Iconoclastia è un vocabolo greco che viene dall’unione di due parole: eikòn, “immagine” e kláō, “rompo”. Quindi indica la distruzione delle immagini, in genere legate alla volontà (politica, culturale o religiosa) di fare completa piazza pulita del passato, rigettandolo persino nelle sue forme rappresentative esteriori.
Oggi noi parleremo del fenomeno avvenuto nell’Impero Romano d’Oriente che ha reso famosa questa definizione, ma abbiamo esempi più antichi o moderni. Ad esempio al tempo del faraone Akhenaton, in Egitto, il suo tentativo di sostituire il sofisticato e antico politeismo con il culto monoteista del sole Aton (cosa che secondo molti ha ben più di un collegamento con la cosiddetta fuga degli ebrei dalla terra del Nilo) scosse il paese fino alle sue fondamenta. Il nuovo credo non solo modificava sostanziali aspetti del credo religioso egizio, obbligando tutti ad adorare un solo dio, abolendo gli idoli e specialmente le divinità zoomorfe, proibendo sacrifici di animali, introducendo la monogamia e condannando la magia e gli incantesimi, ma soprattutto andava ad intaccare gli interessi politici ed economici del potentissimo clero di Tebe. Perciò, alla sua morte nel 1335 a.C. avvenne la prima e documentata opera di damnatio memoriae della storia, con la distruzione sistematica di tutto quello che aveva fatto.
Anche i romani, più che altro per motivi politici, comminavano questa gravissima misura per i peggiori traditori del popolo, ma quando arrivarono gli imperatori divenne comune la deturpazione di targhe, busti e statue, da cui veniva scalpellato via il nome o il volto del malcapitato, che fosse un Caligola, un Domiziano o il povero Geta, sfortunato fratello di Caracalla, che lo eliminò persino dalle “foto di famiglia” in marmo dell’epoca.
Casi più recenti, invece, sono tipici del XIX e soprattutto del XX secolo. Napoleone, che aveva posto monumenti in memoria delle sue vittorie in mezza Europa, dopo la sconfitta e la morte venne rimosso dai suoi nemici perfino nella sua vecchia capitale di Parigi, perlomeno fino a quando i francesi non ne riscoprirono l’immagine romantica ed eroica.
Peggio ancora avvenne per gli zar, che oltre che fisicamente (basta citare Ekaterinburg) vennero eliminati dai palazzi pubblici che avevano costruito per essere sostituiti con le più rozze falci e martelli, simbolo di potere bolscevico. A sua volta, dopo la caduta dell’URSS, furono le statue del compagno Lenin a cadere nei paesi che un tempo avevano fatto parte del suo sogno sovietico, per non parlare di Stalin, che venne condannato dal suo stesso successore poco dopo la morte.
Se poi vi capita di stare attenti in molti centri storici nostrani, potrete notare come negli uffici e nelle piazze risalenti agli anni ’20 e ’30 sono stati rimossi, spesso con poca cura estetica, i fasci littori e le iscrizioni fasciste, distrutte alla fine della guerra civile seguita alla caduta del regime mussoliniano nel paese.
Chiusa questa piccola visione d’insieme del fenomeno nel tempo, è ora di passare a Costantinopoli e ai suoi sovrani iconoclasti. Il punto principale che aizzò questa fazione politico-religiosa si incentrava sulla paura che la venerazione delle icone – oggi, paradossalmente, molto forte proprio nei paesi di rito greco-ortodosso – sfociasse in una forma di idolatria.
Il mondo pagano non aveva mai avuto problemi con la rappresentazione delle divinità, che riproduceva dappertutto su edifici pubblici e privati, statue, monete, vasi, armi e corazze, piatti, gioielli e via dicendo. Il problema sorse con le religioni abramitiche (ebraismo, cristianesimo e islamismo). Queste, nella loro evoluzione dottrinale plurisecolare che sfociò nel monoteismo, attribuiscono alla divinità (unica e sola) una trascendenza che supera i limiti dell’essere umano.
“Dio allora pronunciò tutte queste parole: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù: non avrai altri dei di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra il suo favore fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandi»”
Shəmōṯ – 20,1-6
“Quelli che scortavano Paolo lo accompagnarono fino ad Atene e se ne ripartirono con l’ordine per Sila e Timòteo di raggiungerlo al più presto. Mentre Paolo li aspettava ad Atene, lo spirito gli s’inacerbiva dentro nel vedere la città piena di immagini. […] E Paolo, stando in piedi in mezzo all’Areòpago, disse: «Ateniesi, vedo che sotto ogni aspetto siete estremamente religiosi. Poiché, passando, e osservando gli oggetti del vostro culto, ho trovato anche un altare sul quale era scritto: Al dio sconosciuto. Orbene, ciò che voi adorate senza conoscerlo, io ve lo annuncio. Il Dio che ha fatto il mondo e tutte le cose che sono in esso, essendo Signore del cielo e della terra, non abita in templi costruiti da mani d’uomo; e non è servito dalle mani dell’uomo, come se avesse bisogno di qualcosa; lui, che dà a tutti la vita, il respiro e ogni cosa. […] Difatti, in lui viviamo, ci moviamo, e siamo, come anche alcuni vostri poeti hanno detto: “Poiché siamo anche sua discendenza”. Essendo dunque discendenza di Dio, non dobbiamo credere che la divinità sia simile a oro, ad argento, o a pietra scolpita dall’arte e dall’immaginazione umana. Dio dunque, passando sopra i tempi dell’ignoranza, ora comanda agli uomini che tutti, in ogni luogo, si ravvedano, perché ha fissato un giorno, nel quale giudicherà il mondo con giustizia per mezzo dell’uomo ch’egli ha stabilito, e ne ha dato sicura prova a tutti, risuscitandolo dai morti»”
Práxeis tôn Apostólōn – 17,15-31
“O mio Signore, rendi sicura questa contrada e preserva me e i miei figli dall’adorazione degli idoli”
Al-Qurʾān – sūrah XIV,35
Voglio però chiarire bene un punto: nella Bibbia ci sono 73 libri per i cristiano-cattolici (46 del Vecchio Testamento e 27 del Nuovo) e 39 per gli ebrei (solo una parte del Vecchio Testamento), mentre il testo sacro islamico, al-Qurʾān, ha 114 sūre con oltre 6.000 versetti. In quella marea di parole, scritte da più mani e da più teste in epoche spesso diverse, si può trovare tutto il contrario di tutto, lasciando campo libero ai teologici e agli eretici (cioè i teologi che hanno perso).
Per questa ragione nessuna delle tre religioni monoteiste rigettano in toto (nella sua visione moderata) l’uso delle rappresentazioni figurative di paesaggi, uomini e perfino del divino. Solo in dati momenti, a seconda dello spirito e delle condizioni culturali e sociali, ci furono esplosioni di intolleranza artistica e di oscuro imbarbarimento.
Tutte però concordano nella condanna dell’opera d’arte a scopo di adorazione, pratica al contrario comune nel mondo classico, basti pensare allo Zeus di Olimpia o all’Athena Parthenos sull’acropoli di Atene, opere crisoelefantine (di avorio e oro) di fattura squisita e perdute da secoli.
Certo che il cristianesimo, innestato nel ricco substrato pagano, aveva adottato molte forme cultuali estranee alla radice culturale abramitico-semitica ebraica e musulmana. Perciò, quando l’islām divenne potente e temuto, conquistati molti territori romani cristianizzati, iniziò a condannare l’idolatria dei conquistati, che riempivano le loro chiese con statue, pitture, mosaici e icone che rappresentavano il Signore, Gesù, sua madre e un’innumerevole sequela di santi e martiri, oltre che i profeti biblici.
La loro critica, giusta o meno che fosse, trovava giustificazione in Paulos – o Saulo – di Tarso che, nella sua copiosa corrispondenza con le minuscole cellule precristiane, trovò l’occasione di proibire in maniera categorica di adorare gli idoli e di mischiarsi alle pratiche dei pagani. Il punto era che la gerarchia ecclesiale, in un mondo che sprofondava nell’oscurità dei secoli successivi alla caduta di Roma, scelse proprio di puntare sulle immagini per convertire le popolazioni, usando lo strumento artistico a cui questi erano abituati con il paganesimo.
I pagani convertiti al cristianesimo cercavano di utilizzare il sincretismo religioso mischiando le tradizioni romane idolatre alla cristianità, nel tentativo, attraverso le tesi presentate dai teologi iconoduli (favorevoli alle icone), di ribaltare un divieto divino e di “sacralizzare” l’arte, trasformandola in uno strumento di diffusione della nuova fede.
È infatti interessante notare che ad occidente il cristianesimo latino – che poi diventerà il cattolicesimo – sotto la guida del Papa di Roma rimase favorevole all’uso delle icone e delle rappresentazioni grafiche di Dio e dei santi (proprio perché lavorava sul substrato pagano), mentre ad oriente, dove l’influenza semitica, orientale e infine islamica era più presente, nacque e si sviluppò il movimento iconoclasta.
Ad onore del vero la gente comune, lontana dalle sofisticate e cavillose dispute religiose, sconfinava davvero in una venerazione quasi magica delle icone. Queste, viste come oggetti taumaturgici o ufficiali-sacrali (come un tempo erano le immagini dell’imperatore, che davano valore giuridico agli atti o ai giuramenti compiuti in loro presenza), venivano considerate come oggetti animati, tanto che alcuni raschiavano la vernice dei quadri in chiesa e mescolavano quanto ottenuto nel vino della messa, ricercando in tal modo una comunione con il santo raffigurato. Insomma tra il popolo era effettivamente diffusa la superstiziosa opinione secondo cui l’icona fosse effettivamente un luogo nel quale poteva agire il santo o, comunque, l’entità sacra che vi era rappresentata.
Per quanto eventi isolati di distruzione di icone fossero accaduti fin dall’avvento al potere del cristianesimo alla fine del IV secolo, fu solo agli inizi dell’VIII che il fenomeno assunse una piega sistematica e organizzata. Il grande protagonista di questo cambio di registro fu l’eroe che aveva salvato i romani dall’avanzata degli arabi, l’imperatore di Costantinopoli Leon III, detto l’Isaurico.
Questi, salito al potere nel 717, nel momento più buio per l’impero, dove la capitale era assediata da un’imponente armata musulmana di 120.000 guerrieri e 1.800 navi – cifre molto probabilmente esagerate, ma di sicuro molto superiori alle forze romane – guadagnò gloria imperitura sconfiggendo pesantemente le forze guidate dal fratello del khalīfa di Damasco in un magistrale assedio.
Leon era un soldato proveniente dalla più profonda Anatolia, per la precisione dalla città di Germanicea, dove era venuto in contatto con le correnti cristiane eretiche dei nestoriani, dei monofisiti e dei pauliciani. Tutti loro, influenzati dal misticismo e ascetismo orientale e più vicini alle dottrine ebraiche e islamiche, condannavano le immagini, influenzando fortuitamente il giovane che sarebbe diventato il sovrano di Bisanzio.
Leon, scosso dai una serie di disastri naturali come maremoti e terremoti che colpirono l’impero d’oriente e dalle sconfitte precedenti subite dall’avanzata araba, si lasciò convincere dai vescovi dell’Asia Minore – che all’epoca costituiva la linea del fronte contro il califfato omayyade – che imputavono tutte le disgrazie alla collera divina, dovuta all’idolatria delle icone. Probabilmente l’imperatore scelse di adottare una linea dura anche per paura di ribellioni o secessioni delle province – dette thémata – orientali dove il paulicianesimo, che per quanto eresia cristiana condannava le icone e ammirava l’austerità figurativa islamica, era molto forte.
Fu solo nel 726 che l’autokrator dei romani iniziò effettivamente a predicare e a legiferare contro la venerazione delle sacre immagini, decidendo di distruggere una grande icona religiosa raffigurante Cristo sulla porta del palazzo imperiale, la Chalkè, e sostituendola con una semplice croce, insieme ad una iscrizione sotto di essa: “Poiché Dio non sopporta che di Cristo venga dato un ritratto privo di parola e di vita e fatto di quella materia corruttibile che la Scrittura disprezza, Leon con il figlio, il nuovo Konstantinos, ha inciso sulle porte del palazzo il segno della croce, gloria dei fedeli”.
Se nei thémata orientali prevalevano sentimenti iconoclasti, non lo stesso si poteva dire in occidente e, vista la linea dura dell’imperatore, subito scoppiò una rivolta in Ellade, dove venne nominato un usurpatore chiamato Kosmas. Nonostante la rapida vittoria su quest’ultimo, Leon capì che doveva muoversi con più circospezione, cercando di convincere il Papa di Roma e il Patriarca di Costantinopoli a sostenere la sua linea religiosa. Entrambi gli diedero un due di picche e il pontefice, Gregorius II, riuscì perfino a portare dalla sua le truppe imperiali dell’exarchaton d’Italia, che minacciarono di ribellarsi a Costantinopoli e nominare a loro volta un sovrano favorevole alle icone.
Leon, sordo ad ogni richiamo alla moderazione, nel 730 emanò un editto che ordinava la distruzione sistematica di tutte le icone religiose. Di fronte all’insubordinazione del Patriarca Germanos I, contrario all’iconoclastia e che si rifiutava di promulgare l’editto se non veniva prima convocato un concilio ecumenico, l’imperatore lo destituì e pose al suo posto un suo fantoccio, Anasthasios. Il decreto venne ancora una volta respinto dalla Chiesa di Roma e il nuovo Papa Gregorius III nel novembre 731 riunì un sinodo apposito per condannare l’operato del basileus, che minacciò la scomunica per chi avesse osato distruggere le icone.
Era guerra aperta tra Roma e Costantinopoli, un preludio alla scissione definitiva che avverrà nel 1054. Leon rispose alla maniera dei soldati, prima inviando una flotta in Italia (che affondò in una tempesta), poi sottraendo Sicilia e Calabria alla giurisdizione di Roma, trasferendola a Costantinopoli, e sequestrano le proprietà terriere ecclesiastiche dell’occidente. Tutte queste misure rimasero però sulla carta in quanto i governatori italiani preferirono mantenere una posizione conciliante con il Papa, rendendo inefficaci i provvedimenti dell’imperatore.
Ma fu il suo successore, il figlio Konstantinos V, che sposò appieno la causa iconoclasta. Nei primi anni dopo la sua salita al potere nel 741 il nuovo sovrano sembrò tenere una linea moderata, condannando solo l’eccessiva devozione – quindi vuol dire che anche Leon non fu così sistematico nell’applicare i suoi editti – delle immagini poste in luoghi pubblici.
Nel 750, però, la linea cambiò e Konstantinos iniziò a perseguitare con decisione gli iconoduli, favorevoli alle immagini sacre. Nel 754, per poter rafforzare la sua posizione, convocò a Hyeria un sinodo di vescovi iconoclasti che condannò esplicitamente il culto delle icone. Il concilio sancì che chi venerava le immagini cadeva nell’errore – tradotto=eresia – dei monofisiti e dei nestoriani, perché con l’immagine di Cristo si rappresentava solo la sua natura umana e non anche quella divina.
Ad ogni modo, sofismi e giustificazioni dottrinali a parte, da quel momento si iniziò sul serio a distruggere le immagini sacre, sostituite con altre profane a tema bucolico o civile come corse dei carri, spettacoli teatrali o sfilate trionfali. Insomma, un dramma per i religiosi occidentali, ma anche uno sprizzo di rifioritura ellenistica a tema laico.
Nel 760 Konstantinos iniziò a perseguitare anche tutti gli ordini religiosi, principalmente i monasteri, che si opponevano alla sua politica. Il sovrano non era però animato dalla sola fede, ma anche da motivi ben più terreni, letteralmente. I monaci, infatti, grazie al fiorente mercato delle icone che producevano tra una preghiera e l’altra, avevano accumulato grandi ricchezze che usavano per ostacolare la politica imperiale. Perciò Konstantinos prendeva i classici due piccioni con una fava: rimetteva in riga i monaci e rimpinguava le casse per armare eserciti e flotte contro i musulmani.
In quel periodo molti monasteri e possedimenti monastici vennero confiscati, chiusi e trasformate in stalle, stabilimenti termali o caserme. Uno degli uomini più fidati dell’imperatore, lo strategos di Tracia Michael Lachanodrakon, imponeva ai monaci che arrestava una scelta: o abbandonare la vita monastica e maritarsi, oppure subire l’accecamento e l’esilio. La lotta contro il ceto monastico fu attuata in tutto l’impero e generò rivolte nelle campagne dove i monaci potevano vantare un forte sostegno, ma portò grandi risorse allo Stato, che in ultima analisi si trovò molto rafforzato dall’abolizione dei privilegi monastici.
Un cambio di rotta avvenne con Irene, la moglie del successore di Konstatinos, Leon IV. Questi morì, forse avvelenato dalla consorte e dal partito iconodulo di corte, nel 780, lasciando Irene come reggente per il figlio Konstantinos VI, troppo giovane per regnare. Questa, favorevole al culto delle immagini, tra il 786 e il 787 convocò a Nicea un ennesimo concilio per condannare l’iconoclastia. Qui si decise – o meglio lei impose – che le immagini sacre si potevano venerare ma non adorare – insomma si scannavano per cavilli linguistici – e che tutti gli iconoclasti che non rivedevano le loro posizioni sarebbero stati scomunicati.
Un divertente aneddoto fu che la notizia della baruffa orientale giunse alla corte di Carlo Magno, ancora non Sacro Romano Imperatore ma già sovrano di un potente regno che vedeva l’Italia, la Francia e buona parte di Germania, Olanda, Belgio, Austria e Svizzera uniti sotto il suo pugno di ferro. La traduzione latina e piena di errori degli atti scritti in greco del concilio non convinse il re, che decise infine di condannare sia la posizione iconoclasta che quella iconodula, convocando un concilio ad hoc a Francoforte cui parteciparono perfino dei delegati del Papa di Roma, ormai più vicino ad Aquisgrana che a Costantinopoli. Il medioevo, con il dualismo tra papato e impero, stava poggiando le sue prime basi.
Nel 814, morta Irene, il nuovo sovrano Leon VI l’Armeno reintrodusse l’iconoclastia. La motivazione stavolta non fu religiosa, ma politica. La spinta araba ai confini orientali si era fatta sempre più forte, portando all’emigrazione verso la capitale numerosi contadini e soldati di fede iconoclasta. Non volendo rischiare disordini o peggio ribellioni, il basileus convocò un nuovo concilio per introdurre di nuovo la messa al bando delle icone. Nell’anno 815, ad Hagia Sophia, un nuovo sinodo condannò quello di Nicea di trent’anni prima, ma la nuova linea fu molto più morbida e moderata rispetto al passato.
L’obiettivo di Leon VI era probabilmente la pace e il rafforzamento dell’impero romano d’oriente, perciò gli iconoduli furono tollerati e questa condotta fu tenuta dal suo successore Michael II, che permise ad entrambe le fazioni di professare il proprio punto di vista purché non arrecassero danno a nessuno.
Con suo figlio Theophilos, però, vi fu una nuova recrudescenza iconoclasta, con persecuzioni violente che colpirono anche i membri della sua famiglia. Ma la sua era ormai una battaglia persa, perché la pace e l’equilibrio che nel IX secolo si era instaurato tra Bisanzio e Damasco aveva rimesso gli animi in pace e nessuno pensava più ad una possibile superiorità islamica in virtù della condanna all’idolatria.
Con la morte di quest’ultimo sovrano nell’842 fu facile per l’imperatrice Theodora, reggente per il piccolo Michael III, chiudere i conti con l’iconoclastia e reintrodurre per sempre la pratica della venerazione delle immagini sacre, che da allora non verrà più posta in dubbio.
Al di là delle distruzioni artistiche materiali, che vennero rapidamente sanate dalla fioritura culturale dei secoli successivi, l’effetto più dirompente a livello storico e geopolitico dell’iconoclastia fu l’allontanamento tra Roma e Costantinopoli, che divennero sempre più antagoniste una all’altra, tanto che il Papa, nella notte di Natale dell’anno domini 800, giunse ad incoronare un sovrano di sangue germanico come Carlo Magno con il titolo di nuovo augusto romano, una carica che Costantinopoli non riconobbe mai ufficialmente, perché si riteneva unica depositaria dell’eredità di Roma.
Questo portò ad una frattura che divenne infine insanabile, con due mondi che andarono in due direzioni sempre più divergenti finché, nel periodo delle Crociate, quando si rincontrarono, stentarono a riconoscersi, tanto da condannarsi a vicenda come “rozzi barbari franchi” da una parte e di “subdoli decadenti greci” dall’altra.
Alberto Massaiu
Leave a reply