La data che la maggior parte degli storici assegnano al passaggio di consegne tra la legione di fanteria romana e la cavalleria è il 9 agosto del 378 dopo Cristo. Nella calda piana antistante alla città di Adrianopoli l’imperatore Valente affrontò con le truppe d’élite dell’Impero Romano d’Oriente un’orda di guerrieri goti. Disponeva di otto legioni, circa 40.000 fanti e 20.000 cavalieri, mentre da parte barbarica stavano 50.000 fanti e forse altrettanti cavalieri. Ma con un imperdonabile errore l’imprudente sovrano aveva mosso battaglia senza compiere le opportune azioni di esplorazione, lasciando così i fianchi scoperti. Quindi i goti che si trovò davanti erano solo i fanti, che immediatamente si barricarono nel loro accampamento, circondando tutto il perimetro con i carriaggi per poterli usare come un rudimentale bastione contro i superiori romani. L’orda a cavallo, che era uscita in cerca di rifornimenti, ritornò proprio nel momento peggiore, ovvero quando tutto l’esercito romano era impiegato in mischia contro i carri.
Migliaia di cavalieri attaccarono gli imperiali sul fianco destro e da tergo, circondandoli e stritolandoli nel classico schema di incudine e martello, dove il primo erano i guerrieri goti dell’accampamento e il secondo la cavalleria avanzante. Fu una tremenda carneficina, dove le forze scelte romane vennero annientate completamente (40.000 caduti) e dove anche Valente e tutto il suo stato maggiore perse la vita.
Da allora crebbe a dismisura l’impiego di contingenti barbari nell’esercito imperiale, che fu una delle tante cause di declino e infine della caduta dell’Impero e del mondo antico.
Ma come fecero a prevalere questi popoli che per secoli erano stati puntualmente battuti dai romani?
Da parte mia sono sicuro che per quanto politicamente e storicamente devastante, il risultato di Adrianopoli non fu per nulla scontato, ma anzi si sarebbe di sicuro rivelato nettamente favorevole ai romani, ancora tatticamente e qualitativamente superiori, se Valente non avesse commesso dei madornali e scriteriati errori.
Nonostante questa premessa va detto che l’esercito sbaragliato quel 9 agosto non era più quello che possiamo immaginare, ma risultava piuttosto “imbarbarito”.
Questo processo non va visto nell’ottica che è comunemente accettata negli attuali libri di storia. I romani avevano iniziato a immettere barbari nelle fila legionarie da almeno un secolo, per non parlare dei contingenti di ausiliari che erano sempre stati composti da non cittadini. Ma qualunque fosse la loro origine etnica, questa veniva azzerata dall’addestramento e dal comando, sempre monopolizzato da italici o da provinciali fidati, che rendevano le truppe di origine barbarica pari a quelle di origine romana.
Fin dalla crisi del III secolo, durante il periodo di anarchia militare iniziato con la scomparsa della dinastia dei Severi, l’esercito aveva avuto un tracollo. Questo era dovuto alla sua usura costante durante le guerre civili, non alla forza barbarica. Va detto infatti che quando i romani trovarono un forte leader, vedi Aureliano dal 270 al 275, riuscirono a schiacciare sia usurpatori, sia stati secessionisti come le Gallie o Palmira, sia barbari esterni come alemanni e goti.
Un’altra prova della superiorità legionaria a dispetto dell’opinione degli storici filo-cavalleria si può notare ancora un secolo dopo. Nel 357 il cesare Giuliano, poi passato alla storia come Giuliano l’Apostata, sconfisse con una coalizione di popoli germanici guidata dagli alemanni presso Argentorarum.
Da questo episodio possiamo desumere due cose: la prima è la superiorità romana ancora intatta, infatti la vittoria fu ottenuta da 13.000 soldati imperiali contro un numero triplo di barbari; la seconda è l’assoluta sopravvalutazione della cavalleria come elemento fondamentale delle truppe di linea romane.
Infatti lo scontro iniziò con la rotta dei reparti tanto vantati di cavalleria catafratta (ovvero pesantemente corazzata), che abbandonò vergognosamente la pugna appena venne investita da una carica di guerrieri barbari. La battaglia venne decisa invece dai legionari delle pesanti coorti di fanteria, che, serrati gli scudi, prima respinsero le cariche degli avversari, poi gli incalzarono con spietata efficienza e infine li misero in rotta massacrandoli.
Si dice che Giuliano abbia lodato pubblicamente i suoi eroici soldati, costringendo invece i cavalieri pesanti a sfilare per il campo vestiti da donna, come punizione per il loro comportamento tanto vigliacco.
Ma analizziamo più compiutamente quello che avevamo accennato a proposito dei cambiamenti avvenuti fin dal III secolo.
Quello che voglio evidenziare è che l’esercito romano abbia per certo subito cambiamenti, ma il suo nucleo, l’essenza di forze di fanteria pesante, sia rimasto intatto almeno fino al definitivo tracollo che passa tra due eventi traumatici: Adrianopoli nel 378 in oriente e la caduta del limes renano nel 406 in occidente.
I generali romani di epoca imperiale avevano sempre un problema davanti a loro, ovvero come utilizzare le antiche legioni per garantire la sicurezza su tutti i confini, radunarle per affrontare i rivali nelle intermittenti guerre civili e infine riuscire anche ad utilizzarle per effettuare spedizioni punitive contro i nemici esterni che avevano saccheggiato qualche lembo di territorio dello Stato.
Un’intelligente soluzione venne trovata probabilmente fin dall’epoca dei primi imperatori, ma divenne sempre più popolare durante i momenti di maggior crisi istituzionale e militare, ovvero le vexillationes. Queste erano distaccamenti di uomini scelti presi da più legioni, che venivano utilizzati durante le campagne dai sovrani o dai comandanti romani.
Molto spesso queste unità non tornavano più alla loro regione d’origine e diventavano dei nuclei di reparti mobili distaccati. A queste unità si tendeva sempre di più ad associare un alto numero di cavalieri, iniziando quel processo che doveva rendere questi reparti molto più mobili rispetto ad una legione standard.
I cavalieri sono sempre stati il tallone d’Achille dei romani. Fin dall’epoca repubblicana i loro contingenti erano reclutati prima presso i socii italici, poi presso gli alleati o i popoli sottomessi (esempi famosi sono stati i numidi o i galli).
Lo strumento principe, quello dove militavano i giovani rampolli dell’aristocrazia dell’Urbe e che era l’unico degno di un vero cittadino, era la legione.
Il suo bacino di reclutamento si allargò lentamente fino all’inizio del III secolo d.C., all’inizio riservato ai soli cives romani, poi inglobò tutti gli italici e infine anche i provinciali di comprovata fedeltà (come galli e africani). Con la Constitutio Antoniniana del 212 la cittadinanza venne estesa a tutti i cittadini liberi dell’Impero con l’obbiettivo di allargare le possibilità di tassazione, ma l’effetto più incisivo fu di declassare definitivamente l’arruolamento degli italici nell’esercito, in favore delle provincie.
Segno distintivo di questo passaggio è l’aumento esponenziale di galli, illirici, africani, ispanici e orientali nelle legioni, nei quadri di comando superiori e infine sul gradino più alto della gerarchia romana, ovvero il soglio imperiale (da Massimino il Trace fino a Filippo l’Arabo).
Tra la fine del III e l’inizio del IV secolo salì al potere un illirico passato alla storia come l’ultimo grande persecutore di cristiani, Diocleziano, che riuscì, dopo decenni di guerre civili, a rimanere in sella abbastanza tempo (vent’anni, un vero record!) da poter ridare respiro all’esausta compagine imperiale. Qui non affronterò né la riforma fiscale da lui intrapresa, né l’importante esperimento della tetrarchia (fallita con Costantino, che spazzò via tutti i tetrarchi), ma mi limiterò ad analizzare con voi la sua ristrutturazione dell’esercito.
Come un attento lettore potrà presto notare, la base della riforma militare intrapresa da lui e poi proseguita da Costantino affondava le sue radici nell’istituto delle vexillationes, ma andiamo per gradi.
L’idea di base era quella di non presidiare più ogni singolo chilometro di confine imperiale, ma di spostare la visione strategica ad un concetto di difesa in profondità. Oramai per l’esercito romano risultava impossibile pattugliare e difendere efficacemente con pesanti legioni tutto il limes, lungo migliaia di chilometri, con il rischio di veder spazzate via truppe troppo isolate ed esposte solo per difendere qualche fattoria di confine.
Partendo da questo presupposto le truppe imperiali vennero divise sempre di più in due classi: le legioni che presidiavano permanentemente forti e strade di confine divennero una sorta di milizia di confine, i limitanei; le vexillationes divennero invece il nucleo, poi ingrandito con i reparti migliori delle legioni frontaliere e di contingenti scelti di cavalleria pesante e leggera, di armate mobili dette comitatenses, parola che deriva dal comitatus, ovvero il seguito del sovrano.
I limitanei divennero sempre di più delle truppe di contadini-soldato, utilizzati per pattugliare e presidiare i confini ma non addestrati a respingere grosse invasioni. Erano sempre più spesso reclutati tra la popolazione locale, non erano armati pesantemente e quasi sempre avevano famiglia nei villaggi adiacenti ai forti dove vivevano.
I comitatenses erano al contrario il meglio dell’esercito delle epoche precedenti, rinforzato da contingenti di cavalleria e arcieri, e che agivano come un vero e proprio corpo d’armata mobile. Venivano stanziati più all’interno delle province, di frequente in grandi città, ed entravano in azione quando i limitanei non riuscivano a respingere da soli l’incursione nemica.
Nel sistema di Diocleziano e Costantino vennero istituite all’incirca quattro grandi armate di comitatenses: una in Gallia, una nel settore danubiano e due in oriente. L’armata distrutta ad Adrianopoli dai goti era il meglio delle forze comitatenses di tutto l’oriente, quindi si può comprendere l’entità del disastro che investì Roma dopo una tale perdita.
In tutti questi cambiamenti le legioni non sparirono, ma subirono un processo di ristrutturazione volto ad adattarle alle nuove esigenze militari. Nei registri militari dell’epoca risultano infatti molti nomi delle legioni più antiche e gloriose e inoltre ne vengono nominate anche moltissime altre di nuova denominazione, cosa che a primo acchito farebbe pensare ad un aumento esponenziale degli effettivi dell’esercito!
Questo è uno dei motivi per i quali molti storici sbrigativi hanno affermato, facendo calcoli basati sul testo della Notitia Dignitatum (una sorta di elenco di tutte le forze imperiali della fine del IV secolo), che le forze romane potevano annoverare oltre 650.000 uomini tra oriente e occidente agli inizi del V secolo.
La Notitia, per quanto sia effettivamente un documento redatto dalla Cancelleria Imperiale di quel periodo, presenta due ordini di problemi:
- Le legioni del tardo impero non erano più composte da 5/6.000 uomini come all’epoca di Augusto o Traiano, bensì da non più di 1.500 (numericamente erano simili alle vexillationes del II-III secolo).
- I funzionari della Cancelleria Imperiale non erano esperti militari e in secondo luogo (e questo problema l’hanno purtroppo tramandato ai nostri burocrati) avevano la tendenza a gonfiare le cifre e a non controllare bene tutti i dati e i documenti che inserivano nella Notitia (ad esempio molte legioni citate erano scomparse da tempo).
Forse una cifra maggiormente realistica potrebbe oscillare sui 300.000 uomini, che d’altro canto erano più o meno i soldati di cui necessitava Augusto tre secoli prima.
Inoltre era cambiata un’altra cosa, infatti, come abbiamo accennato più volte precedentemente, il rapporto fanti-cavalieri si stava sempre più spostando dalla netta sproporzione nei confronti dei primi verso un riequilibrio tra le due armi.
Alla cavalleria più antica, che serviva per operazioni di esplorazione, pattugliamento e disturbo, si stava sempre più associando quella di un altro tipo, finalizzata a cercare l’urto e lo sfondamento dei ranghi avversari.
Copiando le formidabili truppe a cavallo persiane, sia corazzate sia equipaggiate come arcieri montati, che erano tanto temute nelle guerre in oriente, nacquero i reparti di catafracti e clibanarii, truppe a cavallo dotate di pesanti armature sia per gli uomini sia per i cavalli.
Queste unità vennero utilizzate molto spesso fin dall’epoca dei costantinidi, sia nelle loro guerre civili sia nelle lotte contro i barbari, alternando momenti di grande valore ad altri con infime prestazioni (come ad Argentorarum).
Di sicuro Valente poteva disporre di diverse unità di questo tipo nella sua armata annientata ad Adrianopoli.
Quale era il pregio di questi soldati? In primis la mobilità, che si sposava perfettamente con la strategia incentrata sulle armate di manovra, oramai cardine del sistema difensivo imperiale; inoltre va sottolineato che cento uomini a cavallo corazzati potevano prevalere su molti più fanti, soprattutto se armati alla leggera e poco disciplinati come molti barbari (la proporzione nel Medioevo diverrò di dieci a uno, ovvero un solo cavaliere bardato prevaleva su dieci contadini armati malamente).
Con i due momenti traumatici del 378 e del 406 questo sistema militare si avviò verso il tramonto. Le forze comitatenses, travolte non per loro demeriti o deficienze ma per la mancanza di una guida autorevole (Valente per la prima data e l’imbelle Onorio per la seconda), vennero sempre più spesso rimpiazzate da contingenti barbari che non venivano più addestrati “alla romana”, ma tendevano a combattere alla maniera dei loro avi, chi con l’ascia e la lancia a piedi come franchi e alemanni, chi a cavallo come goti e più tardi gli unni.
La fanteria legionaria scomparve definitivamente in occidente nei fatti che seguirono la caduta del limes renano nel fatale inverno del 406, mentre in oriente declinerà lentamente, mentre gli eserciti di Costantinopoli verranno sempre più composti da cavalieri pesanti o dotati d’arco (con molti barbari, goti e unni, almeno fino a Giustiniano).
Ma elemento fondamentale che rivoluzionerà del tutto il mondo militare tardo-antico e medievale è l’avvento della staffa. Sarà questo semplicissimo strumento, ovvero un cerchio metallico a fondo piatto che pende ai lati della sella e nel quale il cavaliere può riporre il piede, a consegnare definitivamente il ruolo di regina delle battaglie dalla fanteria di epoca classica alla cavalleria medievale.
In campo militare costituisce la più importante delle innovazioni perché garantendo maggior stabilità permetteva movimenti più complessi. Infatti il soldato poteva finalmente utilizzare al meglio sia la lancia da carica sia l’arco, senza rischiare il disarcionamento perché aveva mollato le briglie della cavalcatura. Fin dall’epoca della invitta cavalleria macedone di Alessandro i suoi uomini avevano avuto l’immenso gap operativo di dover controllare le bestie solo con le ginocchia mentre andavano alla carica, rischiando comunque al momento dell’urto con il nemico di essere sbalzati di sella.
La staffa risultò quindi come un immenso vantaggio per il popolo che ne fece uso.
Questo strumento venne inventato in India nel II secolo d.C. e probabilmente venne visto per la prima volta in Europa durante le invasioni barbariche, forse portato dagli unni, che erano formidabili arcieri a cavallo.
Nei secoli appena successivi alla caduta di Roma probabilmente questo mezzo venne dimenticato nuovamente tranne che in oriente, dove Bisanzio prosperò e anzi riformò tutto il suo esercito, abbandonano le grandi e pesanti legioni di fanteria per più veloci e specializzate truppe di cavalieri dotate di archi, lance da carica e armature.
Nell’Europa occidentale riapparve e si affermò definitivamente con le invasioni degli arabi nell’Alto Medioevo (VII-VIII secolo), permettendo alla dinastia carolingia di equipaggiare molti contingenti di cavalleria pesante che formeranno la crema dell’esercito con il quale Carlo Magno sottomise mezza Europa tra la fine dell’VIII e l’inizio del IX secolo. Per l’anno mille la cavalleria pesante era considerata il reparto più temuto di ogni armata medievale, e in genere chi disponeva di un maggior numero di cavalieri prima metteva in rotta o catturava i corrispettivi avversari per poi massacrare i poveri contadini reclutati a forza per comporre le unità di fanteria.
Si dovranno aspettare gli archi lunghi inglesi, le picche svizzere e i primi archibugi per rivedere vittorie ottenute con l’apporto fondamentale della fanteria (con rarissime eccezioni).
Ma ora analizziamo i diversi casi che, tra il V e il XV secolo, resero famosa la cavalleria. Infatti questo non è un percorso perfettamente lineare, anzi ebbe diverse oscillazioni a seconda dei popoli che la adottarono nei propri eserciti, dei suoi usi e del suo armamento.
Analizzeremo assieme il cavaliere unno, molto simile ai mongoli (entrambi popoli delle steppe), che era capace sia di prodezze immani con l’arco, sia di grande capacità d’urto mediante reparti più pesanti; poi c’è il cavaliere bizantino, un’unità altamente specializzata che al massimo del suo splendore era superiore agli unni e agli avari, popoli ai quali si era ispirato, sia con l’arco sia con la lancia; ancora il cavaliere barbaro e quello arabo delle prime conquiste islamiche avevano in comune l’armamento non eccessivamente pesante che era però controbilanciato dalla grande forza combattiva e dall’impeto che mettevano nelle loro cariche non troppo disciplinate ma molto vigorose; poi abbiamo l’evoluzione del tipico cavaliere europeo, dagli albori con Carlo Magno fino alle compagnie di ventura del XV secolo.
Partiamo dalla prima di queste distinzioni, ovvero il cavaliere unno. In sé il cavaliere unno non era molto dissimile dai popoli di cavalieri della steppa che lo precedettero (sciti) e da quelli che gli succedettero (avari, bulgari, ungari, peceneghi, cumani e infine mongoli).
La ragione della loro singolarità stava nell’adozione di piccoli destrieri di origine mongola, molto più resistenti di tutti gli altri cavalli che avevano conosciuto i romani, cosa che permise loro di superare distanze e problemi logistici che per ogni esercito imperiale erano considerati insormontabili.
Inoltre erano abilissimi sia con l’arco, sia con la spada, sia con un laccio che, come i lazos dei cowboy dell’ottocento, gli permettevano di bloccare e catturare i nemici. La tattica era abbastanza standardizzata, oramai interiorizzata da ogni unno come elemento ancestrale di appartenenze alla propria stirpe e affinata da secoli di lotte tra le steppe.
L’attacco veniva sferrato con rapide bordate di frecce scagliate dai potentissimi archi compositi ricurvi, che potevano uccidere da grandi distanze. Se il nemico non attaccava subiva un gran numero di perdite da lontano, e se attaccava non era comunque in grado di entrare in contatto con gli avversari. In più, se durante la carica scompaginava i suoi ranghi, si esponeva alle formidabili cariche degli unni, che in pochi decisivi attimi si ammassavano e attaccavano i punti dove lo schieramento nemico si era indebolito o si stava riorganizzando, facendo una strage con le loro sciabole.
Per un esercito non preparato a questo metodo di combattimento gli effetti dovevano essere devastanti. I popoli barbari, ognuno specializzato in un determinato approccio bellico, vennero tutti sottomessi da questo popolo dotato di un immenso vantaggio sia tattico che strategico. I romani, dotati invece di immense risorse e di un potere più accentrato, poterono pian piano assorbire l’effetto di questa magnifica risorsa bellica. Prima trattando con gli unni o reclutandoli nelle fila dei loro eserciti (Giustiniano si doterà di forti contingenti unni nelle armate che riconquisteranno l’Africa, l’Italia e la Spagna meridionale nel VI secolo), poi copiando il loro sistema di combattimento e creando dei reparti scelti che univano al vantaggio delle armi unne la disciplina e l’organizzazione dell’esercito romano.
L’unica debolezza di questo popolo fu quella di non aver mai fatto due passi fondamentali: per prima cosa non prestarono mai attenzione all’assorbimento delle capacità dei popoli conquistati, ad esempio l’abilità dei fanti germanici o le conoscenze d’assedio romane (infatti le grandi città caddero raramente anche se davanti avevano forze unne soverchianti); come seconda non crearono mai un sistema di burocrazia e di gestione del loro impero tale da reggere alla morte dei loro leader più carismatici (l’impero di Attila si estinse dopo una sola battaglia, quella di Nedao nel 454, un anno dopo la sua morte).
Queste due deficienze vennero superate dal popolo delle steppe che seppe creare il più grande impero della storia (nel XIII secolo contava trentasei milioni di km², con cento milioni di sudditi), i mongoli.
Gengis Khan, che vuol dire per l’appunto “Sovrano Universale” (il suo vero nome era Temujin), dopo aver unificato i mongoli e aver riorganizzato l’esercito con un sistema estremamente sofisticato ed efficiente, lanciò una serie di campagne di conquista che lo portarono a conquistare mezza Cina e buona parte dell’Asia centrale prima della sua morte. Inoltre seppe creare un sistema di governo accentrato formidabile, una rete viaria e una burocrazia tale (usando i molto più esperti cinesi) che l’impero non solo sopravvisse, ma si allargò per tutto il XIII secolo, fino all’estensione spropositata già citata, che andava dall’Oceano Pacifico all’Ungheria, dall’India settentrionale fino alla Russia, dalla Palestina fino alla Corea.
Anche il cuore dell’esercito mongolo era composto da reparti di formidabili arcieri a cavallo, a cui si aggiungevano contingenti di lancieri pesantemente corazzati che potevano rivaleggiare con i cavalieri europei. Inoltre seppero sfruttare bene le abilità dei popoli conquistati per ovviare ai loro deficit, come l’organizzazione statale e le conoscenze ossidionali cinesi, cosa che rese i mongoli anche molto efficienti nel conquistare (e poi radere al suolo fino alle fondamenta) le città.
L’ordinamento dell’esercito era basato sul sistema decimale: una divisione, composta da diecimila uomini, era detta tumen, a sua volta suddivisa in dieci reggimenti (mingham) da mille soldati, suddivisi ancora in squadroni da cento (jagun) e infine da compagnie da dieci (arban).
La più potente unità dell’esercito era il Keshik, la guardia imperiale, composta da diecimila effettivi che rimanevano sempre sotto le armi anche in tempo di pace ma in compenso avevano prestigio e privilegi superiori anche ai comandanti superiori delle unità regolari.
La disciplina era severissima, il sistema di comando intuitivo ed efficiente, il dinamismo era la parola d’ordine ed erano inoltre dotati di una resistenza sconosciuta agli avversari (molto simile a quella unna). La loro maggior capacità di adattamento rispetto agli altri popoli delle steppe permise loro di creare un immenso impero multietnico e multi-religioso che scomparve del tutto solo nel XVIII secolo, con la fine degli ultimi eredi dei numerosi Stati da loro fondati in tutta l’Asia.
In quanto alla tattica in battaglia questa era molto simile a quella già citata per gli unni, a cui si aggiungevano le maggiori capacità di assedio e logistiche che li rendevano un esercito quasi invincibile (tanto che subì le prime sconfitte solo in grande inferiorità numerica e contro avversari che oramai conoscevano le tattiche mongole).
Passiamo ora al cavaliere bizantino, unità che aveva preso spunto dalle innovazioni portate dai numerosi popoli della steppa che vennero in contatto con Costantinopoli, dagli unni fino ai turchi selgiuchidi.
Nell’Impero Romano d’Oriente, una volta caduta la parte occidentale, non si era perso lo spirito della romanità e gli imperatori avevano anzi puntato molto sull’esercito, proseguendo nella strada tracciata dai loro predecessori e apportando modifiche sostanziali e originali che rivoluzioneranno l’esercito tardo-romano.
Andando oltre la vecchia concezione delle truppe comitatenses, formate da fanti pesanti e cavalieri e ancora finalizzate allo scontro frontale e all’annientamento del nemico, si decise a varare una coraggiosa rivoluzione tattico-strategica. Il cuore dell’esercito divennero sempre di più dei reparti d’élite che agivano come gli arcieri a cavallo unni. Queste truppe, oltre all’abilità con l’arco, erano dotate di corazza e lancia per la carica, cosa che le rendeva estremamente versatili.
Naturalmente l’arciere/lanciere a cavallo bizantino non era abile quanto un unno con l’arco (il secondo veniva addestrato fin dalla nascita al tiro e viveva in simbiosi con il cavallo), ma con un durissimo allenamento poteva cavarsela egregiamente contro questi avversari e prevaleva nettamente contro tutti gli altri barbari. In più la maggior bardatura, la possibilità di agire come una forza d’urto, la ferrea disciplina e l’ottima organizzazione pareggiavano i conti con la superiorità “genetica” dei temuti predoni della steppa.
Di sicuro la trasformazione non fu ne indolore, ne semplice. Gli estimatori del vecchio sistema legionario pensavano che non fosse onorevole un combattimento basato più sulla schermaglia che sull’urto, il passo cadenzato e il rullo di tamburi in campo aperto.
Procopio di Cesarea, storico del VI secolo, difese così il nuovo sistema: “Vi sono quelli che chiamano i soldati dei tempi odierni gli arcieri, e quelli dei tempi antichi ai quali vogliono attribuire qualifiche elevate come soldati da corpo a corpo, scudieri e altri titoli simili. Ritengono che il valore di quei tempi non sia sopravvissuto fino ad oggi. Ma c’è da dire che gli arcieri derisi da Omero non si muovevano a cavallo ne si proteggevano con scudi e lance. In realtà essi non portavano addosso alcuna protezione; e non potevano partecipare ad una battaglia decisiva in campo aperto. Gli arcieri di oggi scendono in campo corazzati di giustacuori che coprono loro il petto e la parte alta del dorso e indossano schinieri alti fino al ginocchio. Portano le frecce appese al fianco destro e sull’altro lato la spada. E alcuni hanno anche la lancia”
La scelta di cambiare tecniche di combattimento fu probabilmente dovuta ad un accorto ragionamento. La legione era tutta incentrata sull’annientamento dell’avversario, sulla conquista di posizioni fortificate, sulla ricerca dello scontro decisivo. I bizantini avevano però capito, dopo oltre un secolo di invasioni barbariche, che quel sistema non era più adatto alla difesa o che comunque risultava troppo oneroso.
Gli invasori barbari o i predoni a cavallo non offrivano un bersaglio netto e preciso per i reparti di fanteria pesante, infatti in genere si dedicavano più al saccheggio e alla scorreria. Gli arcieri/lancieri bizantini erano perfetti per rintuzzare queste azioni e nel caso effettuare rapide spedizioni punitive contro i loro accampamenti.
Oltretutto lo scacchiere danubiano, una delle due aree “calde” delle frontiere imperiali (l’altra era il confine con la Persia), era sempre più caratterizzato da invasori che non combattevano a piedi o a cavallo come i goti, i franchi o gli alemanni, ma quasi esclusivamente da popoli di arcieri a cavallo nomadi, che sarebbero risultati un bersaglio imprendibile per una disciplinata, ma lenta, legione romana.
Come ulteriore argomento da aggiungere a questa tesi, va sottolineato quello che ho già accennato precedentemente: il cavaliere era oramai diventato qualitativamente superiore al fante e costava meno. Mi spiego meglio: un operazione compiuta da soli cavalieri si poteva effettuare più rapidamente, con meno sforzi logistici e soprattutto impiegando meno soldati.
Farò due esempi per avvalorare la mia tesi: nel 533 al generale Belisario bastarono 10.000 fanti (eredità delle legioni e mercenari barbari) e 5.000 cavalieri (i nuovi arcieri bizantini e alcuni reparti di unni) per conquistare tutto il regno vandalico (che poteva schierare decine di migliaia di guerrieri), cosa che meno di un secolo prima non era riuscita a ben due spedizioni romane condotte con effettivi almeno quattro o cinque volte superiori; nel 535, quando prese Roma ai goti, venne assediato da un numero preponderante di nemici che volevano riprendere la città. Un giorno mandò a fare una sortita un reparto di duecento arcieri a cavallo, che quando ritornò all’imbrunire dentro la città aveva inflitto alcune migliaia di caduti agli assedianti senza subire una sola perdita.
La miglior prova si questo nuovo tipo di truppa però lo possiamo riscontrare nelle guerre contro gli avari, ennesimo popolo delle steppe a rovesciarsi nell’Europa orientale. Tra il 580 e il 590 e soprattutto sotto l’Imperatore Maurizio (582-602), l’esercito bizantino addestrato secondo i nuovi dettami diede gran prova di sé, contenendo e sconfiggendo ripetutamente questi nemici che non dovevano essere troppo dissimili dagli unni.
Ultima annotazione: questo tipo di unità è da considerare d’élite, come tale necessitava di un continuo addestramento e di una forte volontà del potere centrale a mantenere un alto grado di efficienza delle truppe. Per questo che, in momenti di debole leadership o di un periodo di pace troppo lungo, questo sistema tendeva a svalutarsi.
Questo infausto evento si verificò dopo la morte di Basilio II nel 1025 e il successivo periodo di congiure, rivolte e imbelli imperatori, che furono la causa principale del repentino collasso del complesso difensivo imperiale sotto l’assalto dei turchi selgiuchidi e la sconfitta di Manzikert del 1071.
Ma ora abbandoniamo il teatro di guerra bizantino per spostarci ad ovest, andando a studiare lo strumento principe degli eserciti medievali dell’Europa occidentale, il cavaliere pesante.
Di sicuro l’antenato del cavaliere feudale dell’anno mille è il guerriero montato di epoca carolingia. I franchi infatti, dall’epoca in cui erano famosi per i fanti armati d’ascia, si erano pian piano riconvertito all’uso di forti contingenti a cavallo armati e bardati pesantemente.
Dalle fonti degli storici dell’epoca sappiamo che il popolo franco, insediatosi nella Gallia romana fin da quel fatidico 406, basò tutta la sua fase di affermazione e conquista degli altri barbari (burgundi, alemanni, sassoni e visigoti) della regione sulla sua resistente fanteria e questo modo di fare la guerra rimase in uso almeno fino a Carlo Martello.
Questi era il maggiordomo di palazzo dei sovrani merovingi del regno franco. Gli ultimi sovrani erano passati alla storia come re fannulloni, tanto che vennero rimpiazzati dalla famiglia dei loro primi ministri, ovvero Carlo e suo figlio Pipino. Probabilmente è merito del loro operato se i franchi si convertirono alla cavalleria pesante, introducendo nei loro eserciti la staffa e l’uso di poderose cariche di cavalieri corazzati.
Nel 732, nella battaglia di Poitiers, quella che insieme alla difesa di Costantinopoli ad oriente (717-718) respinse la marea musulmana e preservò l’Europa cristiana, questo processo doveva essere appena iniziato o ancora in fase di progettazione.
Infatti il contributo della cavalleria, a parte l’intervento del duca d’Aquitania Oddone fu minimo, mentre lo scontro fu deciso dalla solidità del muro di scudi, lance e spade che la fanteria pesante franca, sassone, frisona e bavara oppose alle cavallerie leggere e ai guerrieri musulmani.
I cronisti arabi parlarono di uno scontro contro un muro di ghiaccio, dove gli uomini del nord li aspettarono in un raggelante silenzio, immobili come statue fino all’urto, quando estrassero le spade e calarono le asce sui molto meno corazzati nemici.
Altra prova della mancanza di cavalleria franca e che non fu effettuato un vero e proprio inseguimento dei nemici, che vennero lasciati ritornare in Spagna indisturbati.
Quindi probabilmente gli anni tra il 732 e il 771 circa devono essere stati fondamentali, ma purtroppo sono anche poco conosciuti agli storici, tranne le invasioni dell’Italia effettuate da Pipino, in sostegno del Papa, tra il 755 e il 766.
Anche l’entità numerica degli eserciti utilizzati da Carlo Magno nelle sue guerre di conquista non è purtroppo certa, ma siamo ragionevolmente sicuri che oltre ad una buona fanteria potesse schierare un nucleo di diverse migliaia di cavalieri.
Ma come mai i franchi adottarono questo tipo di contingente così lontano dal loro modo di fare la guerra? La risposta potrebbe essere ricercata nelle nuove esigenze militari di un regno che stava diventando sempre più simile ad un impero europeo. Era passato molto tempo da quando i franchi erano una semplice confederazione di tribù che agiva come foederata dell’Impero Romano. Fin dai tempi di re Clodoveo (VI secolo) avevano conquistato Parigi ed esteso i loro confini in tutte le direzioni, sia a sud, sia ad est.
Da quando si erano convertiti in massa al cristianesimo erano in breve diventati strenui difensori della Chiesa e utilizzavano questo mezzo come efficiente propaganda e utile casus belli contro le altre tribù germaniche rimaste pagane come i sassoni.
La forte ma lenta fanteria franca non garantiva più un sistema efficace a rendere sicura tutta la frontiera, infatti non era abbastanza numerosa a livello locale e ci metteva troppo tempo a radunarsi in numero tale da respingere grosse invasioni.
Al contrario un sistema basato su gruppi più ristretti, maggiormente corazzati e montati a cavallo poteva reprimere in fretta rivolte, scacciare incursori esterni e nel caso fornire la punta di diamante degli eserciti di linea franchi.
L’apparato era molto semplice e intuitivo: il re concedeva terre e proventi a uomini di sua fiducia, che amministravano la giustizia, riscuotevano tasse e difendevano la regione a livello locale; in cambio questi privilegiati dovevano andare in guerra armati di tutto punto quando il signore li chiamava, molto spesso portandosi appresso un seguito di cavalieri pesanti e un numero maggiore di attendenti, servi e contadini arruolati con la leva stagionale. Era nato il sistema feudale!
Naturalmente le zone più ricche e quelle più esposte ad attacchi erano quelle più ambite dai nobili, dato che le prime erano dotate di maggiori proventi, le seconde di un maggior numero di soldati sotto il controllo del signore provinciale.
Abbiamo già parlato del declino della qualità della fanteria, che con l’affermarsi di questo nuovo sistema si accentuò sempre di più. I fanti, un tempo capaci – come abbiamo visto a Poitiers – di resistere agli assalti di orde di cavalieri, scomparvero e vennero rimpiazzati da leve stagionali contadine o nei migliori casi cittadine. Queste erano male armate e peggio motivate e venivano di regola messe in rotta dalla cavalleria che risultava vincente nello scontro contro la sua controparte. Insomma, chi schierava più cavalieri vinceva!
E Carlo, per tutta la durata del suo lungo e prospero regno, ne poté schierare sempre di più.
Ma facciamo un balzo di un secolo e mezzo e analizziamo la cavalleria altomedievale al suo apice. Siamo vicini all’anno mille e per l’Europa non è un bel periodo: l’impero di Carlo Magno si è spezzato ed è dilaniato dalle guerre civili, il suo ultimo discendente diretto si è spento senza eredi nel X secolo e nuovi e vecchi nemici premevano alle frontiere. I vichinghi dai mari del nord, i saraceni da quelli del sud e i magiari dalle pianure dell’est.
Questi ultimi esponenti di una lunga serie di predoni a cavallo della steppa che avevano invaso l’Europa fin dall’epoca degli unni e antenati dell’odierna nazione ungherese, si erano insediati per l’appunto nelle pianure della Pannonia e da li saccheggiavano indiscriminatamente Germania, Italia, Polonia e perfino Francia.
Le loro erano grandi incursioni più che opere di conquista e in questo rispecchiavano il classico modus operandi di queste stirpi altaiche.
Nel 936 salì al potere in Germania Ottone, uomo dall’immensa ambizione e in possesso di tutte le doti e la abilità per soddisfarla. Voleva ricreare il potere perduto dei carolingi, instaurando un Sacro Romano Impero che avrebbe compreso sia la Germania, sia l’Italia. Per farlo dovette affrontare le numerose rivolte dei suoi feudatari e perfino del suo stesso figlio, ma dopo due decenni di lotte era abbastanza sicuro da poter concentrare le forze per risolvere una volta per tutte il problema ungaro.
Nel 955 un orda di forse 50.000 magiari entrò in terra tedesca e si diede al saccheggio della Baviera, assediando la città di Augusta. Ottone decise di affrontarli, riunì tutti i suoi feudatari e marciò verso il nemico.
Il re non disponeva di non più di 10.000 uomini, ma tutti erano cavalieri pesanti, mentre i magiari erano per la maggior parte arcieri a cavallo e molti non erano per nulla preparati alla mischia. A Lechfeld, dove le due armate si scontrarono, fu una travolgente vittoria germanica. Infatti i magiari, contando sulla superiorità numerica, avevano distaccato un grosso contingente affinché attaccasse da tergo i tedeschi, mentre il grosso della truppa avrebbe dato il colpo di grazia frontale una volta che i ranghi nemici sarebbero stati scompaginati dai lanci di frecce.
Il piano iniziò bene, infatti il reparto ungaro mise quasi in rotta la retroguardia di Ottone, ma per problemi di coordinamento i magiari non attaccarono in quel momento, dando il tempo al sovrano di mandare rinforzi nelle retrovie, massacrare il contingente nemico e rischierare tutti i suoi cavalieri in un unico fronte davanti ai magiari.
A questo punto gli invasori erano ancora superiori almeno di tre a uno, se non di più, ma vennero investiti dalla carica dei cavalieri di Ottone prima di poter agire. Il terreno di Lechfeld avvantaggiava le truppe di cavalleria che vi operavano, ma allo stesso tempo non era così ampio da permettere le strategie elusive degli arcieri a cavallo della steppa, che provarono per la prima volta l’attacco irresistibile di una schiera pesantemente bardata di uomini a cavallo.
Gli ungari poterono lanciare una sola bordata di frecce, ma questa venne per lo più bloccata dagli scudi levati dei tedeschi, poi fu un massacro.
I cavalieri germanici spinsero l’orda nemica verso il fiume, dove la annientò con tutta calma. Si dice che solo un quinto degli invasori ritornò a casa in seguito ai giorni di spietato rastrellamento che seguirono la battaglia vittoriosa, effettuati dagli uomini di Ottone e dai contadini locali, esasperati da decenni di ruberie ungare.
Cosa è successo quel 10 agosto? Come mai la tanto consolidata cavalleria leggera nomade era stata sconfitta? Fino ad allora, la sua mobilità e la sua capacità di attaccare il nemico a distanza con potenti archi compositi le aveva dato la qualifica di strumento praticamente invincibile in campo aperto. Le sue sconfitte erano state pochissime, tutte dovute ad un nemico diventato in quella tecnica bravo come loro (vedi i bizantini) oppure in seguito a particolari condizioni (nella battaglia di Nedao gli unni vennero sconfitti perché la pioggia rese inutilizzabili i loro archi e meno mobili le loro forze a cavallo).
A Lechfeld si trovarono di fronte a tre ordini di problemi: in primo luogo le condizioni atmosferiche umide e forse le piogge estive tedesche avevano reso meno efficaci i loro archi (l’umidità rovina i collanti animali che rendono tanto potente l’arco composito); in secondo luogo la posizione scelta, che in un pianoro con a fianco un fiume e probabilmente molti boschi non ha permesso la consueta agilità nomade; infine l’abilità di Ottone e la potenza della cavalleria pesante germanica, che agiva come un rullo compressore se le si dava un terreno senza ostacoli, un nemico che lo aspetta frontalmente senza lance o picche e il tempo di organizzare bene la carica (tutte condizioni che i magiari furono tanto gentili da concedere loro).
In genere queste saranno le condizioni che la cavalleria pesante cercherà sempre di ottenere durante le battaglie, riuscendo a prevalere per tutti i secoli fino al tardo medioevo. Solo l’avvento di fanterie specializzate nel XIV secolo (vedi il mio articolo qui) inizierà ad incrinare questo predominio, portando prima ad un declino del classico cavaliere corazzato, poi ad una rivoluzione, sia nel suo armamento, sia nel suo utilizzo in battaglia. Ma la scomparsa definitiva degli uomini a cavallo dai campi di battaglia non avverrà con la comparsa di archibugi e cannoni, ma solo quando appariranno i nuovi “cavalieri pesanti” dell’Era Moderna: carri armati e cacciabombardieri!
Alberto Massaiu
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