La Scandinavia e le sue appendici, ora famose per le aurore boreali, la casa di Babbo Natale in Lapponia, le crociere nei fiordi di Norvegia, il welfare state di altissimo livello, la Nokia e l’Ikea, a livello storico rimane celebre principalmente per i vichinghi, popolo di mercanti, esploratori, avventurieri, colonizzatori, razziatori e conquistatori di cui ho avuto modo di parlare in un apposito articolo (leggi qui).
Eppure, in piena epoca moderna, a cavallo tra le ultime guerre di religione europee e il primo illuminismo, una Nazione scandinava si ritagliò un posto nelle luci della ribalta per circa un secolo. Il suo fu un esperimento ambizioso, fondato su basi molto fragili, ma che per un certo lasso di tempo proiettò la Svezia nel pantheon delle grandi potenze continentali.
Tutto iniziò con Gustav Adolf, secondo del suo nome, della casata regnante dei Vasa. La sua famiglia era colei che aveva liberato la Svezia dal giogo danese, che governava tutto il nord dalla Finlandia alla Norvegia nella cosiddetta “Unione di Kalmar”, una confederazione di regni con capitale Copenaghen, che perdurava dal 1397.
La Befrielsekriget o “Guerra di liberazione” Gustav Vasa, prima divenne rikshövitsman – protettore del reame – e poi sovrano di Svezia nel 1523. Le complicate vicende matrimoniali-ereditarie avevano poi posto un ramo dei Vasa sul duplice trono di Svezia e Polonia-Lituania, ma questa fragile unione personale era naufragata nel 1599, quando lo zio e reggente per la Svezia di Sigismund Vasa, Karl, si fece proclamare re di Svezia, iniziando un conflitto endemico con la corona polacco-lituana che perdurò per tutto il periodo imperiale.
Ad ogni modo fu Karl IX di Svezia a far ereditare il trono al suo giovane, irruento e ambizioso figlio, Gustav Adolf II. Questi fu una vera e propria meteora nel panorama europeo dell’epoca. Coraggiosissimo, perfetto gentiluomo da un lato ma crudele e cinico dall’altro, spietato contro i nemici del protestantesimo ma pronto ad allearsi con la cattolicissima Francia per ricevere armi e finanziamenti per proseguire la sua crociata contro la casa Habsburg di Vienna, entrò letteralmente a gamba tesa sul precario equilibrio creato in Germania dopo la “fase danese” della Guerra dei Trent’Anni (vedi articolo qui).
Conclusa una pace con la Polonia, tradizionale nemica del suo paese fin dai fatti del 1599, Gustav si auto-nominò paladino del protestantesimo in terra tedesca, un modo come un altro per sostituire l’influenza austriaca con quella svedese nel Sacro Romano Impero della Nazione Germanica.
Nel 1631, messo fuori partita per beghe interne alla Corte di Vienna il suo più pericoloso rivale, Wallenstein, ebbe buon gioco a superare le tradizionali tattiche seguite dal generalfeldmarschall della Lega Cattolica Tilly, a Breitenfeld. In una manciata di ore, nonostante il collasso dei suoi alleati sassoni, le agili e moderne formazioni svedesi spazzarono via gli imperiali, annientando 2/3 dei 30.000 soldati nemici.
Questa vittoria sconvolse gli equilibri dell’intera Germania, aprendo al sovrano svedese la via per Praga, Vienna e Monaco. Il terrore del kaiser Ferdinand II fu tale che, inghiottito l’orgoglio, dovette richiamare subito il suo migliore comandante, quel Wallenstein che aveva così superficialmente licenziato pochi mesi prima.
L’oberkommandierende delle armate cattoliche si mise subito in modo, salvando di nuovo la situazione. Armato a sue spese un nuovo esercito di 40.000 uomini, Wallenstein impegnò Gustav in una terribile guerra di trincea presso la strategica città di Norimberga, sull’Alte Veste, tra l’agosto e il settembre del 1632. La guerra d’attrito, fatta di logistica, cannoni, fortificazioni e attesa, logorò l’irruento sovrano scandinavo, che subì una netta sconfitta senza poter sfruttare appieno la potenza dei sui validi ed efficienti veterani, oltre che delle superiori tattiche di fanteria e cavalleria.
Lo scontro sembrava rimandato per la brutta stagione al 1633 ma, il 16 novembre, presso la cittadina sassone di Lützen, Gustav Adolf cercò di sorprendere Wallenstein che si stava apprestando a suddividere le sue forze nei campi invernali.
La confusa e sanguinosissima battaglia, dove morì anche il grande comandante di cavalleria e amico di Wallenstain, Gottfried von Pappenheim, risultò come una vittoria di Pirro svedese. Con circa 5.000 tra morti e feriti per parte e la ritirata di Wallenstein dal campo, gli scandinavi rivendicarono un effimero successo, contestato dai rivali cattolici. Se il verdetto sul campo era aperto al dibattito, il risultato strategico globale pendeva a sfavore dei protestanti, in quanto il loro leader carismatico era caduto in battaglia.
Gustav Adolf, infatti, travolto dal suo spirito passionale e dal desiderio di guidare le truppe in prima linea, era stato circondato dai cavalleggeri imperiali e ucciso, lasciando vacante il trono del suo paese, in quanto l’unica erede era la giovane figlia Christina, di appena 6 anni. Questo fatto, unito all’alleanza sempre più stretta con la Francia, oltre che all’ambizione di uscire come potenza di primo piano nel panorama baltico-tedesco, coinvolse sempre di più la Svezia nel conflitto germanico, fino alla sua conclusione nel 1648.
Questa guerra eterna flagellò sia l’economia che la demografia scandinava, in quanto il meglio della gioventù svedese venne spazzata via dalla leva miliare e i campi coltivati vennero spesso abbandonati per mancanza di braccia. Battaglie come Nördlingen, dove gli svedesi persero in un sol giorno tra i 13.000 e i 15.000 uomini, tra cui il fior fiore dei reggimenti nazionali d’élite blu e giallo, costarono tantissimo al paese.
I risultati di questo salasso furono solo in parte soddisfatte. Le richieste portate avanti dai plenipotenziari svedesi Axel Oxenstierna e Johan Banér ricomprendevano l’intera Slesia, la Pomerania e un’indennità di guerra pari a 20 milioni di talleri. Quello che ottennero fu la sola Alta Pomerania con le isole di Rügen e Usedom, parte della Bassa Pomerania con la strategica città anseatica di Stettino, a cui aggiunsero il vescovado secolarizzato di Brema-Verden e la città di Wismar, con 5 milioni di talleri.
In tal modo la Svezia diventava, come la Francia, uno Stato Nazionale straniero con domini per cui era feudatario del Sacro Romano Imperatore, con diritto di voto nel Reichstag tedesco, oltre che un’influenza solo in parte bilanciata dal rafforzamento del Brandeburgo – suo futuro rivale – nella regione della Bassa Sassonia.
Fu più o meno da quel momento – anche se si può retrodatare il suo inizio all’ascesa al trono di Gustav Adolf II nel 1611 – che la Svezia entrò nel Stormaktstiden o “Era della Grande Potenza”, che perdurò fino alla Seconda Guerra del Nord, che si concluse con il collasso del paese e la fine delle sue ambizioni nel 1721.
La forza della Svezia, nel suo secolo di gloria, risiedette nella potenza e modernità del suo piccolo esercito, nella sua alleanza con la Francia e nel suo ruolo di protettrice del luteranesimo nel continente contro le ambizioni cattoliche.
La massima espansione territoriale venne raggiunta pochi anni dopo, con il Trattato di Roskilde del 1658, dove il paese raggiunse la dimensione di 1.100.000 km², più del doppio rispetto alla Svezia attuale, con una popolazione totale di appena due milioni e mezzo di persone. Questo risultato venne raggiunto da Karl X di Svezia, che si impelagò nell’ennesimo conflitto contro la Polonia-Lituania, la Danimarca, la Russia e il Brandeburgo, che condusse fino alla morte nello stesso anno.
Il consiglio di reggenza che doveva garantire la stabilità del piccolo erede al trono firmò il trattato di Oliva nel 1660, che segnava un passo decisivo al riguardo del declino della Confederazione polacco-lituana come grande potenza, oltre che regolarizzare lo status di dominatrice del baltico della Svezia. Con la conferenza di pace di Copenaghen si sistemarono i rapporti con la Danimarca, che riottenne il controllo della provincia norvegese di Trøndelag e dell’isola di Bornholm persa due anni prima in cambio della cessione della Scania. L’anno dopo, nel 1661, la Svezia ottenne dallo tsar russo il riconoscimento dei suoi domini di Ingria, Estonia e Kexholm, che rafforzavano il predominio sulla Finlandia e il Baltico.
Questo immenso territorio apriva grandi benefici per il paese, perché permetteva il controllo di molte città della Lega Anseatica, le isole Baltiche, i grandi laghi estoni come il Ladoga e il Peipus – dove quattrocento anni prima erano stati fermati i cavalieri teutonici – e le foci di importanti fiumi della Germania settentrionale, con tutti i dazi commerciali che potevano essere imposte dalle dogane reali, a vantaggio dello Stato.
Questo incremento di potere, prestigio e ricchezza aveva però anche un risvolto negativo della medaglia. Come potenza egemone del Baltico accumulò ben quattro nemici di rilievo, ben decisi a sottrarle, al minimo segno di debolezza, le province di confine: Danimarca, Brandeburgo-Prussia, Polonia-Lituania e Russia.
Va detto che la Svezia, o perlomeno il consiglio di reggenza che governò fino alla maggiore età di Karl XI, non si adoperò per attenuare gli attriti con i vicini, proponendo un riequilibro di potere che trasformasse in alleato uno dei quattro avversari.
Peggio, ancora, nel 1668 il paese abbandonò temporaneamente l’alleanza storica con la Francia di Louis XIV, schierandosi con i suoi nemici olandesi e britannici fino al 1672, anno in cui si riappacificò con il monarca transalpino per la modica cifra di 400.000 corone l’anno in tempo di pace e 600.000 in tempo di guerra.
Queste continue giravolte portarono alla catastrofe del 1675, quando la Prussia-Brandeburgo, la Danimarca e l’Austria si allearono nella cosiddetta Guerra di Scania, puntando a buttar fuori gli scandinavi dalla Pomerania e da Brema. Nei due anni successivi l’intero impero baltico rischiò di finire a gambe all’aria, venendo salvato dall’intervento della Francia, che con il Trattato di Nimega impose la restituzione di tutti i territori tedeschi e scandinavi nel 1679.
Nonostante il drammatico inizio, il regno di Karl XI fu il periodo di massima pace e prosperità per la Svezia. Il giovane monarca si impegnò da un lato a ridurre drasticamente il potere dei nobili, alleandosi con la borghesia nella creazione di una monarchia assoluta illuminata. Nel 1682 il Riksdag – il parlamento – concesse al sovrano il pieno potere legislativo, oltre che di interpretare ed emendare liberamente la legge. Karl sfruttò questi poteri per sottrarre e ridistribuire le terre dai grandi aristocratici, garantendo così grandi entrate alla corona da ridurre di ¾ il debito nazionale. Queste risorse vennero utilizzata per creare una potente marina e una moderna base navale presso Karlskrona, oltre che rendere sempre più efficiente l’esercito di terra.
Il declino del paese coincise con la morte del grande monarca e l’ascesa al trono del giovanissimo Karl XII, personaggio di indiscusso carisma e grande ambizione che portò il prestigio delle armi svedesi al loro apogeo, per poi farlo sprofondare nel baratro della sconfitta.
Come ho scritto in precedenza, il regno svedese poggiava su di un delicatissimo equilibrio di demografia, economia, fortezze strategiche e forza militare super-addestrata, motivata ma limitata nei numeri. Finché la diplomazia e i comandanti fossero stati sufficientemente abili a non far coalizzare tutti i nemici, oppure a gestirli separatamente, si poteva sempre prevalere.
Queste condizioni vennero meno nel 1700, quando Russia, Danimarca e Polonia si allearono e attaccarono all’improvviso la Svezia, per riconquistare molti dei territori perduti in precedenza. Iniziava così la Grande Guerra del Nord, che durò a fasi alterne più di vent’anni.
L’inizio, nonostante i pronostici, fu uno straordinario successo svedese. L’appena diciottenne Karl XII dimostrò talento, coraggio ed energia, sbaragliando tutti gli avversari. Innanzitutto orchestrò un’audace operazione anfibia contro i danesi, mettendo in pericolo Copenaghen e costringendoli a firmare la pace. Subito dopo mosse con 12.000 soldati contro 40.000 russi, annientandoli in una battaglia di linea davanti alla fortezza estone di Narva, dove questi lasciarono sul campo 10.000 caduti e 20.000 prigionieri.
Annichiliti in una manciata di mesi due dei tre rivali, Karl marciò e contro-marciò contro l’ultimo avversario rimasto, l’immensa Polonia, con l’intento di rovesciare il sovrano sassone Friedrich August e sostituirlo con il più malleabile Stanisław Leszczyński. Con una guerra lampo occupò Varsavia nel 1702 e mise in rotta a Klissow un’armata mista sassone e polacca di 25.000 uomini, grande il doppio della sua.
Nel 1703 sbaragliò forze coalizzate russe, polacche-lituane e sassoni a Saladen, Pułtusk, bissando tali successi l’anno dopo a Jakobstadt, Punitz e infine Gemauerthof e Varsavia nel 1705, cosa che comportò l’elevazione al trono polacco di Leszczyński e la pace tra Polonia e Svezia.
Per piegare definitivamente i sassoni, dopo l’ennesima sconfitta subita da questi ultimi a Fraustadt, Karl invase il loro paese, costringendo Friedrich August a firmare il trattato di Altranstädt, con cui rinunciava al trono polacco e all’alleanza con la Russia, che rimaneva sola contro il temibile avversario svedese.
A questo punto sembrava che i giochi fossero fatti. I russi avevano subito batoste su batoste e non avevano più sostegno esterno. La Svezia poteva prevalere sulle ambizioni di grande potenza europea dello tsar Pëtr, colui che in seguito verrà conosciuto come “il Grande”. Il sovrano russo aveva però sfruttato al meglio i sei anni che lo separavano da Narva, modernizzando l’esercito e temprandolo nei fronti secondari del Baltico, mentre Karl passeggiava sopra le truppe polacco-sassoni.
In più il giovane monarca scandinavo fece, per la prima volta nella storia, il classico errore di invadere un paese immenso con appena 40.000 soldati. Il suo esempio sarà emulato, in scala molto più grande, il secolo dopo da Napoleone e quello ancora successivo da Adolf Hitler, e tutti hanno in comune l’essersi giocati il meglio delle loro armate e il futuro delle rispettive nazioni.
La campagna durò due anni, con i russi che evitavano di farsi agganciare dalle qualitativamente superiori forze svedesi, attaccando i generali isolati e le colonne di rinforzo agli ordini dei subordinati di Karl, logorando lentamente lo spirito e le risorse dell’ambizioso Stato scandinavo.
Invece che rimanere vicino alle sue basi sul Baltico, dove avrebbe potuto minacciare l’unica debolezza dello tsar, la sua nuova capitale moderna di San Pietroburgo, Karl decise di portare avanti un’offensiva strategica diretta che, passando da Smolensk, arrivasse ad espugnare Mosca per dettare al nemico le stesse umilianti condizioni che aveva già imposto a Danimarca, Polonia e Sassonia.
Questa cieca tracotanza, nata dall’incrollabile fiducia nei suoi soldati sempre invitti e dallo sprezzo per le “orde barbare orientali” russe fu duramente punita dalla ben più pragmatica strategia decisa da Pëtr. Per la prima volta egli pensò di utilizzare i suoi immensi territori come un’arma, sacrificando lo spazio per diluire il fragile equilibrio su cui poggiava la temibile macchina da guerra svedese.
Nel 1709 lo tsar dopo esser perfino riuscito a scongiurare i tentativi scandinavi di abboccamento con i cosacchi ucraini e i turchi, giudicò fosse giunto il tempo di concedere la tanto sospirata battaglia di linea a Karl. Alle sue condizioni.
A Poltava, in Ucraina, Pëtr schierò 50.000 soldati con 100 cannoni, trincerati in ben tre linee di fortificazioni con ridotte, postazioni di tiro ben protette e ostacoli di vario tipo. Il terreno era perfetto per evitare manovre ai fianchi, che vennero comunque rinforzati con altrettante opere ossidionali, obbligando il nemico all’attacco frontale contro questa mastodontica opera difensiva.
Karl, irritato dal lunghissimo inseguimento, abboccò all’amo. Sicuro al 100% che le sue truppe veterane avrebbero travolto qualsiasi ostacolo e completamente dimentico delle riforme militari russe, che aveva avuto modo di sperimentare nell’anno precedente, guidò i suoi 39.000 soldati e 34 cannoni all’assalto, confidando che le truppe nemiche si sarebbero sciolte come neve al sole.
Non fu così. Bersagliati dai cannoni caricati prima a palle piene e poi a mitraglia, i già esigui reggimenti svedesi vennero decimati. Nonostante tutto, a riprova del loro coraggio e disciplina, questi resistettero anche agli scambi di fucileria con i russi, lanciandosi all’attacco con le baionette inastate.
In diversi punti superarono le prime ridotte, ma ogni volta trovarono nuove truppe e nuovi cannoni pronti ad attenderli, freschi, riposati e ben trincerati. Era troppo per chiunque. La carica della superiore cavalleria russa, più l’arrivo di rinforzi e un attacco della Guardia Imperiale mandò per la prima e unica volta in rotta il fior fiore dell’esercito svedese, distruggendo quell’alone di invincibilità che non riuscì più a recuperare.
Karl, ferito al piede da una palla di moschetto poco prima della battaglia finale, non aveva neanche potuto esercitare il suo carisma dalla prima linea, e dovette fuggire dal campo. La sua orgogliosa e amata armata contava 9.000 caduti e 20.000 prigionieri, scomparendo per sempre.
Immediatamente, appena avuta notizia della disfatta, la Danimarca, la Polonia – dove ritornò al potere la fazione antisvedese – e persino la Prussia scesero in guerra contro la Svezia, puntando allo smembramento dell’impero.
Solo nel 1714 Karl riuscì a tornare in patria – per anni era rimasto in custodia degli infidi alleati turchi mentre il suo paese andava in sfacelo – e guidò fino alla morte le sue truppe in un fronte immenso dove aveva sempre meno opzioni da giocare.
Quattro anni dopo venne ucciso in circostanze mai ben chiarite durante l’assedio di Fredrikshald, in Norvegia, dove cercava di riottenere una pace separata dai danesi. Aveva trentasei anni e non lasciava figli, mettendo il paese in una situazione ancora più critica.
La sorella dovette firmare nel 1721 il Trattato di Nystad, con cui il paese concludeva il suo secolo di gloria, ritornando ad essere una potenza regionale. Il suo ruolo nel nord fu ereditato dalla Russia, che ora si affacciava sul Baltico con le sue nuove conquiste in Livonia, Estonia, Carelia e Ingria. La sua epopea come grande potenza europea era solo all’inizio.
Alberto Massaiu
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