Il Secondo Impero Messicano fu tante cose. Fu l’ultima volta in cui un monarca governò il Messico. Fu l’ultimo tentativo di una potenza straniera di creare un protettorato nelle Americhe. Fu la fine di un uomo che, chiamato a regnare dalla fazione conservatrice, aristocratica e ultracattolica, alla fine si era dimostrato più liberale perfino del suo avversario, Juarez.
Perché secondo impero? Semplice, perché la monarchia era stata la prima forma di governo del neo-indipendente Messico, nel lontano 1821. All’epoca il paese era esteso più del doppio rispetto a quello attuale, con quattro milioni e 600.000 km2 di territorio che andava dalla California e Texas (compresi) a nord fino a Panamá nel sud.
A salire sul trono era stato il leader più importante della lotta di liberazione dalla Spagna, Agustín de Iturbide, che però riuscì a regnare per poco più di due anni prima di venire rovesciato in favore di una repubblica instabile che cadde ben presto nelle mani dell’ennesimo “uomo forte”: il generalísimo Antonio López de Santa Anna, anche conosciuto come il Napoleone del West.
Questi fu per quattro volte presidente del Messico con poteri dittatoriali (1833-1835, 1841-1842, 1843, 1853-1855) e fu il protagonista, nonostante il suo altisonante soprannome, delle grandi sconfitte che portarono il paese a perdere larghe fette del proprio territorio, prima contro il Texas e poi contro gli Stati Uniti, nella guerra di Mr. Polk di cui ho parlato in un altro mio articolo (LEGGILO QUI).
Ad ogni modo in questo clima di incertezza e torbidi si andò a costruire l’astro politico di uno dei grandi protagonisti di questo articolo: Benito Pablo Juárez.
Questi fu di certo un uomo di grande spessore morale e di una fortissima volontà, che lo elevava molto al di sopra della sua effettiva statura fisica (era alto appena 1,37 cm). Massone, liberale fino al midollo e anticlericale convinto, aveva una missione: modernizzare a tutti i costi il suo paese natale, prendendo ispirazione dai vicini Stati Uniti.
Dopo gli studi in giurisprudenza aveva esercitato come avvocato e poi come giudice della corte civile, per entrare poi in politica come segretario generale del governatore dello Stato di Oaxaca nel 1845. Dopo essere diventato deputato e governatore, nel 1853 dovette fuggire in esilio presso i “norteamericanos” quando Santa Anna riprese per la terza volta il potere.
Qui si convinse del tutto che l’unica speranza per il Messico fosse un governo liberale che si ispirasse al modello statunitense, ovviamente cacciando il dittatore e tutta la foresta di privilegiati che lo sostenevano, dall’alto clero ai grandi proprietari terrieri.
Ritornato in patria, unì intorno a sé sia il popolo che la borghesia, e nel 1855 entrò a Città del Messico in cui partecipò attivamente al nuovo governo come ministro della Giustizia e dei Culti. I suoi primi atti furono l’abolizione dei privilegi del clero e dell’esercito, che vedeva come strumenti della restaurazione conservatrice che ingessava la Nazione.
Queste misure di rottura portarono all’ennesima reazione militare, con a corollario una nuova guerra civile. Il generale Miguel Miramón si autoproclamò presidente della repubblica e strinse d’assedio i liberali di Juárez a Veracruz, il porto più importante del paese. Sembrava finita per i sogni di quest’ultimo, ma egli aveva una carta decisiva da giocare: l’appoggio degli Stati Uniti, che in lui vedevano un sicuro alleato al di là del Rio Grande.
Per questo motivo iniziarono a far affluire armi, rifornimenti, vettovaglie e denaro al governo provvisorio liberale, che poté passare alla controffensiva, sbaragliando il presidente conservatore nella battaglia di San Miguel de Calpulalpam, il 22 dicembre 1860. Miramón dovette abbandonare la capitale e rifugiarsi prima a Cuba e poi in Europa, in cui qualche anno più tardi si mise a servizio della sfortunata avventura di Maximilian Habsburg-Lothringen.
Juárez, finalmente con in mano i pieni poteri, promulgò una legge che nazionalizzava i beni ecclesiastici, introduceva la libertà di culto e il matrimonio civile. Nel 1861, dopo aver incassato anche il riconoscimento internazionale di Francia, Gran Bretagna e Spagna, venne eletto presidente del Messico.
Dopo decenni di sconfitte esterne e guerre civili interne, però, il paese era al collasso finanziario. Per risollevare le casse dello Stato Juárez prese la decisione di sospendere per due anni il pagamento del debito estero verso le potenze straniere. Fu il primo passo che portò alla slavina che determinò la nascita del Segundo Imperio Mexicano.
Londra, Parigi e Madrid reagirono molto male a questa presa di posizione che andava a ledere i propri interessi creditori, un po’ come faranno le prime due un paio di decenni dopo in Egitto. Le flotte delle tre potenze inviarono unità navali davanti a Veracruz nel gennaio del 1862, e un mese dopo Napoleone III vi aggiunse un corpo di spedizione guidato dal generale Charles de Lorencez.
La situazione era perfetta per un intervento, in quanto gli Stati Uniti si trovavano in piena guerra civile, e a parte qualche protesta diplomatica non erano in grado di aiutare le forze messicane contro le intromissioni europee, secondo le linee politiche delineate dalla Dottrina Monroe.
Juárez fu però abile, seguendo la strategia del divide et impera riuscì ad accordarsi con Spagna e Gran Bretagna, isolando la Francia e facendo risultare sempre di più il suo impegno come un’avventura coloniale volta a far entrare il Messico alle sue dipendenze. La lotta contro gli stranieri aumentò il prestigio nazionale del presidente, che ottenne un prestito da Washington e poté eliminare diversi oppositori interni di fede incerta.
Ad ogni modo, l’esercito francese era considerato uno dei più potenti al mondo dopo le vittorie in Italia del 1859 – la catastrofe di Sedan era ancora lontana – e, nonostante una battuta d’arresto presso Puebla il 5 maggio 1862 (che ancora ora è festa nazionale in Messico con il nome di Cinco de Mayo) poté riprendere l’offensiva dopo aver ricevuto rinforzi da al di là dell’Atlantico, occupando così la capitale il 7 giugno dell’anno successivo. Un mese dopo, una selezione di alti notabili messicani conservatori proclamò un neonato Impero del Messico e si attivò per cercare un principe europeo che potesse portare la corona.
Venne formata una commissione composta da José Maria Gutierrez Estrada, Juan Nepomuceno Almonte, José Maria Hidalgo e Francisco Javier Miranda, che iniziò un giro delle sette chiese per il Vecchio Continente fino a che – dietro consiglio del padrino di tutta la faccenda, Napoleone III – questi non giunsero al castello di Miramare, a Trieste, per offrire la corona a Maximilian Habsburg-Lothringen, fratello del kaiser austriaco Franz Joseph. Era il 3 ottobre del 1863.
Juárez, nel frattempo, si era rifugiato a San Luis Potosí con il tesoro di Stato, e nulla poté fare per ostacolare la proclamazione ad imperatore di Maximilian il 10 aprile del 1864, che si installò presso il castello di Chapultepec, nel centro di Città del Messico. Questo era situato sopra una piccola collina che dominava la capitale su cui un tempo avevano vissuto i huēytlahtoāni (ovvero gli imperatori) aztechi, in cui fece costruire una larga strada che raggiungeva il centro della città. La battezzò El Paseo de la Emperatriz, anche se oggi è stata rinominata come Paseo de la Reforma, a cancellare ogni ricordo di quel periodo.
Il rapporto tra il novello sovrano e i suoi sostenitori laici ed ecclesiastici, però, si incrinò quasi subito. Maximilian era un aristocratico frutto del suo tempo, un liberale che credeva nel sistema monarchico costituzionale e che, per impostazione mentale, era paradossalmente molto vicino alle idee di Juárez.
Sotto sua iniziativa, il governo imperiale permise la totale libertà di stampa, dispose che i parroci dovessero applicare i sacramenti senza esigere nessun pagamento, istituì i cimiteri sul modello napoleonico e promulgò norme per rafforzare le leggi riformiste applicate dal governo liberale che lo aveva preceduto sulla riforma terriera, sulla libertà di religione e sull’estensione del diritto di voto alle classi contadine.
Questa disposizione d’animo, di certo nobile, mise però il monarca tra due fuochi. Da un lato, i suoi sostenitori conservatori si allontanarono sempre di più dalle posizioni del governo, dall’altro Juárez rifiutò ogni proposta di collaborazione e pacificazione grazie ad un’alleanza con la corona.
Nel frattempo l’esercito francese, sempre più impegnato nel conflitto, era riuscito ad occupare gran parte del paese, ma ad un prezzo sempre più pesante per le finanze di Parigi. Peggio ancora, tra il 1865 e il 1866 avvennero due cose che misero fine alle velleità di Napoleone: la fine della Guerra Civile Americana e la disastrosa sconfitta dell’Austria contro la Prussia a Sadowa-Königgrätz.
Washington, finalmente libera dalla pressione della minaccia confederata, poté iniziare a rifornire pesantemente Juárez, oltre che inviare 50.000 uomini presso il Rio Grande e parte della flotta ad incrociare minacciosamente nelle acque del Golfo.
Allo stesso tempo, la Francia si ritrovò davanti la colossale forza della neonata Norddeutscher Bund a guida prussiana, che appena quattro anni dopo avrebbe decretato la fine dell’avventura dell’ultimo dei Bonaparte. Le truppe erano necessarie in patria, e Napoleone iniziò un processo di disimpegno sempre più rapido.
Juárez, dal suo ultimo ridotto ad El Paso del Norte, ribattezzata in seguito Ciudad Juárez in suo onore, poté organizzare la controffensiva esattamente come anni prima aveva fatto da Veracruz. Senza più le esperte, ben equipaggiate e moderne truppe francesi, il destino degli imperiali era segnato. Le forze repubblicane vinsero a Chihuahua il 25 marzo, a Guadalajara 8 luglio e poi a Matamoros, Tampico e ad Acapulco. Napoleone III esortò vivamente Maximilian ad abbandonare il Messico, anche perché i suoi uomini in estate avevano evacuato Monterrey, Saltillo e l’intero Stato della Sonora. Anche lo Stato natio di Juárez, Oaxaca, fu ripreso.
Anche i 5.000 volontari belgi e austriaci fedeli all’imperatore si squagliarono come neve al sole del caldo messicano, e si arresero o si imbarcarono a loro volta verso l’Europa. Mazatlán cadde in novembre e con essa, ai primi del 1867, furono ripresi dai repubblicani gli Stati di Zacatecas, San Luis Potosí e Guanajuato. I pochi contingenti francesi ancora nel paese abbandonarono Città del Messico il 5 febbraio. Una settimana dopo lo stesso Maximilian, che non volle cavallerescamente abbandonare i suoi sostenitori, dovette ritirarsi presso Santiago de Querétaro.
Il 6 marzo venne assediato dalle forze repubblicane del generale Mariano Escobedo, mentre un altro contingente – sotto la guida dell’eroe della riscossa, il generale Porfirio Díaz – stringeva un cappio di ferro e piombo sulla capitale. Dopo 71 giorni di lotta la città cadde e Maximilian fu catturato mentre tentava di passare al di là delle linee nemiche.
A questo punto iniziò la parte finale del dramma. Sovrani, principesse, intellettuali e varie personalità europee – tra cui persino il nostro Giuseppe Garibaldi – inviarono lettere e telegrammi per chiedere la grazia a Juárez, ma questi decise per la linea dura. Quasi come una sorta di contrapprezzo per il cosiddetto “Decreto Nero”, con cui Maximilian aveva fatto condannare a morte diversi ufficiali messicani repubblicani nella parte più dura del conflitto, anch’egli subì lo stesso fato per fucilazione.
Il presidente liberale rifiutò di commutare la sentenza, spinto dall’idea di inviare un messaggio inequivocabile: il Messico non avrebbe mai più tollerato governi imposti da potenze straniere. Decisivo, in tal senso, fu l’appoggio a tale linea da parte del nuovo inquilino della Casa Bianca, Andrew Johnson, che non intervenne sul tema della grazia in modo da riaffermare indirettamente la forza della Dottrina Monroe.
La sentenza venne eseguita il 19 giugno 1867 da un plotone di esecuzione composto da sette unità. Insieme con Maximilian vennero fucilati i generali Miguel Miramón (che era tornato dal suo esilio europeo per sostenere la causa dei conservatori) e Tomás Mejía. Il corpo del defunto imperatore venne imbalsamato e si racconta che, quando il suo rivale e infine carnefice, Juárez, lo andò a vedere, il suo unico commento fu: “Credevo fosse più alto”.
L’anno successivo la salma venne riportata a Trieste e infine a Vienna, in cui venne sepolto nella Cripta Imperiale, in cui ho avuto modo di vedere di persona il suo feretro presso la necropoli imperiale della Kapuzinergruft, o Cripta dei Cappuccini.
Juárez poté così reinstallarsi nella capitale, dove convocò il Congresso Federale che ripristinò la Costituzione del 1857 e lo riconfermò alla presidenza il 25 dicembre del 1867. Nella forza della vittoria, egli riprese le sue riforme contro gli ormai screditati e sconfitti oppositori conservatori. Confiscò senza alcun indennizzo quello che rimaneva della vasta manomorta della Chiesa Cattolica, rese effettivo il matrimonio civile, proibì la partecipazione dei preti alla politica, ridusse le spese militari e favorì l’istruzione pubblica e la libertà di stampa.
Nel 1871, però, Juárez commise un errore, facendosi rieleggere per un altro periodo di presidenza violando il principio costituzionale da lui stesso reintrodotto che proibiva la reiterazione della carica. Questa scorrettezza diede adito ad una sollevazione contro di lui promossa da Porfirio Díaz, generale eroe della lotta contro i francesi, che in quegli anni si era però riavvicinato alla fazione conservatrice.
L’ennesima guerra civile fu evitata solo dalla morte dello stesso Juárez a causa di un attacco cardiaco il 18 luglio del 1872, all’età di 66 anni.
Díaz partecipò alle elezioni contro il presidente ad interim Sebastián Lerdo de Tejada, ma fu sconfitto, e si ritirò nella sua hacienda presso Oaxaca. Quattro anni dopo, nel 1876, quando anche Lerdo tentò di farsi rieleggere, Díaz lanciò una seconda, vittoriosa rivolta passata alla storia come Plan de Tuxtepec con cui conquistò con la forza la presidenza, riuscendo a conservarla per otto “mandati” senza libere elezioni, fino al 1911.
Il suo potere fu garantito da un patto con le élite agrarie e il padronato latifondista, che portarono alla riduzione degli spazi di libertà civile, alla repressione del movimento operaio e ad un forte dirigismo e accentramento di tipo bonapartista, permesso da una riforma della stessa costituzione. Insomma, il contrario di quello per cui si era battuto Juárez, che venne infine beffato dopo tanti anni di lotta e di sacrifici dalla fazione che aveva sconfitto ben due volte sul campo.
Alberto Massaiu
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