Gli anni che seguirono all’umiliazione della Prussia furono i più felici per il grande sovrano. Ormai tutti lo temevano e il suo nome era sussurrato con sacro terrore dai generali che dovevano affrontarlo in combattimento. All’inizio in molti lo paragonarono al celebre Friedrich II di Prussia, che era stato capace di tenere testa a nemici molto più forti di lui nei tanti campi di battaglia di Germania ed Europa Orientale appena un cinquantennio prima, ma in seguito i confronti passarono a Caesar, Hannibal Barca o lo stesso Alexandros il Grande.
Solo i britannici rimanevano tenacemente ostili, consapevoli che la loro flotta era capace di tenere a bada la marina imperiale. Ma la domanda che si facevano tutte le corti del continente era: “Per quanto tempo ancora?”.
Napoleone decise di passare la primavera in Normandia, sorvegliando la flotta con cui aveva deciso che avrebbe sottomesso l’ultima, grande avversaria prima che questa chiamasse in causa l’unico rivale rimasto sul campo nell’intero continente: la Russia.
Quell’estate, però, fu la natura a bloccare l’imperatore. Dalla parte opposta del mondo, infatti, il 15 Aprile del 1806 esplose nelle isole della Sonda il vulcano Tambora. L’eruzione vulcanica fu talmente devastante da abbassare la montagna che ospitava la camera lavica di oltre 1.000 metri. Stime svolte ai nostri giorni affermano che oltre 150 miliardi di metri cubi di roccia, materiali vari e cenere si riversarono nell’atmosfera, oscurando il sole per mesi e facendo precipitare l’intero pianeta in una piccola era glaciale, tanto da far passare alla storia il periodo dal 1806 al 1808 come gli “anni senza estate”.
Nella regione pacifica in cui si verificò l’eruzione, il conseguente terremoto e il maremoto che scagliò sulle splendide isole onde alte fino a 40 metri mieterono oltre 80.000 vittime in poche ore, mentre a causa delle carestie scoppiate in ogni angolo della terra a causa del freddo furono centinaia di migliaia i morti negli anni successivi.
Ad ogni modo, quel cambiamento climatico forzò tutti a più miti consigli. Con le rispettive Nazioni sull’orlo della fame non si potevano tenere immensi eserciti sul piede di guerra. L’invasione anfibia della Gran Bretagna venne posticipata a causa del continuo brutto tempo. Durante Giugno e Luglio piogge invernali e terribili burrasche spazzarono la Manica, rendendo pericoloso l’imbarco di un corpo di invasione. Allo stesso tempo, però, anche i mercantili che portavano derrate alimentari e altri prodotti nelle isole assediate diminuirono, perciò Londra contattò direttamente Napoleone con proposte di tregua, seppur non ancora di pace.
Il sovrano si prese il suo tempo, facendo attendere i delegati inglesi per due settimane prima di concedere loro udienza nello splendido palazzo che aveva acquistato non lontano da Parigi, capitale di quei francesi che da alleati sembravano sempre più dei vassalli.
Alla fine si giunse ad un accordo relativo all’uti possidetis, in cui i britannici dovettero riconoscere la creazione della Germania Magna, abbandonare le pretese sull’Hannover, e accettare l’occupazione dell’Olanda da parte della Francia. In cambio poterono dividersi i suoi domini coloniali rimasti, specialmente in Indonesia, India e Caraibi, con Costantinopoli. Tramontava così, dopo un paio di secoli di storia, l’impero coloniale olandese.
Napoleone era stato molto attento a non far includere, nelle clausole della pace, quanto stava avvenendo in America settentrionale. Tenere aperto il conflitto tra Londra e i coloni ribelli degli Stati Uniti era comodissimo per distrarre risorse dall’avversario senza sporcarsi direttamente le mani, perciò continuò a rifornire Washington con carichi moschetti, cannoni, denaro e polvere da sparo dalle colonie romane dell’America meridionale.
Il governo di Sua Maestà sapeva benissimo quello che stava avvenendo, ma gli agenti dell’imperatore erano stati perfetti, utilizzando contrabbandieri di varie nazionalità per quell’operazione, non lasciando dietro di loro prove nette del coinvolgimento diretto di Costantinopoli.
Messa al suo posto l’avversaria, Napoleone ordinò di far rientrare la flotta oceanica nei porti di Bordeaux, La Coruña e Lisbona, mentre le legioni vennero riportate a guardia dei sempre più vasti confini che l’Impero Romano manteneva dall’Atlantico fino al Mar Rosso.
L’imperatore si concesse quindi un nuovo trionfo a Roma, seppur più sobrio rispetto a quello precedente, per poi muovere verso Costantinopoli, dove ebbe finalmente modo d’incontrare il figlio primogenito Napoleone, di ormai quattro anni, il secondogenito Napoleone-Costantino, l’ultima nata Helena e la moglie Eudoxia. Ma il suo dinamismo non gli permetteva di restare sereno in un luogo, con il solo conforto della vita familiare. Sfruttò quindi i mesi autunnali per recarsi prima a Gerusalemme, in cui visitò i restauri di quella che venne chiamata la “Triade della Tolleranza”, con la Basilica del Santo Sepolcro, la Moschea di Al-Aqsa e il nuovo Tempio di Salomon da lui fatto ricostruire.
Venne accolto nella grande piazza che si era auto-intitolato dalle più alte cariche religiose dei tre grandi monoteismi presenti in città, il patriarca di Gerusalemme Leo IX, il gran muftì Sulayman e il rabbi capo Kaleb. Tutti e tre benedirono la famiglia imperiale e ringraziarono la munificenza e la saggezza del grande sovrano. Ci fu un breve momento di imbarazzo quando Napoleone volle vedere l’immenso tempio alto 30 metri di Roma Victrix che aveva innalzato in città, in quanto i tre religiosi non vedevani di buon occhio quel revanscismo pagano, ma nessuno ebbe l’ardire di muovere alcun appunto all’augusto.
Per Natale la famiglia con la corte si spostò infine in Egitto, con una fastosa vacanza sul Nilo dal delta fino alle prime cataratte dell’estremo sud. Fu un’azione di propaganda ed esplorazione, in quanto Napoleone portò con sé stuoli di studiosi, ingegneri, archeologi, linguisti, antropologi per analizzare a fondo l’antica civiltà dei faraoni. Fu in questo clima entusiastico che venne collocata nel Grande Museo di Alessandria, voluto dal sovrano, la stele trovata a Rosetta pochi anni prima. L’eccezionale reperto conteneva un testo di epoca ellenistica con triplice versione in geroglifico, demotico e greco. Il suo valore era immenso, tanto che agenti britannici avevano cercato di trafugarla in segreto nel 1801, senza per fortuna successo. Grazie a questo documento in pietra si poté tradurre buona parte delle iscrizioni sopra le rovine sparse per il paese e nei papiri trovati nelle tombe della Valle dei Re.
Ci sono alcuni curiosi aneddoti che nacquero in quel tardo autunno del 1806. Da questo viaggio nacque infatti sia la passione – se non la mania – dell’Egittologia, che si diffuse in tutta Europa e rimase viva per quasi tutto il secolo. Ancora, quando il clima internazionale si distese, dopo le ultime guerre tra il 1808 e il 1810, molti giovani nobili e ricchi borghesi britannici, tedeschi, russi, polacchi, svedesi, danesi e perfino americani decisero di completare la loro formazione con un viaggio alla scoperta della classicità, che passò alla storia come Grand Tour. Chi era meno benestante si accontentava dell’Italia, ma chi poteva permetterselo visitava Costantinopoli, la Terra Santa e l’Egitto, con la costosissima crociera sul Nilo che divenne un obbligo per i più privilegiati tra i rampolli del vecchio e del nuovo mondo.
Ritornato a nord, Napoleone proclamò la volontà di riprendere e completare il lavoro iniziato nel 1622 dal suo grande predecessore, Basileios IV, ovvero l’apertura di un canale presso Suez, che avrebbe collegato il Mar Mediterraneo con il Mar Rosso, tagliando per sempre la lunga rotta che obbligava i navigli a circumnavigare l’Africa per andare in India ed Estremo Oriente.
Detto fatto, l’imperatore nominò una commissione di architetti e ingegneri di altissimo profilo, romani e stranieri tra cui francesi, tedeschi, fiamminghi e perfino due americani, a cui assegnò l’onere dell’opera. Mise a disposizione dei progettisti fondi illimitati, purché l’opera fosse completata in tempi brevi. Purtroppo l’impresa si rivelerà troppo impegnativa per la tecnologia di quegli anni, e con ritardi e sospensioni egli non lo vide mai completo. Fu suo figlio, Napoleone II, ad inaugurarlo fastosamente con una cerimonia degna degli antichi faraoni nel 1848.
Sembrava quasi che il tempo si fosse fermato e che il grande augusto potesse dedicarsi al benessere e la gestione dell’Impero Romano, preso dalla febbrile volontà di rendere le sue strutture, le città e gli abitanti più moderni e razionali.
Eppure un’ultima prova bellica aspettava alle porte Napoleone. Tutto il 1807, complice un tempo inclemente che in tante parti della terra venne visto dai credenti di ogni fede come l’inizio della fine dei tempi, passò in pace, ma nell’anno successivo il clima iniziò a migliorare, i raccolti tornarono ad essere sufficientemente abbondanti e gli eserciti si misero nuovamente sul piede di guerra.
Erano passati due anni da quando le armi erano tornate a tacere in tutta Europa e Austria, Russia, Prussia e Gran Bretagna avevano iniziato a stringere nuovi contatti per ristabilire un equilibrio meno sbilanciato rispetto alla situazione politica contingente. La loro paura era quella che l’Impero Romano potesse ritornare ad essere la potenza egemone dell’Europa, se non del mondo, come era quasi accaduto tra il XVI e il primo XVII secolo. Il loro primo obiettivo era quello di “liberare” la Francia, che nel loro sofisticato gergo diplomatico significava sostituirvi il controllo romano con il loro. Avevano anche il candidato perfetto: Charles-Philippe, comte d’Artois, zio paterno dell’attuale sovrano Louis XVII.
Napoleone, per una volta, fu colto alla sprovvista quando una rivolta fatta scoppiare ad arte da agenti britannici a Parigi fece cadere il suo protetto. Per evitare rischi, Charles-Philippe, incoronatosi in fretta e furia con il nome dinastico di Charles X nella cattedrale di Saint-Remi, a Reims, fece eliminare con il veleno il nipote. Il primo ministro dello sfortunato sovrano, Charles-Maurice de Talleyrand-Périgord, evitò di poco i suoi assassini e si rifugiò nella Francia romana, implorando l’aiuto dell’imperatore. Quelli che passarono alla storia come “I Fatti di Parigi” durarono un paio di settimane, tra il 22 maggio e il 13 Giugno del 1808. La premeditazione era stata tale che in quei pochi giorni migliaia di membri della fazione filo-romana in tutto il paese vennero arrestati e almeno 300 impiccati, decapitati o fucilati.
Charles X chiese immediatamente il sostegno di Austria, Prussia, Russia e Gran Bretagna per ristabilire la pace e la libertà sul continente, proclamando che la Francia sarebbe ritornata ad essere forte ed unita come un tempo.
Napoleone era furioso, ma morse il freno per vedere se riusciva a staccare con un atteggiamento diplomatico almeno qualche paese dalla coalizione che si stava formando contro di lui. Mentre gli ambasciatori di Costantinopoli si mettevano in moto egli inviò ordini di mobilitazione alle flotte e agli eserciti ai quattro angoli del mondo, affinché si fosse preparati a qualsiasi colpo di mano nemico. Nel frattempo iniziò a radunare in Tracia e in Lombardia due grandi eserciti di manovra, con a capo Ottaviano Medici-Gonzaga e Vlad Dracula.
Le risposte non si fecero attendere. Dichiarazioni di guerra ufficiali giunsero al Palazzo Sacro sul Mar di Marmara da parte di San Pietroburgo, Vienna e Londra. Solo Berlino, ancora scottata dalla batosta subita, rimase neutrale, per quanto anch’essa aveva ordinato la mobilitazione. Inaspettatamente, però, Napoleone ricevette risposte positive da Polonia, Danimarca e Svezia, quest’ultima spinta dalla sua dal fatto che gli tzar avevano occupato la Finlandia nell’estate precedente con un’azione a tradimento.
L’imperatore aveva deciso la sua strategia. Avrebbe mantenuto sulla difensiva le sue forze nelle steppe al di là del Mar Nero e nei Carpazi, in cui sarebbe stato supportato dagli Stati clienti di Ucraina, Moldavia e Valacchia, impedendo che i russi giungessero rapidamente in aiuto dell’Austria. Allo stesso modo avrebbe contenuto con poche forze scelte i francesi di Charles X, contendendo ogni città e fortezza in territorio transalpino. Avrebbe invece concentrato come un maglio le due masse di manovra che aveva predisposto in Italia e nei Balcani contro la sola Austria, annichilendola per sempre.
Inscenò anche una commedia ai danni dei nemici, inviando l’intera flotta di stanza a Costantinopoli in Crimea, inalberando il vessillo imperiale per far credere di stare per ripetere la strategia di sette anni prima. I russi, allora, bloccarono tutti i reparti che stavano partendo per la Germania e concentrarono 300.000 soldati sull’immenso fronte ucraino e del Caucaso.
La loro attesa di un attacco fu vana. Il 28 agosto, infatti, Napoleone entrava con 250.000 uomini nei territori asburgici con una manovra a tenaglia. Il sovrano di Vienna, Franz, si era appena rimangiato la promessa di abbandonare il titolo di kaiser del Sacro Romano Impero della Nazione Germanica, nella speranza di recuperare l’antica influenza su di un sistema politico ormai morto e sepolto, quando venne informato dell’invasione.
I suoi generali gli avevano promesso tempo, tutti tratti in inganno dalle notizie russe di una campagna di Napoleone rivolta contro di loro, e le sue armate erano sparse tra Austria, Ungheria, Transilvania, Boemia e Galizia. Il risultato fu catastrofico. Senza quasi combattere le legioni “divorarono” con la loro superiore capacità di marcia e manovra i reparti avversari prima che potessero opporre una valida resistenza. L’intero esercito imperiale asburgico, forte di 200.000 uomini, sparì quasi senza un solo fatto d’armi che ne salvasse l’onore.
L’unica resistenza venne tentata alle porte di Vienna dai reparti di granatieri, corazzieri e jäger della Guardia, che vennero spazzati via dopo un breve ma furioso combattimento, complice l’assoluta disparità numerica della forze in campo.
La capitale austriaca venne occupata e Franz dovette rifugiarsi a Berlino, mentre ogni angolo del suo dominio cadeva in mano nemica o insorgeva, proclamando l’indipendenza. Seduto sul trono del Palazzo Imperiale di Hofburg, Napoleone accolse calorosamente i delegati ungheresi, transilvani e tedeschi, a cui promise ampie autonomie di governo e la libertà dall’arbitrio di Vienna.
Nel frattempo incamerava così le loro truppe, inserite all’interno di reparti di auxilia di carattere nazionale: bavaresi, turingi, boemi e così via. Tutti loro furono inviati a nord, per tenere buona e in pace la Prussia, mentre a questo punto ci si poteva dedicare a rimettere al suo posto la Russia.
Il primo teatro di scontro non fu ancora l’Ucraina, come era successo in tanto conflitti nei due secoli precedenti, ma la Polonia. Józef Poniatowski, membro della più alta aristocrazia e legato alla stessa casa reale ormai in declino, era un grande ammiratore dell’imperatore. Fervente nazionalista, aveva il sogno di restaurare l’antica grandezza della Polonia-Lituania, spazzata via nel secolo precedente dalla forza concentrica di russi, prussiani e austriaci, aiutata dalla debolezza istituzionale interna.
Napoleone poté sfruttare l’amichevole rapporto con i suoi nuovi alleati per portare 200.000 legionari sul fianco sinistro nemico, costringendo così i russi ad abbandonare i loro piani d’invasione di Caucaso e Ucraina per correre ai ripari sul nuovo fronte. Ai romani si aggiunsero ben 50.000 polacchi, tra cui i celebri reggimenti di lancieri e di ussari alati, formidabili cavalieri, 15.000 tedeschi inviati dallo Stato cliente della Germania Magna e 20.000 valacchi, transilvani e moldavi.
Contro di loro marciava il miglior comandante zarista, Michail Kutuzov, un astuto generale sessantenne con quattro decenni di servizio sotto le armi in Europa, Asia Centrale ed Estremo Oriente. Ai suoi ordini poteva contare 280.000 soldati tra regolari della Guardia, fanteria, artiglieria e cavalleria di dragoni e corazzieri, a cui si sommava una milizia poco addestrata ma determinata e i temibili cosacchi del Don.
Napoleone voleva farla finita in fretta per muovere contro la Francia, perciò avanzò con risolutezza fino a Lublino, dove ricacciò indietro con una sanguinosa battaglia le avanguardie nemiche. Kutuzov, però, fu abile ad evitare una sconfitta decisiva e si ritirò facendo terra bruciata fino a Chelm. Qui allestì un campo fortificato e accettò lo scontro per una seconda volta, in cui nessuno dei due prevalse e costò ad entrambi i contendenti 10.000 tra morti e feriti per parte.
A questo punto arrivò l’autunno con le sue piogge, e già a Novembre il gelo intenso obbligò i belligeranti a rientrare nelle proprie basi. L’imperatore aveva trionfato su un nemico su quattro e aveva messo sulla difensiva il più pericoloso sul piano terrestre, ma non era riuscito ad assicurarsi la vittoria ad est prima della fine del 1808, e brutte nuove giungevano da occidente, in cui i britannici erano sbarcati in Aquitania e, sotto l’abile comando di sir Arthur Wellesley, stavano mettendo all’angolo le forze imperiali lì stanziate.
Il nuovo anno avrebbe portato nuove sfide, e Napoleone era pronto a coglierle.
Alberto Massaiu
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