Fu la più grande partita a scacchi della storia, giocata tra le due più potenti e ambiziose nazioni del loro tempo nello sconfinato palcoscenico dell’Asia Centrale, che andava dalla Persia e il Caucaso fino all’Afghanistan, lungo l’antica Via della Seta e gli allora sconosciuti – agli europei, perlomeno – passi montani che scendevano verso l’India. Le sue pedine furono intrepidi ufficiali, esploratori, mercanti, avventurieri che seppero scrivere infine pagine di coraggio, sacrificio, spregiudicatezza, lealtà, ambizione. Alcuni tra loro riuscirono a stampare a lettere di fuoco il loro nome nelle cronache del proprio paese, ottenendo fama e onori, mentre altri conobbero un fato terribile per mano dei tanti pericoli legati a quelle terre piene di opportunità, ma anche di insidie fatali.
I britannici lo chiamarono The Great Game oppure Tournament of Shadows, i russi Турниры теней (Turniry Teney), ovvero il Torneo delle Ombre, in quanto fu giocato non solo da eserciti in marcia, ma soprattutto da spie.
Il suo raggio d’azione è stato grandioso, degno della migliore epopea epica: più di ottanta anni di attività che ebbero luogo in oltre sette milioni di chilometri quadrati. A scriverla furono uomini d’azione, ingegno e fibra fisica e morale immensa, che ardevano dal desiderio di disegnare sulle mappe un numero sconfinato di territori che sarebbero serviti, prima o poi, a decidere il destino di un conflitto che vedevano come inevitabile tra Gran Bretagna e Russia.
Ma come iniziò il Grande Gioco?
Per comprenderlo dobbiamo andare un po’ più indietro nel tempo, fino ad una persona che da sola è stata capace di dare il nome ad un’epoca storica intera: Napoleone Bonaparte.
Condottiero, statista, sovrano e legislatore al contempo pragmatico e visionario, fin dalla giovanissima età aveva previsto che la più grande nemica della sua patria d’adozione francese, la Perfida Albione, si sarebbe potuta sconfiggere solo sottraendole la sua maggiore fonte di profitti, ovvero l’India. Nel 1798, quindi, aveva convinto il Direttorio di Parigi ad inviarlo in Egitto con meno di 40.000 uomini e un centinaio di cannoni.
Nella sua idea strategica di amplissimo respiro quello sarebbe stato il trampolino di lancio per raggiungere, o via terra tramite la Persia o via Mar Rosso le grandi ricchezze del subcontinente, in cui la Gran Bretagna stava ormai stabilendo una sua netta supremazia dopo le vittorie ottenute durante e dopo la Guerra dei Sette Anni (per chi vuole approfondire questo conflitto, ne ho parlato in un altro articolo). Il paradosso è che la sua azione fu incidentalmente rafforzativa degli interessi britannici in India.
Sfruttando lo spauracchio napoleonico – che virtualmente finì già la mattina del 2 agosto del 1798, quando la flotta francese fu quasi del tutto annientata da Horatio Nelson nella battaglia della rada di Abukir – il governatore generale dell’India, il giovanissimo ma ambizioso Arthur Wellesley, impiegò gli anni fino al 1805 per espandere enormemente l’area di controllo della East India Company (EIC) destituendo diversi principi locali che simpatizzavano per i nemici di Londra. Il risultato fu che dalle originarie presidenze di Calcutta, Madras e Bombay l’area di influenza inglese si estesa a tutto il continente in modo diretto o indiretto, escluse solo le aree più esterne di Sind, Punjab e Kashmir.
A nord, invece, si profilava un’altra minaccia. Nel 1801, infatti, anche la Russia dello zar Paolo risultava se non nemica, di sicuro non alleata della Gran Bretagna. Il sovrano aveva infatti incaricato al capo dei cosacchi del Don di radunare una forza di 22.000 uomini presso Orenburg, da cui muovere verso Chiva e Buchara, e da lì a sud verso l’India, dove voleva sostituirsi come potenza europea dominante, così da sfruttare i lucrosi traffici locali. All’epoca, però, le conoscenze di russi e inglesi di quelle terre erano poche o nulle. Come ebbe a dire lo stesso zar “Le mie mappe arrivano fino a Chiva e al fiume Oxus. Al di là bisognerà che i cosacchi trovino da soli le informazioni sui possedimenti inglesi e le condizioni degli indigeni soggetti al loro dominio”.
Il risultato di questa impresa improvvisata fu un disastro. I cosacchi partirono in pieno inverno da Orenburg verso Chiva. In tutto 1.500 chilometri lungo il Volga gelato fino ad un punto imprecisato a nord del Lago d’Aral. Qui, il 23 marzo, ricevettero da una staffetta la notizia che lo zar era stato assassinato, e che suo figlio Alessandro li rivoleva in patria.
Questo stato di cose mutò dopo il 1804, quando Gran Bretagna e Russia si trovarono alleate contro Napoleone nella Terza Coalizione, situazione che perdurò fino al 1807. In risposta a questo fatto, a cui si era associato un nuovo espansionismo russo al di sotto del Caucaso, con l’annessione della Georgia e l’assedio di Erevan, capitale dell’Armenia persiana, Napoleone riuscì a stringere un accordo di alleanza con lo shāh in funzione antibritannica in cui avrebbe potuto far transitare le sue truppe fino all’India attraverso i territori persiani.
Questa situazione venne risolta da Londra con un mix di bastone, carota e pragmatismo dopo che Napoleone ebbe stretto una precaria alleanza con la Russia in seguito al trattato di Tilsit, rendendo la Francia inutile per la Persia in funzione antirussa, il paese che più di tutti era temuto dal sovrano Fath ʿAli Shah Qajar.
La Gran Bretagna, infatti, ottenne da questi che non avrebbe mai permesso a qualsivoglia potenza europea di far transitare eserciti d’invasione che avevano come obiettivo l’India nei propri territori. In cambio, questi avrebbero inviato truppe, armi e consiglieri militari per supportare la Persia in caso di attacchi da parte di potenze esterne (in pratica, la Russia), oltre che un sussidio annuo di 120.000 sterline.
Ad ogni modo i governi di Londra e dell’India – entrambi inglesi, ma che entravano spesso in competizione tra loro politicamente, ostacolandosi a vicenda – erano concordi su una cosa: le selvagge regioni del Belucistan e dell’Afghanistan, quasi del tutto sconosciute e mal mappate, erano il ventre molle del subcontinente, e la loro esplorazione in termini geografici, politici, economici e strategici doveva diventare la massima priorità.
I primi coraggiosi che decisero di accettare la sfida furono due giovani ufficiali del 5° reggimento del Bombay Native Infantry, Charles Christie e Henry Pottinger. Spacciandosi per mercanti di cavalli tartari musulmani, i due esplorarono l’immensa regione del Belucistan nel 1810, vivendo avventure e peripezie di ogni sorta – tra le quali Christie si spacciò perfino per un hajji, ovvero un pio pellegrino musulmano di ritorno dal pellegrinaggio alla Mecca – fino a che quest’ultimo non riuscì a giungere fino ad Herat, centro delle rotte carovaniere asiatiche che collegavano centri esotici e sconosciuti agli europei come Kokand, Kashgar, Buchara, Samarcanda, Chiva e Merv, ma sopratutto luogo da cui erano passate quasi tutte le invasioni dell’India del passato, rendendola una porta d’accesso d’importanza cruciale per l’intelligence britannica.
Dalle sue mura, infatti, partivano le strade che giungevano ai passi del Khyber e del Bolan, da cui un esercito sarebbe potuto calare sui domini inglesi del subcontinente.
Christie entrò nella rocca di Herat il 18 aprile 1810, e vi rimase per un mese, studiando le fortificazioni, la prosperità del luogo e il numero di abitanti, che stimò in 100.000 circa. Compiuta la sua missione, ritornò nel territorio alleato della Persia, dove contava di ritrovare Pottinger, che nel frattempo si era lanciato in un viaggio di oltre 1.500 chilometri tra i deserti e le bande di briganti del Belucistan, annotando i pozzi, i fiumi, gli insediamenti, le fazioni locali, i khan. Dai suoi diari e note, in seguito, venne redatta una prima mappa militare che indicava gli accessi militari all’India da ovest.
I due intrepidi ufficiali si rincontrarono sani e salvi a Isfahan il 30 giugno, tre mesi dopo essersi separati in quello che ora è il moderno Pakistan, dopo aver percorso quasi 7.500 chilometri su percorsi diversi, affrontando mille pericoli e patimenti di ogni sorta.
La loro impresa ha dell’incredibile, contando che avevano suppergiù una ventina d’anni a testa.
Ad ogni modo questa prima schermaglia del Grande Gioco subì uno stop nel 1812, quando lo spauracchio di Londra – Napoleone Bonaparte – entrò in guerra con la Russia, venendo sonoramente sconfitto, infrangendo il mito di invincibilità che lo aveva attorniato fin dagli albori della sua carriera sfolgorante di uomo di guerra e di Stato.
Per qualche anno, almeno fino al Congresso di Vienna del 1815, Londra e San Pietroburgo andarono relativamente d’amore e d’accordo, ma ben presto nei corridoi di Westminster iniziò a circolare la voce che ad un mostro francese se ne fosse sostituito uno ancora più pericoloso che parlava russo.
Il grande campione di questa campagna di sensibilizzazione fu Sir Robert Wilson, che in principio era stato un grande ammiratore e persino amico dello zar Alessandro. Eppure, dopo la sua partecipazione come consigliere inglese durante l’invasione della Russia nel 1812, testimone delle atrocità che vide perpetrare dai soldati – specialmente cosacchi – contro le forze francesi in ritirata, aveva cambiato idea sulla natura dell’alleato.
Nel 1817 pubblicò in maniera anonima – ma era il classico segreto di Pulcinella – un pamphlet intitolato A Sketch of the Military and Political Power of Russia, che riscosse un grande successo di pubblico, tanto da vantare ben cinque ristampe. Il cuore del saggio era che i russi, dopo la vittoria sulla Francia, puntavano alla conquista del mondo. Il primo passo sarebbe stata la presa di Costantinopoli, così da avere accesso alle acque calde del Mediterraneo, per poi passare – via Persia oppure attraverso i vari khanati asiatici al di là del Mar Caspio – all’India.
A sostegno della sua tesi indicava che lo zar Alessandro aveva ingrandito in pochi anni i suoi confini di oltre 500.000 chilometri quadrati, aggiungendo ben 13 milioni di sudditi alla popolazione dell’impero, ed estendendo le sue forze armate fino alla soglia di 650.000 unità, dalle 80-100.000 dell’era pre-napoleonica.
I semi del timore della Russia, oltretutto unico paese europeo in cui esisteva ancora la servitù della gleba e un regime autocratico lontano anni luce dal parlamentarismo di Londra, erano stati gettati.
Gli anni seguenti furono pieni di piccole azioni politiche, esplorative e militari, tra cui alcune battaglie tra persiani e russi nel Caucaso, ma la situazione rimase più o meno sotto controllo fino agli anni Trenta del XIX. Fu allora, con nuovi attori a tirare le fila a Londra, Calcutta e San Pietroburgo, che il Grande Gioco iniziò veramente.
Ma questo tema sarà oggetto di un prossimo articolo.
Alberto Massaiu
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