Gli dei concedono a noi miseri mortali regali di variegata natura. Mai lo avessero fatto con me!
Fin da piccolo mi avevano concesso un’indubbia capacità nel mescere le varie sostanze che si possono trovare sulla faccia terra. Fui educato da una vecchia megera turca, che mi insegnò l’arte curativa delle varie erbe. Fu così che il mio spirito assaporò per la prima volta ciò che sarebbe diventato la mia vita, ma anche la mia totale rovina!
Appena giunsi alla pubertà incontrai il mio futuro maestro, Augustus Von Karlstadt. Questi era un aristocratico, un filosofo, un linguista e, cosa che fece scattare in me un’attrazione irresistibile, un alchimista.
Il suo alto lignaggio gli permetteva di studiare le arti occulte senza subire i perigli e le indagini del San’Uffizio, molto attivo in quegli anni in terra tedesca. Vedendo la mia abilità, mentre visitava il piccolo villaggio nelle aspre terre di Turingia dove vivevo, mi prese con sé.
Mi portò così al suo castello, arroccato tra monti e foreste inaccessibili al confine con la Boemia. Ivi mi insegnò tutto il suo sapere, che io assorbì con velocità e rapacità. Il mio spirito bramava quelle conoscenze come l’assetato che cerca il ristoro di limpide acque nei deserti della Libia.
Imparai ogni cosa: a creare pozioni di cure a molti mali, a fabbricare filtri che donassero energia, amore o l’oblio. Ma la fucina che avevo nella testa era portata a produrre un diverso tipo di strumento. La mia arte, e fu proprio un’arte sublime e terribilmente affascinante per me, consisteva soprattutto nel fabbricare farmaci portatori di morte.
In pochi anni divenni più bravo del mio maestro, che, nello sterile e inutile tentativo di frenare la mia brama di sapere e il mio orgoglio, invecchiò precocemente.
La fama giunse di conseguenza, e con essa molte commissioni mi vennero affidate.
Una lunga guerra stava insanguinando le spossate lande del Sacro Romano Impero della Nazione Tedesca, e molti signori volevano pozioni e polveri per eliminare silenziosamente i loro nemici.
Io divenni un vero maestro nella loro fabbricazione.
Mescolavo erbe del Gange, fiori del Cipango e del Catai, piante delle Americhe, metalli triturati e componenti corporee dei più strani animali e bestie del creato, ottenendo così farmaci mortali.
Con questi si poteva uccidere silenziosamente nel sonno, far perire con atroci tormenti o per paralisi di organi vitali, causare lunghe malattie che portavano al trapasso dopo mesi e mesi, oppure fulminavano il malcapitato con una repentina agonia.
Ogni pozione e ogni polvere che creavo mi inebriava ed eccitava la mente oltre ogni capacità di pensiero umana.
Ero solito guardare affascinato il sinistro bagliore di liquidi negli alambicchi, il luccichio dei pulviscoli metalliferi nei mortai o il sinuoso scorrere di sostanze nei miei sottili vasi del miglior vetro di Murano.
Non ero ingenuo, sapevo esattamente i fini delle mie opere e l’uso che ne veniva fatto, ma la cosa non m’importava.
I denari che ricevevo, pesanti pezzi d’oro e d’argento con l’effige dell’Imperatore di Vienna, mi permettevano di intraprendere una vita tra decadenti lussi e infiniti vizi e piaceri.
Mi abbandonai completamente a torbide storie di alcol, donne di malaffare e droghe d’oriente.
La mia ricchezza divenne talmente esagerata che abbandonai la dimora del mio maestro e mi trasferii nella grande città di Praga, dove mi comprai un lussuoso palazzo appartenuto ad un generale recentemente assassinato, mettendomi in proprio.
Il mio insegnante, in un ultimo sforzo di benevolenza verso di me, mi ammonì a proposito della via che stavo per intraprendere, ma io risi della sua evidente mediocrità.
Mai l’avessi fatto!
Continuai proditoriamente la mia infausta opera e la mia fama presto superò le lande della fredda Germania, per arrivare nella viziosa Parigi, nella squallida Londra, nella corrotta Roma, nell’austera Madrid e nell’opulenta Costantinopoli. Intere schiere di nobili, principi, re, banchieri, mercanti e ministri furono spediti nell’ululante e tristo Ade dai miei subdoli farmaci.
Fu in quegli anni di ricchezza, dissolutezza e lugubre fama che un nuovo terribile vizio si impadronì del mio spirito immorale.
L’ambizione.
Il potere, che tutti bramavano con la forza delle armi, del denaro o della religione io l’avrei potuto ottenere con molta più facilità, attraverso il solo utilizzo delle mie abilità.
Presto mi aprì una macabra strada tra le classi dirigenti della ricca Praga e della superba Boemia. I miei avversari morivano uno ad uno, nelle più terribili convulsioni che mai uomo dovette provare. Presto divenni governatore della provincia e potei perfino minacciare l’Imperatore.
Egli, alla misteriosa malattia che colpì il figlio, dovette cedere alle mie pressioni, nominandomi nobile e fissando le nozze tra me e sua figlia. Tanta era la mia ambizione, così spropositato l’orgoglio e la sicurezza nei miei ferali mezzi, che già programmavo un nuovo assetto della terra germanica.
Ma come tocca a chiunque si macchi di simili infamie, la punizione venne anche per me. Un giorno d’inverno dell’Anno Domini 1636, arrivò a Praga un uomo provato da fatiche e cupi pensieri.
Rimasi stupefatto quando lo vidi arrancare per i vicoli, mentre cavalcavo per le strade cittadine con il mio possente stallone ungherese e la mia scorta di guardie polacche.
Era il mio vecchio maestro, Augustus Von Karlstadt!
O perlomeno quello che rimaneva di lui, perché quello che avevo davanti era solo l’ombra del nobile di Sassonia.
Lo guardai con un misto di pietà e disgusto, ma presto il secondo sentimento prevalse sul primo. Io, un Pari dell’Impero, avevo davanti un pezzente che insultava il suo rango!
Il disprezzo si trasformò in breve tempo in un odio verso di lui. Volevo che sparisse dalla mia città, dalla regione, possibilmente dalla mia vita. Tentai in tutti i modi di allontanarlo, ma né la corruzione con il denaro, i discorsi dei miei servitori, le offerte di un viaggio lontano e le percosse delle mie guardie lo allontanarono.
Nulla funzionò.
A quel punto, per la prima volta nella mia vita, sentì una profonda sensazione d’inquietudine. Volevo che il vecchio sparisse e mi adoperai in tal senso.
Pensai a qualcosa d’ingegnoso e di diabolico, adatto a vendicare l’ira (o forse la paura?) che suscitava in me la sua striminzita e macilenta persona.
Giorno e notte lavorai, con mortaio e pestello, alambicco e provette, animato da un fervore creativo che non sentivo da anni.
Dopo tre giorni e due notti il farmaco venne alla luce. Rosso fuoco come le fiamme degli Inferi, striato di riflessi sinistri che rimandavano ad oscuri intenti.
Mi ero fatto ispirare da un’antichissima formula persiana, che faceva cadere il malcapitato in una morte apparente per diversi giorni. Una volta finito in quello stato avrei fatto gettare dai miei servi sordomuti il mio vecchio e odiato maestro nel fiume, rinchiuso all’interno di una cassa impermeabile, appesantita da uno strato di piombo, liberandomi così dalla sua fastidiosa presenza.
Mosso da questo proposito lo invitai nel mio sontuoso palazzo, che per l’occasione addobbai in maniera maestosa, degna di un Pari della Nazione tedesca. Detti anche una festa in quella serata, invitando nobili da ogni angolo della Boemia e della Germania. Laici ed ecclesiastici, arcivescovi e principi, conti e vescovi, tutto il potere e la gloria delle lande dell’Impero.
Il vino delle terre di Ausonia, di Alemannia e di Burgundia si alternava a cibi raffinati fatti pervenire dai luoghi più esotici che i miei messi avevano potuto raggiungere. Tutti vennero intrattenuti tra danze, mimi e scherzi dei buffoni. Le sete veneziane si mescolavano in un vortice di lusso e ostentazione ai merletti parigini, ai broccati degli infedeli e ai gioielli d’Olanda e Spagna.
Al centro di tutto questo stavo io, tronfio di gioia maligna, che assaporavo il mio dominio su tutte quelle persone a loro volta cariche di potere. Era presente anche la mia trepidazione nell’attesa della soddisfazione finale e sorridevo come un cacciatore sicuro dell’imminente uccisione della preda.
Infine lo vidi, come un ombra buia nella sala, una pustola cancrenosa in mezzo a tutta la bellezza dei convitati. L’aura di degradazione del mio vecchio maestro faceva interrompere le conversazioni, far finire le risate, bloccava i balli. Una sensazione mai provata prima si fece largo nel mio animo, un qualcosa di nuovo, di indecifrabile.
Un tarlo iniziò a rodere i miei piani perfetti, i miei ragionamenti risultarono più vaghi e meno precisi, la mia capacità di attenzione ne risentì in modo sostanziale.
Non mi godetti più la festa: le danze mi davano la nausea, le conversazioni erano divenute noiose e la musica migliore non mi dava che mal di testa. Che cosa mi stava succedendo?
Decisi di appartarmi nello studio, mandai via gli invitati con una scusa e mi apprestai a concludere la fastidiosa faccenda con il vecchio pazzo.
Egli giunse prima che le mie guardie uscissero per avvisarlo, maledetto! Come sapeva tutto in anticipo?
Nonostante il mio sempre più vivo turbamento feci un grande sforzo e gli sorrisi. La sua espressione rimase imperturbabile, ma accettò il mio cenno che gli indicava di accomodarsi in una grande poltrona di legno di betulla intagliato. Si lasciò andare sui morbidi cuscino di Damasco e appoggiò le mani sulle gambe. Poi mi fissò.
Ma che occhi che aveva!
Rimasi alcuni secondi a fissarli: sembrava infatti che con questi potesse leggere oltre i più turbi abissi dell’animo umano. Per spezzare il mio imbarazzo iniziai a parlare e lui mi rispose garbatamente, come se fossimo stati ancora maestro e allievo. Che affronto!
Discutemmo sul presente e sul passato, sulla potenza delle erbe medicinali e sulle chiacchiere dei nobili, su terre lontane e sulla Guerra Eterna che insanguinava la Nazione tedesca.
Mi sentii così sempre più a mio agio, e decisi di agire.
Prima sondai la possibilità che lui se ne andasse con le buone, anche se oramai volevo che rifiutasse, tanta era la voglia di sopprimerlo io stesso. Fu molto educato ed elegantemente respinse le mie esortazioni. Era fatta!
Proposi allora un brindisi ai tempi andati e feci portare due coppe piene di vino dell’Andalusia.
Guardai i due calici per un attimo. Due recipienti d’oro massiccio con numerose pietre preziose incastonate. Una era tempestata di zaffiri, l’altra di rubini. Versai il veleno senza farmi notare in quella con i rubini, che misi a destra, e appoggiai entrambi i calici sul tavolo.
Proprio in quel momento vidi un ombra passare per la camera e un cieco terrore si impadronì di me. Guardai febbrilmente tutt’intorno, abbandonai ogni interesse sulla mia prossima vendetta e cercai la fonte di quella cosa che mi aveva destato un tale senso di paura e di angoscia. Il mio ospite sembrò non notare la mia mancanza di contegno, ma piuttosto rimase silenzioso, aspettando che mi calmassi.
Appena girai lo sguardo egli stava bevendo dalla coppa, con l’avidità di un assetato dopo una lunga giornata di lavoro. Risi dentro di me e cacciai il precedente timore, presi il calice di sinistra e trangugiai anche io il contenuto. La mia era quasi furia, mentre il dolce liquido mi scendeva nel palato.
Solo allora notai qualcosa.
Uno scintillio blu mi colpì gli occhi. Ma non veniva dalla mia coppa, ma dalla sua! La sua mano aveva coperto gli zaffiri e quindi avevo io il maledetto calice con i rubini!
Proprio in quel momento un velo nero mi scese sugli occhi, un senso di vertigine si impadronì di me e crollai al suolo. Il mio ultimo pensiero fu che il vecchio era stato più furbo di me.
Mi svegliai con la testa ancora intontita. Tutto era nero intorno a me. Capì subito che il fatto era dovuto all’avere un cappuccio sul capo. Dopo diversi attimi angosciosi riuscì a togliermelo. Ero stato legato e mi trovavo in una stanzetta buia, molto stretta.
Nelle segrete del mio palazzo, luogo di torbidi piaceri e orrende torture?
Nelle celle della torre Daliborka, la prigione del castello di Praga?
In un incubo dovuto all’alcool o a qualche droga orientale?
Solo quando fui libero realizzai la tremenda verità: la stanzetta erano le pareti di un baule molto grande e lungo.
Il baule! La cassa di piombo, la punizione per il vecchio, era ora diventata la mia tomba!
Ero sepolto vivo dentro la cassa sigillata, sotto pochi metri d’acqua e fango limaccioso della Moldava!
Alberto Massaiu
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