La guerra che coinvolse i romani d’oriente e i persiani nei primi trent’anni del VII secolo d.C. fu un conflitto paragonabile a quello tra Atene e Sparta nel Peloponneso, Inghilterra e Francia nel Medioevo, la Casa degli Habsburg d’Austria e Spagna contro tutte le altre Nazioni in Germania tra il 1618 e il 1648 e, per alcuni suoi aspetti, perfino a quelli mondiali d’inizio secolo scorso.
A mio parere personale se la Guerra Gotica aveva posto la parola fine alla classicità in Italia, fu invece questo armageddon a fare lo stesso in oriente, ponendo anche qui le basi per l’avvento dell’Alto Medioevo.
I soldati di Roma combattevano nelle sabbie di Siria, Palestina e Mesopotamia fin dai tempi di Pompeius Magnus, triumviro con Caesar, e qui avevano subito una prima, devastante sconfitta da parte dai parti a Carre nel 53 a.C., in cui 20.000 legionari e ausiliari rimasero sul terreno e 10.000 caddero prigionieri per colpa dell’avidità e dell’imperizia bellica di Marcus Licinius Crassus. Neanche Marcus Antonius, prima riluttante alleato e poi feroce nemico di Octavianus, l’erede del dictator perpetuus Gaius Iulius Caesar, riuscì a ristabilire l’onore dell’Urbe con una serie di campagne fallimentari condotte tra il 37 e il 33 a.C.
Dopo essere diventato l’indiscusso signore di Roma in seguito alla battaglia di Azio del 31 a.C. Octavianus Augustus decise di portare avanti una politica di distensione con i parti, che portò al grande successo diplomatico del 21 a.C. in cui riuscì ad ottenere le insegne militari perdute trent’anni prima a Carre, ristabilendo il prestigio romano. Egli stabilì l’Eufrate come linea di confine tra i due imperi, portando poi ad una sorta di Guerra Fredda nel Caucaso, in cui le potenze sostenevano i loro pretendenti ai troni dei principati armeni della regione per spostare l’equilibrio in quello scacchiere senza un dispendioso confronto militare diretto.
Il cambio di politica avvenne però sotto Traianus, che per poco fece credere a Roma di aver sottomesso anche il suo ultimo, rimanente degno avversario. Tra il 114 e il 117 l’imperatore che aveva sottomesso la Dacia mosse infatti ad oriente, conquistando l’Armenia e il Caucaso fino al Mar Caspio e poi scendendo lungo i fiumi Tigri ed Eufrate, occupando la capitale nemica Ctesifonte e giungendo infine al Golfo Persico, nell’attuale Kuwait.
Da allora, e per tutto il secolo, Roma condusse una serie di vittoriose offensive che raggiunsero il culmine sotto Septimius Severus, che mosse ben 150.000 uomini divisi in venticinque unità tra legioni a pieno organico e vexillationes (distaccamenti più piccoli di legioni stanziate in altre regioni dell’impero). Questi, nel 197, costruì una flotta per scendere in sicurezza l’Eufrate (un po’ come fecero i britannici nelle guerre anglo-sudanesi in cui ho parlato in un precedente articolo) e prese le antichissime metropoli di Seleucia e Babilonia, per poi saccheggiare la stessa Ctesifonte, che subì la sua terza violazione dopo quella di Traianus nel 116 e di Lucius Verus nel 165.
Queste devastanti sconfitte portarono al fatale indebolimento dei parti, che vennero soppiantati dai ben più dinamici sasanidi in un breve conflitto a cavallo tra il 224 e il 228. Il nuovo šāhanšāh, o Re dei Re, Dariardashīr I proclamò di essere discendente degli antichi sovrani di Persia, che un tempo avevano dominato dall’India fino all’Egeo, perciò i successivi quattro secoli di conflitti con Roma, che controllava l’Egitto, la Palestina, la Siria e l’Anatolia, tutti ex territorio dell’antico potentato annichilito da Alexandros di Macedonia, divennero così inevitabili.
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«Dariardashīr, credendo che l’intero continente di fronte all’Europa, separato dal Mar Egeo e dalla Propontide, e la regione chiamata Asia gli appartenessero per diritto divino, intendeva recuperarlo per l’impero persiano. Egli dichiarò che tutti i paesi della zona, tra Ionia e Caria, erano stati governati da satrapi persiani, a partire da Kūruš il Grande, che per primo trasferì il regno dalla Media ai Persiani, fino a Dārayavahuš III, l’ultimo dei sovrani persiani, il cui regno fu distrutto dal grande Alexandros. Così secondo lui era giusto restaurare e riunire per i persiani, il regno che avevano precedentemente posseduto»
Herodianos, “Tês metà Márkon basiléias historíai” o “Storia dell’impero dopo Marcus Aurelius”
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Ad ogni modo la nuova dinastia si dimostrò fin da subito molto più vigorosa della precedente e seppe muovere vittoriose offensive contro i romani dal 230 fino al 260, anno in cui per la prima volta nella storia un imperatore romano venne catturato dal nemico. Valerianus, infatti, venne cadde nelle mani di Shāpūr I, portando al punto più basso il prestigio di Roma nei conflitti con il suo vicino orientale, oltre che alla crisi interna che rischiò di far disintegrare il dominio della Civitas Aeterna all’apice della celebre “Crisi del III secolo”, in cui vari Stati secessionisti ad est e ad ovest misero in serio pericolo l’autorità dell’Urbe.
Per fortuna, nel 270, salì al potere il duro ed esperto generale Lucius Domitius Aurelianus, che con il pugno di ferro seppe annichilire tutti i nemici e riportare le frontiere al loro posto con una serie di rapide e trionfali campagne in Pannonia, Italia, Dacia, Anatolia, Siria, Mesopotamia, Mesia, Tracia e infine Gallia, potendosi infine fregiarsi del ben meritato titolo di Restitutor Orbis o “Restauratore del Mondo”.
A questo punto, e per tutto il resto del secolo fino alla pace del 298, i romani tornarono all’offensiva sotto Marcus Aurelius Carus (che prese per l’ennesima volta Seleucia e Ctesifonte) e Diocletianus, che riportò sotto il dominio diretto dell’Urbe la Mesopotamia con le strategiche città-fortezze di Dura Europos e Nisibi e sotto protettorato l’Armenia, stabilendo un primato stabile di Roma nella regione per i successivi quarant’anni di pace.
Questa venne infine rotta da Constantius II, figlio del fondatore di Costantinopoli, e Shāpūr II di Persia, che inaugurarono l’ultima stagione di conflitti che si protrassero fino a quello che a noi ci interessa, ovvero quello a cavallo tra il 602 e il 628 d.C.
Dopo la caduta della Pars Occidentis tra il 406 e il 476 d.C. le insegne imperiali furono di nuovo concentrate in un solo luogo, ovvero nella Nova Roma fondata sul Bosforo da Constantinus Magnus nel 330 d.C. che, sotto Iustinianus, tentò per trent’anni di restaurare la propria autorità nelle province perdute con una serie di guerre in Africa, Italia e Spagna che dissanguarono l’Impero Romano. Ad intervallo regolari le campagne ad ovest vennero bloccate per sostenere le difese ad est, con guerre e tregue che poco cambiarono al confine ma tennero impegnate le forze di entrambi tra il 530 e il 561, anno in cui venne stabilità una pace che, molto ottimisticamente, sarebbe dovuta perdurare un cinquantennio.
Il cambio di rotta ci fu con il primo tra i protagonisti principali di questo articolo, Flavius Mauricius Tiberius. Questi venne nominato magister militum per l’oriente nel 578 e iniziò a confrontarsi con successo contro i sassanidi in Mesopotamia e Armenia. Penetrò quindi nelle regioni dell’Arzanene e della Media, che vennero saccheggiate, e infine annientò ben due eserciti nemici giunti ad affrontarlo. A questo punto l’imperatore Tiberius II lo nominò proprio successore in punto di morte, elevandolo al trono nel 582.
L’Impero Romano da lui ereditato era però fiscalmente a pezzi e un abbassamento dei salari dei soldati provocò ammutinamenti che per due anni misero in serio pericolo la sua autorità e indebolirono la frontiera. Solo nel 589 Heraclius il Vecchio, padre del futuro sovrano che sconfiggerà del tutto i persiani, seppe sconfiggerli in maniera decisiva a Sisarbanon. Questo fatto portò, con ulteriori vicende, ad una crisi dinastica in Persia, in cui il generale Bahrām si ribellò e cacciò il suo legittimo sovrano Khusraw II.
Quest’ultimo si rifugiò presso l’antico nemico romano e implorò Mauricius di restituirgli il trono. In cambio promise la consegna delle città strategiche Dara e Martiropoli, oltre che parte dell’Armenia e dell’Iberia. Questi accettò e mosse contro l’usurpatore, sconfiggendolo e ponendo sul trono Khusraw II. Questi onorò le sue promesse e mantenne fedelmente buoni rapporti con Costantinopoli per i successivi dieci anni, fino a che il suo benefattore Mauricius non venne ucciso dall’usurpatore Phokas nel 602.
Quest’ultimo era un totale inetto oltre che un crudele tiranno, che riempì di sangue le strade della capitale, compresa tutta la famiglia del predecessore. Il suo governo non fu meno dannoso, cosa che portò i persiani alla più sfolgorante serie di vittorie della loro storia contro Roma. Tra il 602 e il 624, infatti, questi ultimi conquistarono la Mesopotamia, l’Armenia, la Siria, la Palestina, l’Egitto e parte dell’Anatolia, devastando la restante in mani imperiali.
Nel 610 il governatore di Cartagine, Flavius Heraclius, detronizzò Phokas ma dovette assistere impotente al saccheggio di Cesarea, alla distruzione dei luoghi santi di Gerusalemme con la cattura di tutte le più antiche reliquie ivi contenute, oltre che di un’invasione di avari e slavi dei Balcani, tutti fatti che portarono quasi al collasso l’Impero Romano, facendogli valutare perfino l’idea di trasferire la capitale da Costantinopoli a Cartagine.
Il mutare della marea arrivò però nel 622, quando egli iniziò a definire il conflitto come una Guerra Santa – la prima nella storia di Roma e in generale dell’Occidente – contro gli infedeli zoroastriani persiani. Lasciato presso la città sul Bosforo il figlio e il carismatico patriarca Sergios mosse con l’ultima armata romana nel Caucaso, decidendo di optare per un’audace strategia di ampio respiro in cui non avrebbe dovuto riconquistare pezzo per pezzo ogni città o fortezza persa in quel primo ventennio catastrofico, bensì minacciare il cuore del potere dei Re dei Re attaccando il ventre molle del loro dominio con un’ampia manovra da nord.
Per vendicare il sacco di Gerusalemme egli diede alle fiamme l’antico tempio del Fuoco di Gandža nel 624, per poi annientare ben tre distinte armate persiane l’anno successivo. Furioso, Khusraw II, che definiva Heraclius “Nostro stupido ed inutile servo”, mosse con 50.000 soldati verso Costantinopoli, alleandosi con 80.000 tra slavi e avari per espugnare la città stringendola d’assedio dall’Asia e dall’Europa. Qui le forze nemiche vennero affrontate dalla tenacia dei 12.000 difensori e dalla potenza del Fuoco Greco, che sgominò la grande flotta messa insieme dai nemici con l’impiego di pochi dromoni da guerra muniti di lanciafiamme. Si narra che in quest’occasione venne innalzato per la prima volta l’inno Akathistos quale ringraziamento alla Theotokos, la Vergine madre di Dio, eletta grande protettrice della città.
A questo punto, stretta un’alleanza con la tribù dei cazari, Heraclius poté attaccare con ulteriori 40.000 guerrieri la Mesopotamia, dopo aver liberato del tutto l’Anatolia, l’Armenia e l’Iberia.
Lo scontro finale, che decise le sorti del titanico conflitto, si tenne nei pressi di Ninive, dove millenni prima avevano regnato i temutissimi assiri. Le forze in campo erano più o meno equivalenti, forse tra i 25.000 e i 50.000 per parte. Ad ogni modo la vittoria totale arrise all’imperatore, che si dice abbia affrontato e ucciso in duello ben tre comandanti persiani. Rhāhzādh, il generale in capo dello šāhanšāh, cadde in combattimento e con lui una buona parte dei suoi soldati, mentre il resto si arrese o si disperse ai quattro venti.
Senza più opposizione Heraclius inflisse l’ultimo colpo al prestigio di Khusraw, saccheggiando la sua reggia a Dastagird, non lontano da Ctesifonte, in cui trovò l’intero tesoro reale e numerose insegne romane cadute in mano sasanide nei decenni precedenti. Fu la fine per l’ambizioso sovrano che, fino a pochi anni prima, aveva visto ad un passo il sogno di restaurare l’antico dominio degli achemenidi. Egli fu infatti deposto e ucciso da una congiura, specularmente al suo antico benefattore Mauricius, e sostituito da Kawād II, che firmò una pace umiliante per il suo popolo.
I persiani dovettero restituire tutti i territori occuparti in Siria, Mesopotamia, Palestina ed Egitto, consegnare la reliquie prese a Gerusalemme nel 614 compresa la Vera Croce, liberare tutti i prigionieri di guerra senza alcun riscatto e pagare un’indennità in oro che mandò quasi del tutto in bancarotta le loro già esauste finanze.
Questa conclusione, che riportava la situazione politica dello scacchiere mediorientale allo status quo ante in cui nessuno aveva vinto e tutti avevano perso, avrebbe potuto portare ad un periodo di pace e ricostruzione di lunga durata, ma incidentalmente spianò la strada ad una nuova forza della storia: l’Islām.
Il mondo classico si chiudeva così anche in oriente, in cui Roma e la Persia si erano contese il predominio per oltre sei secoli. Con il repentino crollo dei sasanidi e dei romani tra il 630 e il 651 nulla più si frappose alla diffusione di questa nuova religione militante, che ben presto si espanderà fino all’India ad est e l’Atlantico ad ovest (articolo di approfondimento qui), mutando il corso degli avvenimenti umani fino ai giorni nostri.
Alberto Massaiu
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