrunire solo 40 galeoni poterono sfuggire alla caccia spietata dei vascelli imperiali, e solo in 17 attraccarono alla base navale di Aigues Mortes un mese e molte peripezie dopo.
Ioannes Phokas diventò immediatamente l’eroe di tutti, e con il consenso comune della cittadinanza e dei potenti si proclamò basileus il mese successivo, relegando al rango di co-imperatore il quattordicenne Konstantinos. Entro la fine dell’anno nominò co-imperatore anche il suo primogenito di quattro anni, Romanos. Ora sul trono di Costantinopoli stava un imperatore reggente e due piccoli e minorenni eredi.
Nel 1675, una volta reso più solido il suo trono con l’eliminazione del prozio del legittimo principe, Theodoros Palaiologos, e il confino in prigione di un anziano Montecuccoli e del pio Ippolito Farnese, Ioannes si risolse ad occuparsi del problema britannico. Andronikos Kastriotas, compreso dove tirava il vento, si convertì alla causa, giurando fedeltà al nuovo sovrano e intercedendo per i due compagni d’arme, che saranno liberati pochi mesi dopo.
Montecuccoli, ormai stanco e provato da una vita in guerra, finirà i suoi giorni nella sua sfarzosa residenza a Rodi nel 1682, dopo aver scritto le proprie memorie. Ippolito Farnese, abbandonato il suo ruolo di militare, si farà tonsurare ed entrerà come monaco in un monastero del monte Athos, dove concluderà i suoi giorni nel 1699.
Andronikos invece rimarrà a servire sotto le armi, affiancato ben presto da nuovi ufficiali di origine italiana, spagnola, armena, slava e persino colombiana. Caratteristica di quest’epoca sarà infatti il diradarsi dell’etnia greco-romana tra i ranghi e tra gli ufficiali dell’impero, in favore di provinciali, stranieri o coloni.
Massimo esponente di questo passaggio di consegne sarà Eugenio di Savoia, uno dei più geniali comandanti romani di tutti i tempi, che passerà tutta la fine del XVII secolo e l’inizio del XVIII a tappare le falle aperte in ogni angolo dell’impero, come un novello Stilicho o Aetius.
Nel triennio 1677-1680 la flotta romana fu impegnata nel Mediterraneo occidentale e nell’Atlantico, contrastando con alterne fortune lo strapotere navale di olandesi e inglesi. Nel 1680 vi fu una grossa battaglia presso le Canarie, dove una flotta olandese fu pesantemente battuta dalla Neon Nautikon oceanica, ma l’anno dopo un intervento di esercito e marina combinata non riuscì a riprendersi Neapolis, in India. Analoga conclusione si verificò nei Caraibi, dove per otto mesi le fortezze occupate dai britannici a Nuova Creta resistettero ad un imponente schieramento di forze imperiali.
Nel 1684 i contendenti erano però sfibrati.
Intere fortune erano state investite da ambo le parti e i commerci erano stati devastati per quasi dieci anni, perciò si convenne ad un accordo. I delegati di William III e di Ioannes IX si incontrarono in terra neutrale svizzera, a Ginevra, per le trattative.
Nuova Creta con le isole maggiori caraibiche ritornarono in mano romana, ma molte isole minori come Aghios Georghios, Aghios Ioannes e alcuni porti e cittadine, con annesse strisce di terra e isolotti della Colombia del Sud, passarono in mano britannico-olandese.
In India ai romani furono restituite le Dodekapolis con Goa e Neapolis, ma tutta l’area a nord di una linea immaginaria che tagliava più o meno il subcontinente a metà fu assegnata come spazio esclusivo, presente e futuro, agli inglesi. Con questo trattato saranno poste le basi del dominio britannico sull’Impero Mughal nel XVIII secolo e su metà dell’India nel XIX.
In quanto all’Africa gli inglesi si accontentarono di tenere qualche piccola isola e porto come scali strategici, mentre restituirono tutto il resto all’impero.
In Oceania invece cambiarono molte cose, partendo dal condominio romano-britannico del continente basiliano-australiano, e procedendo alla spartizione sistematica del controllo o dell’influenza su isole, atolli e arcipelaghi nell’area. I romani tennero le isole più grandi come Malacca, Brunei, Formosa, Nuova Guinea, ma dovettero concedere la strategica città portuale di Singapore, che diverrà una base navale britannica fondamentale nell’area e una vera spina nel fianco per gli strateghi imperiali che opereranno in quel settore.
In cinquant’anni l’Impero Romano aveva perso il totale predominio dei mari e del mondo che era stato raggiunto da Basileios IV. D’ora in avanti si passerà dall’heghemonìa romana ad un condominio parcellizzato di potenze coloniali europee, in cui Costantinopoli sarà un attore importante ma non più onnipotente.
Ioannes, contando lo stato dell’esercito, della marina e del tesoro, era più che soddisfatto dei risultati ottenuti, che d’altro canto sancivano paradossalmente dei guadagni più che delle perdite. Infatti tutte le terre passate in mano nemica erano almeno da trent’anni fuori dal controllo imperiale mentre molte altre, che erano state occupate negli anni, erano state finalmente riconsegnate, risultato che sarebbe stato raggiunto solo con molta difficoltà attraverso le armi.
Da militare e pragmatico politico quale era, seppe mettere da parte l’orgoglio per ottenere la pace, che gli avrebbe permesso di riorganizzare le forze per una futura rivincita.
Il Trattato di Ginevra del 1684 sancì la fine della politica di Maximos VI, il patriarca che avrebbe voluto l’unificazione di tutti i cristiani in vista di un dominio totale del basileus dei romani sul mondo. Infatti, tra le varie clausole che indicavano la fine di una visione mondiale unificata e lasciavano intravedere il futuro, incentrato sull’iterazione di più entità statuali in ogni angolo della terra, vi stavano quelle che proclamavano la scissione netta tra cristiani “ecumenici” (ortodossi, cattolici e dottrine orientali) e “protestanti” (evangelici, anglicani, puritani, calvinisti).
Per suo sfortuna Maximos fu costretto a vedere la stipula di questo trattato, prima di spirare nel 1688.
Nonostante il mancato obiettivo finale, va riconosciuto che il suo lavoro aveva raggiunto risultati millenari. Aveva riconciliato l’ortodossia con le dottrine orientali, ma soprattutto aveva ricucito lo strappo del 1054, riunendo la Chiesa Cattolica con l’Ortodossa come ai tempi del synodon di Nicea del 325. La religione cristiana ne era uscita immensamente rafforzata, preparando questo mondo all’apertura verso le nuove sfide dell’Era della Ragione e delle rivoluzioni del secolo successivo.
Ioannes IX fu un buon sovrano, giusto, generoso e responsabile. Ma l’epoca dove viveva non era più il XVI secolo, dove l’impero era la superpotenza incontrastata dell’Europa e del mondo, ma il tardo XVII.
L’inflazione e la corruzione erano in costante aumento fin dall’epoca di Isakios IV il Folle, la marina era indebolita e logorata da decenni di effimere vittorie e pesanti sconfitte. L’esercito andava ammodernato e portato a standard d’efficienza più recenti, che stavano venendo sviluppati nel nord Europa. Era sempre più necessaria una riforma nell’amministrazione e anche nella gestione di economia e commercio.
Ioannes si gettò in questo coacervo di problemi, affrontandoli di petto.
In quanto all’inflazione cercò di coniare monete di più elevato valore, togliendo dal mercato quelle svalutate e con poco metallo prezioso. Cercò di bloccare i prezzi dei beni di prima necessità come il pane e alcuni cibi. Ridusse molte cariche e titoli onorifici inutili che costavano tantissimo allo Stato, portando l’amministrazione e la burocrazia all’osso e obbligandola ad essere più efficiente e produttiva. Spazzò via i privilegi di clero e aristocrazia, che taglieggiavano i contadini nei themata più lontani dalla capitale. Inviò commissari imperiali nelle colonie perché redigessero precisi rapporti sulla gestione e sulle difese apportate in quei lidi distanti.
L’attività legislativa e legale conobbe un incremento esponenziale e tra il 1688 e il 1704 saranno promulgate così tante disposizioni che fu necessario rilegarle in un corpus detto Codex Ioanneum, che si aggiungerà a quello di Ioustinianos e ai Basilika di Basileios I.
L’esercito verrà riformato, utilizzando la base legionaria e abbandonando gli ausiliari, che andranno a comporre nuove legioni. La nuova legione risultò da quel momento in poi come un vero e proprio corpo d’armata indipendente, capace di agire in maniera autonoma e dotata di ogni unità utile in una campagna.
Rimarrà composta da 6.000 uomini di linea e più 24 cannoni.
4.000 fanti detti stratiotai telebolontarioi, armati di moschetto e baionetta, introdotta fin dal 1660 ma ora resa uno standard.
2.000 cavalieri detti hippikon, suddivisi in mille drakonarioi di cavalleria leggera e in mille kataphraktoi di cavalleria pesante.
Molte di queste forze furono reclutate tra le popolazione dell’oramai sterminato impero, perciò molti ufficiali e soldati provenivano dalla Colombia, dall’India, dalla Basilia, dalla Nuova Inghilterra o dalle isole indonesiane. Con la riforma gli stranieri potranno militare nelle legioni, cosa che prima era concessa solo ai cittadini romani a pieno titolo.
In quanto alla flotta il suo impegno fu limitato alla costruzione di qualche galeone molto potente e alla divisione del comando oceanico in quattro droungariati, ovvero comandi navali regionali: uno Atlantico, con base a Nuova Creta; uno Indiano, con base a Neapolis; uno Indonesiano, con base a Eliopoli in Nuova Guinea e uno Pacifico con base presso l’isola di Formosa.
Per tutto il Mediterraneo, il Mar Rosso e il Mar Nero la giurisdizione sarebbe rimasta al megas droungarios di Costantinopoli.
L’unico errore di Ioannes IX fu la cattiva gestione dell’economia, infatti nella ricerca incessante di fondi e liquidità per le riforme e le ristrutturazioni imperiali – fu molto prolifico anche in attività edilizia, restaurando e riattando edifici pubblici e religiosi, strade, ponti, basi militari e navali, scuole, teatri, acquedotti e terme – tassò spietatamente i ceti mercantili, che non si poterono così sviluppare appieno come invece stava avvenendo in Inghilterra, Olanda, Svezia, Germania e Francia.
Nel 1703, a cinquantacinque anni, sentì per la prima volta i sintomi della malattia che lo porterà alla morte due anni dopo.
Iniziò così, pragmaticamente, a mettere a posto le cose per la sua pacifica successione. Sapeva che, visto che aveva soppiantato una dinastia secolare, sarebbe stato molto difficile per suo figli salire al trono senza aver fatto fuori l’ultimo esponente, Basileios Komnenos Palaiologos.
Infatti Konstantinos XIV, suo collega co-imperatore nominale, che non aveva combinato mai nulla da quando aveva ottenuto l’età legale per regnare, era trapassato nel 1680 per una caduta da cavallo a soli vent’anni, lasciando come suo unico segno nel mondo un figlio, avuto l’anno precedente da Isabella di Savoia, Basileios.
Per sua fortuna, Ioannes si salvò l’anima, non ordinando alcun efferato omicidio e proclamando che l’Impero Romano sarebbe stato diviso tra i suoi due figli, il naturale Romanos Phokas e l’adottato Basileios. Così pensò di risolvere le cose, garantendo il figlio, visto che lo nominava basileus a Costantinopoli, mentre l’altro sarebbe dovuto risiedere a Roma.
Purtroppo per i suoi calcoli non aveva valutato che la popolazione della capitale risultava sempre molto volubile, e si faceva trascinare dalla nostalgia. E nessun altra dinastia si era distinta come quella dei Komnenoi Palaiologoi, fusione oltretutto di altre storiche linee di regnanti che fin dal XI secolo si erano alternate sul trono imperiale.
Il condominio di Romanos VI Phokas e Basileios V Komnenos Palaiologos durò a malapena un anno dopo la sua morte e si concluse in modo tragico. Basileios, infatti, era sposato fin dal 1700 con Eirene Doukaina, perciò poteva contare sull’appoggio di questa antica famiglia e dei sui suoi molti alleati, che nel 1706 organizzarono un colpo di Stato.
Tra la notte del 22 e la mattina del 23 febbraio scoppiarono moti popolari in tutta Costantinopoli.
L’ippodromo, le caserme e il Palazzo Sacro furono assaltati da una folla di migliaia di cittadini, mentre i reparti di Athanatoi e delle Scholae attaccavano la Guardia Variaga, rimasta fedele a Romanos. Per la mattinata del 24 solo 700 variaghi difendevano una parte dei quartieri del palazzo, circondati da migliaia e migliaia di soldati e cittadini che inneggiavano al solo e unico imperatore, Basileios V.
Vista l’impossibilità di qualsiasi resistenza Romanos si arrese, affidandosi alla clemenza del collega. La sua speranza fu vana.
Basileios ordinò, nella più fulgida tradizione antica, di fargli cavare gli occhi e di farlo marciare in groppa ad un asino per tutta la città, nudo come un verme, affinché chiunque potesse tirargli bastonate o pietre. Inutile dire che le ferite inflitte furono così gravi che il poveretto trapassò qualche giorno dopo. Il suo corpo venne gettato in mare.
Il nuovo sovrano avrebbe volentieri disseppellito le ossa di Ioannes Phokas, ma questi era molto amato per i suoi anni di governo e di pace, perciò si astenne da quest’affronto, ordinando solo di traslarlo dalla cripta dei Aghioi Apostoloi – dedicata alla famiglia imperiale – a quella più umile, ma altrettanto bella, delle Blachernae.
Dopo questo sfogo, con una cecità allucinante, iniziò a smantellare tutto l’operato del suo predecessore, con l’unica ragione che era stato realizzato da un avversario della legittima dinastia. L’unica opera che resisterà sarà la riforma di esercito e marina, ma l’amministrazione, i programmi edilizi e la legislazione verrà tutta bloccata o sospesa.
Il danno in sé sarebbe stato contenuto se il giovane basileus avesse sostituito quell’immane opera con nuove disposizioni, ma egli, tutto preso dal cancellare i ricordi dell’usurpazione, lasciò dei vuoti organizzativi che dureranno fino all’attività di riforma di Napoleone I.
Il grande valore dell’imperatore Ioannes sarà confermato dal grande sovrano di origine corsa del XIX secolo, che utilizzerà come base per i suoi codici di leggi e riforme amministrative, sociali e militari la parte dei lavori e degli appunti scampati miracolosamente all’azione distruttrice di Basileios.
Questa attività di annientamento, una vera e propria damnatio memoriae, sarà intervallata solo dalla guerra, che tornerà ad infuriare sotto il regno del giovane autokrator, che rimarrà coinvolto in ben tre conflitti tra il 1708 e il 1730.
In quell’anno, infatti, Ferdinand III Wallenstein, kaiser di Germania e re di Svezia e Finlandia, morì senza eredi diretti.
Immediatamente scoppiò la Guerra di Successione Tedesca, con almeno tre pretendenti. Da una parte stava Anne d’Inghilterra, figlia della nemesi dell’impero William d’Orange. Questa era sposata con Georg di Danimarca, che vantava diritti sulla Svezia visti i legami con la precedente famiglia regnante dei Vasa.
Il secondo, prettamente germanico, era Ioseph d’Habsburg, casata che aveva regnato sul Reich fino all’avvento dei Wallenstein, alleato con i cattolici ecumenici di Baviera, Baden, Wütteberg e basso Reno.
L’altro pretendente, questa volta protestante, era il re di Prussia e kurfürst del Brandeburgo, Friedrich III. Dalla sua parte stavano i francesi di Louis XIV, che da anni stava guerreggiando con olandesi e tedeschi per espandere i confini del suo regno, nell’ottica di trasformarlo in una superpotenza continentale che potesse rivaleggiare con Roma.
Tutte le parti in lotta avevano degli obbiettivi diversi: gli inglesi volevano ottenere il predominio nel Baltico, magari succedendo ai Wallenstein nella corona di Svezia e Finlandia, unendo così i domini olandesi, britannici e scandinavi per fondare una superpotenza marinara mai vista.
Gli Habsburg non avevano alcun interesse nel Mare del Nord, perciò avrebbero volentieri ceduto quell’area in cambio del loro reinsediamento sul trono del Reich, con la capitale che sarebbe tornata da Praga a Vienna. Il loro sogno era la creazione di uno Stato accentrato, completamente cattolico o comunque con supremazia cattolica, su modello francese o inglese.
Friedrich, invece, puntava alla carica imperiale per poter decentrare al massimo il Reich tedesco, che lui vedeva come un anacronismo medievale, per creare dei nuovi Stati nazionali tedeschi, che avrebbero formato una confederazione difensiva con propri sovrani, non più subordinati ad un kaiser di origine divina.
I francesi erano ben lieti di aiutarlo perché un Impero Germanico disunito e separato in piccoli Stati gli avrebbe agevolati nella loro espansione verso il Reno, mangiando principati e ducati pezzo per pezzo. Anche Friedrich non aveva particolari interessi sul Baltico, perciò anche lui avrebbe lasciato fare volentieri agli inglesi.
Ma tutti questi piani vennero sconvolti quando, dopo un isolamento militare di oltre quaranta anni, la macchina da guerra romana fu rimessa in moto.
Ma procediamo con ordine.
Nel 1708 gli schieramenti si ordinarono più o meno così: gli svedesi, datosi una sorta di autogoverno vista l’indifferenza dei vecchi dominatori germanici, elessero a sovrano un esponente collaterale della dinastia Vasa, Karl, che aprì una nuova dinastia imperiale, dichiarando la nascita dell’Impero Baltico e assumendo per sé il titolo dinastico di Karl I.
Cercò di reistituire il vecchio sistema militare che aveva reso la Svezia la dominatrice di quei freddi lidi settentrionali nel XVII secolo, ma venne attaccato simultaneamente dai danesi e norvegesi di Georg e dalla flotta anglo-olandese, perdendo così tutta la Svezia e venendo costretto a riparare in Finlandia.
La rivolta nazionalista svedese sarebbe finita in quel momento, se Louis non avesse deciso di invadere l’Olanda con 50.000 uomini. Friedrich, visto il suo sistema di alleanze, si vide costretto a dichiarare guerra ai britannici, schierandosi con Karl di Svezia.
Nel frattempo Ioseph d’Habsburg aveva preso l’ex capitale Praga con l’aiuto della nuova Liga Catholica, e spadroneggiava a sud del Meno. Ma anche lui venne attaccato ad ovest da 60.000 francesi, che invasero Lorena e Renania occupando Metz, Münster, Magonza, Treviri e Strasburgo.
L’Habsburg tentò di coinvolgere i polacchi o i russi affinché attaccassero da tergo gli svedesi e i prussiani, ma questi due Stati erano il primo in guerra civile, il secondo alle prese con l’opera di rimodernamento compiuta dal grande tzar Pëtr I, che voleva trasformare il suo paese in chiave occidentale.
Dopo la battaglia di Wiesloch, dove i cattolici tedeschi vennero sonoramente battuti dal maréchal Villeroi, l’iniziativa passò all’asse prussiano-francese. Friedrich III invase Sassonia e Slesia, occupandole in una campagna lampo per la fine dell’estate del 1708 e giungendo a Praga agli inizi dell’inverno.
Al nord, nel frattempo, i danesi erano stati battuti presso Wisby dai sostenitori di Karl e una flotta inglese era affondata vicino alla Finlandia a causa di una tempesta, mandano a fondo oltre 5.000 uomini.
Karl I decise di agire, rientrando in Svezia e sconfiggendo un esercito danese a Stoccolma, ricacciando così gli invasori in Västergötland. Era il momento della rivincita dello svedese, che si impegnò nell’assedio di fortezze danesi e norvegesi per tutto l’inverno e l’inizio della primavera seguente.
Anche il partito cattolico se la passava piuttosto male, visto che aveva rimediato due sconfitte, una franco-prussiana a Lützen e una prussiana in Moravia, presso Zneim. Sembrava che la vittoria avrebbe arriso entro il 1709 agli alleati franco-prussiani, ma la notte di Natale del 1708 Basileios proclamò l’entrata in guerra dell’Impero Romano in difesa della Santa Chiesa Ecumenica, a favore degli Habsburg.
A questo punto ci si trovò in una strana situazione, dove una potenza cattolico-ecumenica combatteva insieme a due protestanti (Francia, Prussia e Svezia) contro due potenze cattoliche-ecumeniche alleate con tre protestanti (Roma, Austria, Inghilterra, Danimarca e Olanda).
Il caos si accentuò in seguito alle variegate alleanze che, di volta in volta, grandi e piccoli signori tedeschi stringevano con una delle parti in lotta.
Nel 1709 la Francia fu invasa congiuntamente dalla Spagna e dalla Gallia romana. 15.000 romani passarono i Pirenei in aprile, seguiti da 25.000 che attaccarono la Linguadoca con l’obiettivo di ricongiungersi in Aquitania e muovere poi verso Poitou, Guienna e Borgogna. Nel frattempo 12.000 inglesi sbarcarono in Bretagna, cercando di riunirsi con le avanzanti schiere romane e muovere da sud verso Orleans o Parigi.
Altrettanti inglesi vennero inviati nelle Fiandre per difendere le fortezze confinarie facenti parte del Reich sotto assedio di Namur, Liegi, Dunkerque, Gand e Bruxelles.
Altri 40.000 romani, al comando del basileus stesso, si diressero a Vienna come settant’anni prima aveva fatto Romanos V.
Il fronte che venne messo un po’ in disparte fu quello scandinavo, dove Karl I collezionava vittorie su vittorie, spazzando via non solo i presidi in terra svedese, ma occupando fortezze e città in Norvegia e Danimarca. Ricevuti 7.000 soldati scelti prussiani tra corazzieri e granatieri e quaranta cannoni, occupò Malmö e scacciò tutti i danesi dalla penisola.
In Boemia il 26 maggio venne combattuta una battaglia presso la Moldava, dove i prussiani furono per la prima volta battuti, con rilevante sostegno delle nuove truppe volute dalla riforma di Ioannes IX.
Praga, evacuata dal Friedrich, fu presa il 2 giugno senza bisogno di assedio.
Nel frattempo l’astro nascente Eugenio di Savoia, con il titolo di magister militum per occidentem, stava dando grande prova di sé in Francia, sconfiggendo uno dietro l’altro gli eserciti che gli si stavano parando davanti: scontro campale ad Alby il 19 aprile, a Bordeaux il 27 e Poitiers il 30. Qualche giorno dopo incontrò sul fiume Loira gli inglesi e con loro travolse un’altra armata ad Orleans.
Venne fermato solo dalla resistenza della città, che lo tenne bloccato per tre mesi in un assedio terribile, permettendo ai francesi di riorganizzarsi. Louis, giunto in tutta fretta nella sua capitale dal fronte olandese, armò un esercito di 100.000 uomini e si diresse verso Orleans, costringendo il giovane comandante romano a ritirarsi verso Poitiers.
L’azione diversiva di Eugenio aveva però permesso di scaricare molto gli olandesi e i britannici, che poterono destinare una parte di eserciti e flotte all’invasione della Svezia.
Basileios, nel frattempo, premeva per un invasione immediata o del Brandeburgo o della Sassonia, per esercitare una pressione sui nemici tale da far collassare il loro fronte. Ioseph alla fina acconsentì, ma diede pochi rinforzi al sovrano romano, che fu fermato ad Altenburg dalla resistenza prussiana, forse il migliore esercito della guerra anche se piccolo di dimensioni.
Un altro scontro campale a Lipsia sancì la fine delle operazioni attive e le parti si impantanarono in un assedio lungo e costoso, mentre Friedrich chiamava i suoi eserciti a difesa dell’elettorato.
Tutto il resto dell’estate e dell’autunno passò in assedi, marce e contromarce, ma senza altri scontri, tranne il fronte scandinavo.
Lì, infatti, le cose si muovevano velocemente quanto le onde del Baltico. Una flotta di 96 galeoni sbarcò ad Oslo 20.000 tra inglesi e olandesi, che marciarono su Göteborg insieme a 6.000 norvegesi.
In battaglia campale il comandante John Churchill era immensamente superiore agli avversari, e trovava un suo pari solo in Villeroi o Eugenio. Karl, nonostante fosse capace di ispirare le truppe, non era né un tattico né uno stratega, perciò si fece battere sonoramente nella battaglia dei laghi il 28 settembre, dove vide cadere 20.000 dei suoi uomini.
Solo gli immensi spazi della Svezia gli permisero di non perdere tutto il dominio dopo quel disastro, perché barattando lo spazio con il tempo, sacrificò la parte occidentale e meridionale del regno per riarmare una esercito con il quale agì da guerrigliero più che da generale, sfruttando la conoscenza di quei luoghi per logorare il nemico.
Benjamin Locke, un subalterno di Churchill, si fece tendere un imboscata e massacrare sulla strada per Kalmar con 3.000 uomini. Stessa cosa successe a Van Horn, un ufficiale olandese che inseguì degli svedesi in fuga con quattro squadroni per poi finire in un pantano dove fu oggetto di una spietata fucileria che sterminò oltre la metà dei suoi uomini e un numero ancora maggiore di cavalli.
Churchill, stanco della situazione, sarebbe voluto sbarcare nella capitale con la flotta, evitando così quegli infidi territori, ma il cattivo tempo lo tenne bloccato fino all’anno successivo in Scania, dove a Malmö stabilì il suo quartier generale.
Nel 1710 ricominciarono le operazioni militari sul continente, con un avanzata generale degli romani e dei loro alleati.
Con tre battaglie, due perse e l’ultima vinta di misura, Basileios respinse dalla Sassonia i prussiani e si interpose tra i rinforzi francesi e Friedrich III. Puntò su Berlino ma il suo esercito aveva perso negli scontri oltre 22.000 uomini e i rinforzi asburgici non arrivarono, costringendolo così a riparare a Magdeburgo quando si trovò davanti una salda resistenza di 18.000 prussiani.
In quanto ad Eugenio, questi si era dovuto svincolare dal rischio di essere circondato da un esercito francese tre volte superiore, ma nel maggio del 1710 aveva ottenuto una vittoria contro Tallard, un generale di Louis, presso Jarnac, riottenendo l’iniziativa.
Il sovrano francese, che pensava di liquidare in fretta la minaccia romana per rioccuparsi della Germania, si trovò obbligato a tornare sui suoi passi e a bloccare con la forza del numero una nuova avanzata di Eugenio su Parigi. Con la battaglia di Chambord la vittoria arrise di nuovo all’invitto Eugenio, che fece ripiegare lo stesso re, ma si dovette fermare per mancanza di rimpiazzi e rifornimenti.
Sembrava di esser giunti ad un nuovo stallo, con la vittoria in mano degli alleati ecumenici ma l’impossibilità di un trionfo definitivo, con la prospettiva di un logorio continuo che poteva durare indefinitamente.
Ma le notizie che cambiarono la guerra arrivarono da nord.
Churchill, ottenuti venti favorevoli e bel tempo, era sbarcato a Stoccolma. Karl I, imperatore di Svezia e Finlandia, l’aveva affrontato con 38.000 uomini, il meglio dei suoi veterani. Gli anglo-olandesi erano 27.000, di cui 2/3 veterani britannici.
La battaglia di Stoccolma, che venne combattuta il 3 giugno, vide scomparire ogni speranza di indipendenza della Scandinavia.
10.000 caduti e 8.000 prigionieri per i primi, 6.000 perdite per i secondi. Karl venne catturato il giorno dopo e dovette sottoscrivere la sua abdicazione in favore della regina Anne, che divenne imperatrice di Svezia e Finlandia. Poi venne portato in Inghilterra, dove verrà tenuto in un esilio dorato fino alla morte, giunta in una residenza di campagna del Kent.
I prussiani e i francesi tremarono, ma Anne era più che soddisfatta e propose la pace a Louis e Friedrich se avessero smesso di attaccare l’Olanda e di aiutare i nazionalisti svedesi e finlandesi.
Il re di Francia decise di accettare, perciò abbandonò il territorio olandese dedicandosi completamente a sistemare i nemici asburgici e romani.
65.000 francesi al comando di Villeroi intervennero in territorio germanico, affiancando i prussiani e ottenendo la vittoria di Nassau nell’agosto del 1710. Basileios vide cadere 12.000 romani e 9.000 asburgici e si dovette ritirare fino a Praga. Non sarebbe durato molto se Eugenio non avesse travolto Tallard e Louis in Borgogna, spostandosi poi in Lorena e tagliando le comunicazioni dell’armata francese in Germania con la madrepatria. Louis dovette richiamare indietro Villeroi, che si confrontò a lungo con Eugenio nell’autunno e, dopo una pausa invernale, nella primavera del 1711.
Ad aprile, con la battaglia di Philippsburg, il magister militum riuscì a respingere preponderanti forze francesi, ma rimase comunque sulla difensiva visto che stava sopraggiungendo un’armata comandata dal sovrano francese da ovest. Da due anni il comandante romano non riceveva che pochi rinforzi e ancor meno rifornimenti, ma finalmente fu raggiunto da due legioni e da alleati balcanici e coloniali, che gli permisero di infliggere un’ulteriore sconfitta a Louis a Verdun, il 14 maggio.
Basileios, ottenuti rinforzi ancora più consistenti, marciò con 80.000 uomini a nord, ma questa volta fu severamente sconfitto dai prussiani a Lützen e a Jena, in una duplice battaglia che gli costò 1/3 degli effettivi tra caduti, prigionieri e dispersi.
Le perdite avversarie erano state ugualmente molto pesanti, quindi il sovrano prussiano era ormai propenso alla trattativa.
Louis avrebbe voluto continuare il conflitto, conscio che le risorse alleate erano allo stremo e che il solo Eugenio non poteva essere da tutte le parti, ma dovette acconsentire. La vittima del conflitto fu, come al solito, la Germania.
Il lavoro di accentramento fatto dalla dinastia Wallenstein fu completamente distrutto dalla Pace di Francoforte del 1712, dove fu deciso che il Reich germanico sarebbe passato come titolarità a Ioseph d’Habsburg. Ogni Stato tedesco avrebbe potuto avere una politica internazionale, militare ed economica propria e svincolata dal kaiser, tranne l’obbligo – peraltro solo sulla carta – di non muovergli mai guerra. L’elettorato di Brandeburgo sarebbe scomparso, diventando regno di Prussia, con a capo Friedrich III con il nuovo nome dinastico di Friedrich I. Al nuovo regno sarebbero passate la Pomerania svedese, alcuni territori in Westfalia e qualche lembo di Sassonia e metà della Slesia. Louis avrebbe ottenuto la Lorena e l’Alsazia, con le città di Strasburgo, Philippsburg e Metz, oltre alla Franca Contea, che venne scorporata dal Reich.
E l’Impero Romano? Basileios ottenne solo le ultime terre ungheresi e austriache rimaste a sud del Danubio, escluse le città di Budapest e Vienna con il loro entroterra, insieme ad una striscia di terreno oltre i Pirenei, in suolo francese. Un magro bottino rispetto ai migliaia di caduti e alle tante spese sostenute.
Ma non ci sarebbe stato tempo per rifiatare, infatti nel 1715 l’Impero fu invaso da un ex alleato: la Russia.
Come abbiamo già accennato, lo tzar Pëtr I stava rammodernando il suo Stato, portando innovazioni ed elementi occidentali nel proprio paese. Nel 1702 aveva varato una riforma religiosa, militare, navale e amministrativa su modello di quella di Ioannes IX. Nel 1705 aveva guerreggiato con gli svedesi in Ingria, cercando lo sbocco al mare con scarso successo. Occupato da una guerra con tartari, kazaki e siberiani ad est, si ripresentò in occidente solo sei anni dopo.
Nel 1711 trattò con gli inglesi per l’acquisto di Ingria, Estonia e Livonia. In quelle terre, sulle rive del fiume Neva, fondò la città di San Pietroburgo, che diverrà la nuova capitale sostituendo Mosca. Agli inglesi rimase il dominio delle città portuali come Reval, Riga e Kronstadt, ma come basi commerciali e fortezze, mentre il territorio passò ai russi.
Nello stesso anno invase la Polonia, occupando molti territori e ottenendo così Kiev, Smolensk, Chernigov e Poltava con la Pace di Vilna nel 1713.
Nel 1715 decise di rivolgere le sue mire sull’ultima entità statale rimasta nell’area, il principato di Crimea, vassallo di Costantinopoli fin dalla prima metà del XVI secolo. 70.000 russi puntarono sulla capitale Azov, travolgendo le forze del prinkeps Mikhael IV presso la confluenza di fiumi Don e Donez.
Dopo aver visto che i reclami alle vecchie alleanze e ai vincoli dovuti alla corona concessa un secolo prima da Costantinopoli ai sovrani russi, Basileios dichiarò guerra a Pëtr. Eugenio fu incaricato di impegnare 50.000 romani in aiuto del povero Mikhael, coadiuvato da un operazione valacco-moldava che, dalla regione dello Jedestan, si sarebbe mossa verso Poltava e Kiev. Fu anche preparata un’operazione de parte degli strategoi di Armenia e Georgia verso le fortezze russe nel Caucaso e sul Caspio.
Dopo la caduta di Azov nell’estate del 1715, Mikhael si era rifugiato nel campo di Eugenio con pochi seguaci, seguendolo poi nella sua avanzata dal Vallum Tartarorum verso la steppa ucraina.
Il primo obiettivo del magister militum praesentalis fu la fortezza di Poltava, da dove i rinforzi e i rifornimenti russi giungevano nel settore. La guarnigione resistette per dieci giorni, ma poi capitolò dopo un assalto alla baionetta dei legionari, preceduti da un pesante bombardamento.
Il 4 agosto Pëtr si spostò da Azov per riprendere il nodo strategico, ma venne respinto a metà mese e battuto il 27 a Bjelgorod.
Ricevuti i rinforzi di valacchi e moldavi, Eugenio ordinò un’avanzata verso Kiev, dove lo tzar oppose una strenua resistenza. Caddero sul campo 26.000 russi, ma l’offensiva fu bloccata, anche perché i rifornimenti scarseggiavano e il Savoia dovette tornare a Poltava, dove fu raggiunto da 8.000 cosacchi che offrirono la loro alleanza in cambio della creazione di uno Stato ucraino indipendente sia da Pëtr che da Mikhael. Il magister militum accettò, e con il loro aiuto mosse di nuovo a nord.
Kiev capitolò e Pëtr fu costretto ad implorare la pace.
Mentre iniziarono le trattative questi fece attaccare a tradimento gli alleati valacchi, moldavi e cosacchi di Eugenio che erano accampati sul Dniepr, uccidendo 10.000 e catturandone altrettanti. Il comandante romano si trovò così isolato e circondato a Kiev, con centinaia di chilometri di steppa per tornare al vallo e 100.000 russi trionfanti tutt’intorno.
Sembrava finita, ma Eugenio era pieno di risorse e si impegnò a tutti i costi per aprirsi un varco. In primo luogo aspettò per tutto l’inverno nella grande città ucraina, compiendo spericolate azioni per rubare rifornimenti e munizioni ai russi e respingendo i loro assalti. Quando arrivò la primavera, usando i cosacchi rimasti e i legionari come un ariete, raggiunse infine Poltava, dove era attestata un’armata russa che gli sbarrava il passo, trincerata e preparata a tutto.
Con i suoi uomini stanchi, provati e affamati, dovette affrontare oltre 48.000 nemici difesi da valli, trincee e cannoni.
Al grido consueto del Kyrie Eleison scagliò i suoi uomini in un assalto frontale, cosa che doveva mascherare un’azione della cavalleria, che stava aggirando le postazioni nemiche dai boschi per piombare sulla retroguardia avversaria, in modo da portare laggiù caos e morte.
I cannoni caricati a mitraglia e le salve di fucileria richiesero un durissimo pedaggio ai legionari, ma infine questi raggiunsero le linee nemiche, scaricando con i loro moschetti tutta la furia e la disperazione per il macello subito, finendo poi i superstiti con le baionette.
In tre ore caddero tre linee di trincee, ognuna bagnata dal sangue di migliaia di soldati di ambo le parti.
Nel pomeriggio la Guardia Imperiale russa, modellata ad immagine di quella del basileus di Costantinopoli, fu gettata nella mischia e rischiò di far arridere la vittoria allo tzar, ma proprio in quel momento 7.000 cavalieri sbucarono dal nulla e investirono da tergo i nemici, decidendo la giornata.
Alla fine Eugenio rimase padrone del campo, con 25.000 nemici caduti, 6.000 prigionieri e 90 cannoni catturati. Lamentava però 17.000 perdite tra morti e feriti, perciò decise di proseguire la marcia verso il Vallum e di dare così respiro ai suoi stanchi sopravvissuti.
A Chersonesos trovò ad attenderlo Basileios V, con la flotta imperiale, rifornimenti e rinforzi, oltre a tutta la corte in esilio di Mikhael di Crimea e alcuni capi cosacchi sopravvissuti.
Fu pianificata in questo luogo la campagna per l’anno successivo, che avrebbe previsto la ripresa di Azov, Poltava e Kiev, la chiusura del Caucaso ai russi e la creazione di uno Stato ucraino che fungesse da cuscinetto nell’area con a capo Mikhael. Inoltre, se tutto sarebbe andato bene, sarebbe nato anche un altro Stato sul Caucaso, o una confederazione di potentati che sarebbe stata chiamata principato di Iberia, che avrebbe sorvegliato i valichi montani come i vassalli mesopotamici difendevano Roma dai persiani.
Pëtr non era a sua volta rimasto fermo, infatti aveva radunato quasi 200.000 uomini tra Ucraina, Caucaso e Crimea, pronto a respingere qualsiasi tentativo nemico e anzi progettando di invadere la Moldavia e la porzione della Crimea in mano romana.
Eugenio, con un’azione fulminea, aprì le ostilità il 1° marzo del 1716, travolgendo le avanguardie e le linee russe al di là del Vallum Tartarorum. Qualche giorno dopo la Neon Nautikon, con a capo il basileus e il prinkeps Mikhael si presentarono davanti ad Azov, con 26.000 effettivi e 78 galeoni.
Il magister militum aveva optato per una manovra a tenaglia che con le sue forze da sud e da est e quelle valacco-moldave ad ovest avrebbe intrappolato nel sud dell’Ucraina un buon terzo dei nemici. La sua idea era valida e la realizzazione risultò perfetta. A Poltava, il 18 marzo, 55.000 russi vennero sbaragliati dalle forze combinate di romani e alleati. Pëtr, con tutto il suo stato maggiore, dovette retrocedere fino a Kiev. Eugenio gli inseguì come una muta di cani durante la caccia, ottenendo altre vittorie al confine con la Polonia e sul Dniepr.
Per aprile lo tzar dovette sbaraccare dalla capitale ucraina e trasferirsi a Cernigov.
Il comandante romano, lasciata una robusta guarnigione nel settore, si spostò con il meglio delle truppe a sud-est, stringendo il cappio sui distaccamenti russi del Kazan e raggiungendo la confluenza tra il Don e il Donetz entro maggio.
Azov, circondata da quasi 60.000 alleati, capitolò. L’entrata del Basileios, del suo generale e di Mikhael fu un trionfo e venne festeggiata per sette giorni. Naturalmente già al secondo l’infaticabile Eugenio chiese il permesso di assentarsi dalle celebrazioni e si diresse verso Astrakhan, sul delta del Volga, per tagliare completamente le comunicazioni dei russi del Caucaso con quelli del nord. Con un’azione lampo, effettuata con la sola cavalleria imperiale e cosacca, raggiunse l’obiettivo per la fine del mese, dopo un’estenuante marcia di centinaia di chilometri.
La fatica fu ricompensata con un perfetto effetto sorpresa, che portò all’immediata caduta della roccaforte, non preparata ad un assedio. A questo punto gli strategoi di Georgia e Armenia mossero a nord con le milizie dei themata, strappando cittadine e fortezze ai nemici, ormai completamente isolati e con il morale a terra.
Quando Pëtr fu di nuovo in grado di muovere a sud un nuovo, grande esercito in agosto, l’area controllata da romani e alleati andava dal Volga fino a Kiev, e tutte le terre a sud di queste linea erano sotto il loro potere.
La battaglia decisiva, che concluse quel primo confronto con il nuovo avversario, fu combattuta poco a nord di Kiev, tra 125.000 russi e 75.000 alleati. Eugenio, Basileios e Mikhael comandavano un’armata divisa in tre sezioni, lo tzar e il generale Menshikov si divisero la guida di fanteria, guardia e artiglieria l’uno e cavalleria leggera e pesante l’altro.
Eugenio, conscio della resistenza dei russi, propose di agire sulla difensiva, visto che toccava a loro passare all’attacco se volevano riguadagnare il terreno e l’onore perduto in quell’anno di campagna.
Basileios accettò il consiglio, perciò l’esercito fu disposto in una linea fortificata che comprendeva un campo principale, quattro lunghe trincee e terrapieni, fossati e postazioni di artiglieria. Una vera fortezza frutto delle altissime capacità ingegneristiche dell’esercito romano, che avrebbero reso fiero perfino il grande Iulius Caesar.
Peëtr, conscio della difficoltà dell’azione ma rassicurato dalla consistenza numerica e dal valore dei reparti che aveva portato laggiù, si risolse ad attaccare. Tra il 14 e il 16 agosto vi furono ben cinque assalti alle trincee, che furono tutti sanguinosamente respinti dall’artiglieria e dai legionari romani. Il 17 venne combattuta un’epica mischia di cavalleria, che si concluse a favore dei romani dopo tre ore di scontri.
Il 18 Eugenio mosse la sua ala destra fuori dalle trincee, invitando i russi ad un nuovo attacco. La Guardia Imperiale zarista si aprì quasi un varco, ricacciando indietro i romani e guadagnando tre linee di fortificazioni. Quando oramai si era spinta molto avanti, tirandosi dietro 1/3 delle truppe nemiche, il magister militum fece scattare la trappola, con l’intervento sul fianco di vareghi, athanatoi e scholai, supportati da cannoni e cavalieri. I rinforzi russi vennero bloccati da tre cariche di cosacchi e ussari, dando il tempo ad Eugenio di terminare l’opera di distruzione della crema delle forze avversarie, oramai stremate.
Pëtr, vista la situazione, tentò, con i restanti 30.000 uomini rimasti in riserva, di sfondare il centro sguarnito, ma vi trovò le truppe valacche, moldave e transilvane che lo respinsero ancora una volta con molte perdite. Infine una carica generale di cavalleria leggera e pesante diede il colpo di grazia ai russi, che si ritirarono lasciando sul terreno 40.000 caduti e 20.000 prigionieri. Gli alleati contarono 18.000 tra morti e feriti, con qualche centinaio di dispersi.
La vittoria era stata totale e Basileios ordinò l’avanzata verso Smolensk, per poi, nel caso, proseguire fino a Mosca. Eugenio, molto più pragmatico ed esperto, consigliò di attendere i messi dello tzar, che infatti giunsero a Cernigov qualche giorno dopo la battaglia.
Con il Trattato di Kiev Pëtr rinunciava ai territori ucraini ma recuperava Sarai e buona parte del Caucaso. Ad Astrakhan venne istituita una città-stato sotto tutela romana, affidata ad un principe armeno, Senpat Sviodo, che fu incoraggiato ad installarsi nella roccaforte con alcune migliaia dei suoi compatrioti. La colonia armena nata in quei giorni esiste ancora nonostante le epurazioni staliniane del XX secolo.
La regione che inglobava l’antico khanato di Crimea, l’Ucraina e una parte del Kazan andò a costituire il principato di Ucraina, sotto la sovranità del prinkeps Mikhael, che cambiò il suo nome dinastico da IV di Crimea a I di Ucraina.
Soddisfatti dall’ottimo risultato Basileios se ne tornò a Costantinopoli per festeggiare il trionfo nell’ottobre del 1716. Con il consueto sfarzo legioni alleati, coloniali e vassalli sfilarono sulla Mese Odos, attraversando i fori antichi e moderni, passando davanti all’ippodromo e infine giungendo ad Aghia Sophia dove, con una messa solenne, venne ringraziato il Signore per la benevolenza prestata all’autokator dei romani.
La pace regnò per un certo lasso di tempo nell’impero, con poche questioni relative ai possedimenti d’Oltremare, dei quali la politica di Basileios si disinteressò grandemente, visto che la sua concezione di dominio era associata alla supremazia sul continente europeo.
Louis XIV, grande antagonista di Roma e convinto assertore di una politica di potenza volta a fare della Francia un polo di potere occidentale opposto, si era spento nel 1715. Il figlio era determinato a seguire la strategia del padre, che era diretta al rafforzamento di frontiere e colonie in vista di accumulare risorse, alleati ed eserciti per un futuro confronto con l’impero.
Tra il 1717 e il 1722 si era allargato in Germania, sempre più dilaniata tra la fazione ecumenica di Austria e Baviera, contrapposta a quella protestante di Prussia e Sassonia. Prese quindi possesso di quasi tutti i Paesi Bassi asburgici e della Renania, trovandosi a confinare con l’Olanda, che aveva infine invaso nel 1724.
Nel 1725 una coalizione di prussiani, olandesi e austriaci decise di reagire. L’Inghilterra, che con la morte senza eredi della regina Anne era passata alla casata tedesca degli Hannover con George I, aveva separato le sue fortune da quelle olandesi ed era interessata solo al mantenimento dei domini coloniali e del Baltico, perciò non partecipava al conflitto.
Viste le due vittorie di Utrecht e Spira ottenute dai francesi nel 1726, la presa di Amsterdam e di Monaco per la fine dell’anno, si richiese un nuovo intervento romano per riportare l’equilibrio in quel settore, sempre fronte di rischi per Roma fin dalle invasioni di Galli nei primi secoli di vita dell’Urbe.
Un sessantenne Eugenio venne spedito di nuovo alla frontiera francese con 40.000 uomini. Davanti a lui aveva quasi 90.000 francesi, mentre oltre 120.000 agivano in Germania e Olanda. L’anziano generale guidò personalmente un attraversamento del Rodano presso Vienne, entrò in Borgogna e sconfisse separatamente le due parti in cui si era diviso l’esercito francese che tentava di stringerlo in una manovra a tenaglia.
Marciò ancora a nord, raggruppando forze wurttemburghesi, bavaresi e austriache sbandate nei due anni precedenti e sconfisse ancora i francesi a Strasburgo, tagliando le vie di collegamento tra le armate nemiche in Germania e quelle in patria. A questo punto venne raggiunto dagli asburgici e con 90.000 uomini invase la Francia, puntando su Parigi.
Louis XV dovette richiamare ogni effettivo disponibile e i suoi migliori comandanti, che affrontarono una battaglia di logoramento nella zona occupata delle fortezze strategiche della Lorena. In quattro mesi i primi persero 36.000 uomini, gli alleati 25.000. Fu una sconfitta per il sovrano transalpino, ma l’avanzata di Eugenio era stata fermata dalla ragnatela di postazioni fortificate e cittadelle francesi.
L’anno seguente la campagna ricominciò, volta a contenere i francesi in Lorena e a far sparire ogni guarnigione e armata di Luigi in terra tedesca. Vennero prese Strasburgo, Spira, Treviri, Lussemburgo e Colonia con lunghi assedi. Le operazioni trascurarono di nuovo l’Olanda, che venne rioccupata dai francesi. Solo nell’agosto del 1728 Eugenio e Friedrich Wilhelm di Prussia mossero verso la Frisia, ma vennero bloccati prima dalla resistenza della guarnigione francese di Brema, che capitolò solo alla fine di ottobre, poi dal cattivo tempo che in quell’anno iniziò prima nel nord, rendendo strade e sentieri impraticabili.
Basileios, stufo della situazione, aveva optato per inviare un’altra armata che invadesse dalla Spagna l’Aquitania e alleggerisse la pressione sul suo comandante, ma questa si impantanò negli assedi delle fortezze francesi che ripercorrevano in maniera speculare la linea del Vallum romano dei Pirenei. Quando poi 36.000 francesi si fecero sotto, il magister militum Francisco Acũna optò per riguadagnare la frontiera senza aver raggiunto alcun risultato.
Nel 1729 Eugenio poté infine muovere in Olanda, in quanto reputava che laggiù si sarebbe potuta decidere la campagna.
Con le battaglie di Naarden e Kleve spezzò la resistenza francese, ma i suoi alleati asburgici e bavaresi si fecero battere ad Aquisgrana, perciò dovette portare aiuto verso di loro. In sua assenza i prussiani riuscirono a respingere i francesi a Utrecht, ma si fermarono e non avanzarono oltre.
Solo dopo la battaglia-assedio di Namur, dove vinse perdendo più uomini del nemico, Eugenio si poté dirigere di nuovo a nord, cogliendo risultati a Bruxelles e Breda, dove isolò senza combattere 15.000 francesi e riuscì a farli arrendere. Louis, esausto, chiese un armistizio di alcuni mesi. Karl VI d’Austria e i notabili olandesi accettarono, costringendo Eugenio a fare altrettanto.
Nel 1730, quando le ostilità ricominciarono, la Russia ebbe la bella idea di attaccare da tergo l’impero.
Eugenio venne così richiamato a Costantinopoli per essere mandato in aiuto agli ucraini, chiudendo le falle aperte dal malgoverno di Mikhael I e da suo figlio Konstantinos nei domini ottenuti solo una decina di anni prima.
Anna, nuova tzarina, aveva deciso di riprendersi l’unico settore dove i suoi predecessori avevano fallito, muovendo immensi eserciti a sud. Poteva avvalersi inoltre di decine di migliaia di nuovi soldati, ottenuti nelle missioni di conquista e colonizzazione al di là degli Urali. Siberiani, turchi del Volga, tartari, uzbeki e mille altre etnie vennero scagliate sulle schiere romane e alleate, riportando alcune vittorie sulle frontiere ucraine. L’ultima aveva isolato Kiev, ora sotto assedio.
Konstantinos I, nuovo prinkeps d’Ucraina, si era nuovamente rifugiato a Costantinopoli ad implorare aiuto. Basileios dovette così ricorrere all’onnipresente generale, che spedì senza tanti complimenti nelle steppa con 30.000 uomini e poco denaro. Eugenio, vista la disparità delle forze, si occupò di reclutare nuovi effettivi in loco e ottenere il sostegno dei formidabili cosacchi, eredi dei conquistatori mongoli del XIII secolo.
Il loro capo, Stjepan Cyelmenevic, gli fornì 9.000 cavalieri in cambio del riconoscimento dell’autonomia di una vasta area vicino a Poltava, portando la sua armata a circa 50.000 uomini, con i quali si diresse verso la capitale del principato. Dopo aver liberato l’area e risalito il fiume, scontrandosi con le avanguardie nemiche, si trovò la strada sbarrata a venti chilometri da Kiev il 28 giugno.
90.000 russi si avventarono sulle schiere romane come un mare in burrasca contro una scogliera. Come se fossero stati fatti di ghiaccio, i veterani di Eugenio riversarono un disciplinato fuoco di fila sui nemici, decimandoli e mandandoli in rotta. Dopo alcune ore di cariche, il magister militum decise ad ordinare un assalto generale alla baionetta che, dopo un intenso fuoco di copertura effettuato dall’artiglieria, gli valse il possesso di due villaggi che erano il cardine tra le postazioni nemiche.
Spezzato il fronte avverso, ordinò una carica di kataphraktoi che separò definitivamente l’ala destra russa dal resto dell’armata, annientandola poi separatamente. Incalzò infine il fianco sinistro e il centro, mandando in mischia tutte le sue riserve e annientando la maggior parte delle forze nemiche, mentre solo i reparti di cavalleria si ritirarono con poche perdite.
Alla fine della giornata i russi avevano rimediato un ennesima, cocente, sconfitta. 20.000 caduti e altrettanti prigionieri, contro i circa 11.000 romani morti o feriti. Eugenio entrò in possesso di 36 stendardi e 100 cannoni, con i quali entrò trionfante a Kiev come un liberatore, alla testa delle truppe.
Immediatamente Anna dovette inviare suoi ambasciatori a Costantinopoli per implorare la pace.
Nonostante il gran numero di vittorie e successi in campo aperto di Eugenio, L’impero non aveva però ottenuto sostanziali vantaggi materiali, di dominio o economici, di alcun tipo. Anzi, il regno di Basileios, tutto incentrato sulla distruzione del piano di riforme iniziato da Phokas e su guerre combattute per prestigio ma senza alcun obbiettivo strategico – con la solo eccezione della creazione dello Stato-cuscinetto ucraino, aveva dilapidato il tesoro e portato al limite della sopportazione le finanze statali e l’esercito.
La mancanza di un efficiente controllo statale nei themata, che era in declino dai tempi Andronikos V, aveva aumentato la corruzione e la povertà nei ceti economici fondamentali per la tassazione statale: piccoli commercianti, liberi contadini e piccoli artigiani. Al loro posto, come altre volte nei periodi di decadenza imperiale, si stava lentamente affermando un ceto di notabili della capitale, burocrati di provincia e aristocratici che cercavano di emanciparsi sempre di più dal potere centrale di Costantinopoli, che nella loro ottica gli trascurava per la maggioranza del tempo e si presentava solo quando c’erano da chiedere reclute per l’esercito e le tasse.
I commerci, l’economia e l’industria, al centro dei piani economici di sovrani lungimiranti come Alexios VI, Isakios III, Basileios IV e Ioannes IX erano stati accantonati per obbiettivi di più ridotta portata, che non tenevano conto del potere e dell’influenza crescente in questi settori negli stati emergenti come Regno Unito, Prussia e Francia.
Le vittorie militari di Eugenio mascherarono tutto questo, facendo pensare a corte non solo che tutti questi problemi non vi fossero, ma perfino che si stesse rientrando in una fase di predominio e di egemonia mondiale.
Gli ultimi anni di vita di Basileios saranno impegnati a progettare un’invasione per la conquista definitiva della Francia, un’offensiva navale contro l’Inghilterra e la rioccupazione delle colonie che negli anni passati erano state perse per la noncuranza e il disinteresse dello scacchiere oceanico e l’impreparazione di una marina adeguata alla bisogna. Tutti sogni che si infransero nei decenni successivi.
Alberto Massaiu
Leave a reply