L’aria della sera era fredda. Per quanto mancassero ancora alcuni giorni alla fine dell’inverno, lo spirare della tramontana rendeva i passi di chi si accingeva a varcare la soglia di casa nervosi e celeri.
O forse era l’animo che si era fatto più freddo. L’animo di un uomo tormentato e in preda al dubbio più atroce.
Aveva agito per il bene o per il male? Nonostante l’opera fosse stata già posta in essere, questo tarlo insistente gli martoriava il cranio, come uno spillone rovente infilato tra le carni. Un senso di sorda malinconia e di fatalismo aveva spento l’ardore delle ore precedenti, l’eccitazione di quell’azione tanto colossale, tanto incredibile, tanto epica.
Ma qualcosa era andato storto. Dove era il popolo festante? Dove era il giubilo dei senatori per la messa a morte del tiranno? Dove stavano gli onori che erano stati tributati ai suoi antenati, che avevano compiuto gesta simili restaurando la Res Publica?
Tutto era stato preparato minuziosamente. Mesi e mesi di pianificazione, raccolta di contatti, discussioni accese, scambi di vedute, calcoli politici e militari. Giustificazioni morali.
Perché quello che era stato compiuto aveva dell’incredibile. Avevano sconfitto il demone che a pezzo a pezzo stava smontando le istituzioni repubblicane. Un demagogo che aveva sfruttato la fama e le ricchezze ottenute in anni di guerra in Gallia per instaurare le dittatura. I senatori, l’anima dello Stato, erano stati esautorati. I loro ranghi italici avevano subito l’affronto dell’essere insozzati dall’affluenza di celti, barbari degni di servire a tavola o lavorare i campi, non discutere della cosa pubblica con chi aveva conquistato il mondo.
E infine l’ultimo affronto. La puttana egiziana che era stata accolta come una regina nell’Urbe, con in grembo un figlioletto bastardo destinato forse a regnare come suo erede. Un inizio di dinastia? Da li, il passo di trasformarsi in un vizioso e dispotico satrapo orientale sarebbe stato breve. Brevissimo.
No, la ragione stava dalla sua parte. Bisognava agire. E agire con vigore, risolutezza, senza pietà o compassione. Per quanto lui amasse Cesare, l’aveva dovuto uccidere.
Marco Giunio Bruto si arrovellava su tutti questi pensieri al tramonto di quelle Idi di Marzo fatali.
Era il settecentoenovesimo anno ab Urbe còndita. Il quattrocentosessantacinquesimo dalla caduta dei sovrani etruschi e la fondazione della gloriosa Res Publica. Lui aveva agito per il bene dello Stato, per restaurare le sue ancestrali usanze, per riportare il tempo a quei giorni eroici dove il potere non era di un uomo solo, ma condiviso dal consesso delle grandi gentes patrizie, per salvaguardare il cuore delle tradizioni degli antenati e i valori che avevano reso Roma arbitra di innumerevoli popoli.
Cassio l’aveva convinto con molte di queste argomentazioni. Quell’individuo non gli era mai piaciuto. Troppo rancoroso, troppo invidioso, poco incline alla riflessione stoica e succubo di passioni e ardori veementi, ma brevi e senza scopo. Ma su questo aveva ragione. O perlomeno l’aveva avuta fino al tirannicidio. Perché poi tutto era andato diversamente.
Quando erano usciti dalla basilica di Pompeo, esaltati, ancora lordi di sangue e con i purpurei pugnali alzati sopra il capo, gridando “Viva la Res Publica!” o “Il Tiranno è morto!” si erano aspettati la gente nelle strade. I festeggiamenti popolari. Un Trionfo spontaneo. Il sostegno della plebe e dell’ordine equestre.
Nulla di tutto ciò era avvenuto. Gli usci erano stati sbarrati, le finestre chiuse. La gente si era rintanata in casa, come se fossero degli appestati o dei folli.
Poi qualcuno aveva gridato per la prima volta “Assassini!”. Quella era stata la fine. Come un fiume che si ingrossa via via che scende a valle, il vociare si era fatto sempre più insistente. Qualcuno era uscito, poi un altro, poi un altro ancora. Ma non erano lì a festeggiare la liberazione dal giogo dittatoriale, bensì ad attaccare loro, i liberatori dello Stato!
Il mondo di Bruto era stato travolto. Le sue certezze erano diventate come cenere spazzata via da quell’ultimo vento invernale. Alcuni dei congiurati erano tornati in fretta alle loro domus, altri erano scappati direttamente via dall’Urbe. I fedelissimi di Bruto e Cassio avevano deciso di asserragliarsi sul divino colle Capitolino. Lassù, sotto la protezione di Giove Tonante e davanti alle prede belliche che, per colmo d’ironia, erano state donate da Cesare stesso dopo le sue vittorie in Gallia, avevano aspettato.
Lepido, che comandava le legioni di Cesare stanziate fuori dal Sacro Pomerio, era entrato in città. Le leggi di Roma proibivano ad un generale di varcare i confini stabiliti da Romolo con un esercito in armi, ma oramai ogni consuetudine era stata violata. Era un mondo che andava in frantumi, spazzato via dalla ferocia e dall’irriverenza di quei tempi moderni.
Cesare aveva dato l’esempio. Lui, che pretendeva di discendere dalla stessa Dea Venere, da Enea e da suo figlio Iulo, figli delle genti di Ilio e padri di quelle latine, aveva spezzato la maggior parte dei vincoli e delle norme ancestrali che da secoli regolavano i mores della Patria.
I legionari gridavano il nome di Cesare e non quello di Roma. Le matrone piangevano e si strappavano le vesti. Gli auguri vaticinavano che un grande sciagura era avvenuta. I plebei gridavano vendetta per il loro benefattore.
Presto qualcuno avrebbe preso abbastanza coraggio per snidarli dal recinto sacro di Giove Capitolino. Fu in mezzo a questo caos che arrivò il messo di Antonio.
Marco Antonio, il generale preferito da Cesare. Il compagno in anni di guerre di conquista galliche e di quelle civili in Macedonia, Egitto, Africa e Spagna. Sanguigno, sensuale, rozzo, astuto, coraggioso fino all’avventatezza, più un uomo da osteria o da accampamento che da Senato. Ma era amato dai soldati. Era amico e alleato di Lepido. Ed era l’erede politico di Cesare, l’unico capace di trattare in quel momento così delicato, dove tutte le loro speranze erano andate in fumo.
L’emissario era stato cortese ed accomodante. Li aveva chiamati con i loro titoli, li aveva rispettati come patres e optimates della Res Publica, aveva inoltre garantito un salvacondotto per lo stesso Bruto affinché raggiungesse Antonio a cena, per sistemare quella faccenda per il bene dello Stato.
In cambio Antonio avrebbe lasciato sul tempio due dei suoi figli, come garanzia per i senatori del rispetto del patto e dell’integrità della persona fisica di Bruto.
Con poche alternative e sorpreso di tanta generosità, questi aveva infine accettato.
Ora si trovava nella grande sala dei triclini dove tante volte aveva conversato amabilmente di filosofia e storia con il meglio dell’élite politica e culturale dell’Urbe. Cicerone, Attico, Catone, Cesare, Catilina, Cassio, Pompeo, Crasso. Molti di questi nomi appartenevano ormai a uomini sprofondati nel nero Tartaro, segno del passare di un’era.
Ora la stanza sembrava spoglia, lugubre e gelida. O forse era il suo cuore ad essersi gelato? Tutte le sue convinzioni vane, la sua fiducia nel popolo mal riposta?
Davanti a lui, con indosso una toga azzurra e rossa, stava Marco Antonio. Sembrava scosso. Erano serviti cinque senatori per tenerlo fermo quando avevano iniziato a pugnalare Cesare. Gridava come un ossesso, cercando di farsi largo nella calca per raggiungere il suo amico e benefattore, ma alla fine, minacciato anche lui, era fuggito ignominiosamente.
Bruto notò che si era lavato, rasato, unto i capelli e cambiato. Ma sembrava spaurito. Forse neanche lui sapeva cosa fare e come agire. Era un buon inizio. Se l’uomo più potente di Roma non aveva un’idea precisa su come agire, la cosa si poteva sfruttare a loro favore.
Bisognava solo giocarsela bene, poi l’ordine sarebbe tornato, il ricordo di Cesare sbiadito, il popolo sarebbe rinsavito e avrebbe capito che quello che avevano compiuto era l’atto eroico che tutti loro avevano prospettato. Doveva andare così!
– Mio caro Bruto – iniziò quasi con timidezza il generale – Quello che avete fatto è orribile. Posso capire le vostre ragioni, ma non farle mie. Comunque oramai il danno è fatto e noi, da uomini ragionevoli e per il bene dello Stato, dobbiamo trovare una soluzione –
Era un buon inizio, pensò Bruto. Quell’uomo si era sempre trovato meglio tra i soldati che tra i politici. Era sempre stato all’ombra di Cesare, poco propenso alle macchinazioni che muovono gli animi delle persone colte e della classe dirigente dell’Urbe. Mise insieme i suoi pensieri e rispose.
– So quanto per te sia stato doloroso l’assistere al nostro gesto. Ma ti assicuro che non lo abbiamo compiuto a cuor leggero e che alla fine di molte riflessioni è risultato necessario. Per un bene superiore abbiamo dovuto sacrificare l’amore che avevamo per l’uomo – il volto si contrasse in una smorfia di dolore – Sai che lo amavo come un padre. Mi ha allevato lui. È stato sempre buono con mia madre e mi ha perdonato durante le tristi vicende delle Guerra Civile. Ma alcune volte il bene superiore dello Stato deve travolgere i sentimenti personali. Roma andava mondata dal suo agire dispotico –
– Anche io lo amavo. È stato la mia guida. Il mio comandante. Il mio amico più caro e un compagno in tanti perigli – rispose Antonio, scosso da una forte emozione che per poco non commosse Bruto – Avrei dato la mia vita per la sua, puoi starne certo. Oggi avrei voluto salvarlo, ma voi me lo avete impedito. Ora nulla sarà più lo stesso, spero che di questo tu ne sia consapevole –
Ora il tono era leggermente cambiato. Antonio risultava più sicuro, meno debole rispetto a prima. Bruto se ne accorse e cercò di riprendere in mano la situazione. Prese una coppa da un servo che passava, bevve un leggero sorso di vino, ma non ricevette alcun sollievo. Il rosso liquido era aspro. Il colore acceso lo rimandava alla azioni da poco compiute. Tutto aveva perso sapore e gusto. Si sentiva svuotato, ma per il bene della Patria e di tutti loro doveva andare avanti, trattare con Antonio.
– Ho saputo che Lepido è entrato in armi dentro Roma, violando il Sacro Pomerio. Mai uomini in armi dovrebbero valicare tali confini senza espresso permesso dell’assemblea dei patres conscripti, lo sai. Va contro le nostre ancestrali tradizioni, non rispetta gli usi di uomini e degli dei –
Pensava di incutere timore con le sue parole, aveva usato un latino con termini arcaici e ricercati, cerando di toccare il senso del sacro del suo interlocutore. Ma si accorse subito di aver toccato la corda sbagliata.
– Io so che per decreto del Senato la figura di Cesare era stata dichiarata sacra e inviolabile. Ogni senatore si era solennemente impegnato, in nome della sua casata e degli dei, di rispettare tale vincolo – Antonio alzò un sopracciglio con fare ironico. Ora non c’era più nulla di debole in lui, una nuova luce aveva acceso i suoi occhi – Non mi sembra che tale solenne giuramento sia stato mantenuto. Non rispettando gli usi di uomini e dei, beninteso – rimarcò pesantemente il generale, scimmiottando le sue precedenti parole e ricalcando il parlare forbito di Bruto, con un pesante accento polemico.
– Era necessario per il bene della Res Publica! Cesare era un pericolo! – esplose Bruto, esasperato. Come mai stava perdendo il controllo della situazione? Come era possibile che Antonio si facesse beffe di lui? Ma il generale non gli lasciò il tempo di coordinare una difesa e incalzò.
– Si, certo. Cesare era un pericolo. Ma per chi? Per i politicanti come voi? Attaccati ai vostri privilegi di casta? Cesare era l’unico che aveva il potere per fare le riforme di cui questa società malata e statica aveva bisogno! –
– Cosa?!? – Bruto era basito. Di che cosa stava parlando Antonio? E quest’ultimo continuò.
– Voi siete dei parassiti! Vivete in un mondo tutto vostro fatto di privilegi, estraniato dalla realtà. La plebe vuole riforme e i veterani hanno bisogno di terra da coltivare, ma voi non volete cedere un solo palmo delle vostre preziose tenute. I contadini, che compongono i nostri eserciti in tempo di guerra e che seminano la terra in tempo di pace, sono coloro che tramandano veramente i valori di Roma, non voi. Voi siete corrotti, viziati, annoiati. Avete compiuto questo assassinio per restaurare un ordine che non esiste, un mondo che è solo vostro. Un mondo che non c’è! – mosse il braccio in direzione della finestra, indicando un immaginario popolino assiepato nelle strade della capitale – Lo avete visto voi stessi poche ore fa. Nessuno vi ha acclamato. Nessuno vi ha seguito. Voi non avete dato niente alla plebe. Cesare invece ha dato loro tutto. Di più, gli ha dato quello che volevano –
Bruto non sapeva più che dire. Mai aveva valutato simili cose, e meno che mai si sarebbe aspettato tali parole da un bruto come Antonio. Che cosa gli era successo frequentando Cesare?
– E che cosa volevano? Cosa possono volere di più della libertà? – cercò di opporre alla forza retorica del suo interlocutore.
– Cosa vogliono? – Antonio si prese una pausa prima di rispondere alla domanda di Bruto – Vogliono la pace. La sicurezza economica e giuridica. Vogliono il rispetto dei loro diritti, la protezione dagli abusi dei potenti come voi. Vogliono pane, giochi, parate militari. Vogliono il conforto dei loro dei – Aspettò che il concetto iniziasse ad entrare nel suo attonito ospite prima di concludere – Il popolo vuole essere intrattenuto. Se ben pasciuto e ben trattato, amerà chi starà alla sua guida. La libertà è per i nobili, per gli artisti, per chi ha cultura. Le masse non sanno che farsene. Non la capiscono e mai la capiranno! –
Bruto rimase sconvolto dalla cristallina verità espressa da quelle parole. Per cosa avevano agito? Antonio gli aveva mostrato, nella sua rozza ma efficace logica, una realtà che lui, da studioso stoico e da profondo uomo di cultura, aveva sottovalutato.
Ora realizzò appieno la situazione nella quale lui e gli altri suoi complici si erano messi. Erano alla mercé di Antonio e di quelli come lui. Erano questi il futuro, mentre loro erano sempre vissuti in una favola, un modo che forse non era mai neanche esistito, se non nei loro pensieri e nelle loro speranze.
Tentò comunque un’ultima difesa.
– Ci sono delle regole da rispettare. Degli usi che in ogni caso non si possono violare. Siamo dentro il tempio di Giove capitolino, il più sacro nell’Urbe. Abbiamo compiuto un gesto epocale. Dobbiamo trovare un accordo! –
Antonio rise. Una risata secca, dura, acre, che spense ogni speranza di trattare da una posizione di forza nell’animo di Bruto.
– Io e Lepido ci siamo già incontrati. Abbiamo parlato e preso delle decisioni fondamentali. E ora ti esporrò i nostri termini. Beninteso che non sono in alcun modo negoziabili –
– Cosa?!? – esplose per l’ennesima volta Bruto – Ci sono delle istituzioni. Degli organi da consultare. Delle leggi da rispettare. Non potete decidere il destino di Roma voi due soli –
Antonio lo guardò fisso, la sua espressione tradiva un misto di incredulità per le parole appena sentite e un accenno di pietà per l’ingenuità del loro significato. Spezzò immediatamente quelle proteste con una semplice frase.
– Io e Lepido abbiamo ai nostri ordini due legioni qua a Roma e una ventina sparse tra Gallia, Spagna, Macedonia e Libia. Chi ha abbastanza spade se ne infischia del diritto, degli usi, delle tradizioni, degli dei stessi. Spero di averti chiarito il punto – Bruto si chetò immediatamente, lasciandolo così continuare – Come ti dicevo, condizioni non negoziabili. Punto primo, funerali di stato per Caio Giulio Cesare, con tutti gli onori tributati al suo rango e alle sue cariche al momento della morte. Punto secondo, legittimazione in Senato della presa di potere momentanea mia e di Lepido per prevenire scontri e violenze, vista la precaria situazione politica. Punto terzo, tutti gli assassini di Cesare saranno graziati, ma dovranno riconoscere la loro colpa –
Quest’ultimo punto riaccese tutte le speranza di Bruto.
– Ho sentito bene? Vuoi graziarci tutti? Perché? – Una così grande generosità, dopo tanta foga e tanta spietata sincerità, risultava sospetta. Ma Antonio si improvvisò nuovamente maestro di senso pratico e acume politico.
– Roma ha perso il suo duce. Né io né Lepido siamo così forti per affermarci subito sul piano istituzionale. Il popolo, per quanto ignorante, ha bisogno di forme esteriori tramandate da secoli per ritrovare la serenità e accettare i cambiamenti. Quindi voi senatori siete necessari. Inoltre un gesto di concordia e perdono tra le parti servirà ad evitare il rischio di disordini come ai tempi di Clodio e Milone e ci traghetterà attraverso questi momenti tribolati. Questa è la nostra proposta, che ne dici? –
Bruto ci pensò. L’offerta era quanto di meglio potessero aspettarsi lui e i suoi. Inoltre, come aveva sottilmente sottolineato il suo interlocutore, non aveva molta scelta. Con un grave gesto col capo, raccolta tutta la dignità rimastagli, la concentrò nell’assenso che rivolse al generale e successore di Cesare. Marco Antonio sorrise, un sorriso da lupo. Da cacciatore.
Il giorno dei funerali era iniziato in maniera cupa. Una pioggerellina leggera aveva bagnato il selciato delle vie, rendendo la superficie delle squadrate pietre della Via Sacra scivolosa e perigliosa. Sembrava che anche i cieli piangessero per la caduta di colui contro cui avevano tramato. Contro cui loro si erano battuti. Eroicamente? Ma lo erano stati sul serio? Bruto oramai non ne era più così tanto sicuro.
Aveva passato tutta il resto della notte delle Idi a discutere con i suoi compagni, nel tempio di Giove Capitolino. Il clima era a dir poco rovente. Cassio sputava letteralmente la sua collera, riversandola equamente tra Cesare il tiranno, Cicerone il tiepido, il popolo romano ingrato e gli dei sordi alle suppliche. Ad un certo punto incolpò perfino Pompeo Magno di non esser stato un miglior generale e di aver perso a Farsalo quattro anni prima. Gli altri congiurati, alcuni di essi fieri e forti al momento di pugnalare a morte il dittatore disarmato, ora stavano lassù, spauriti e invocanti chissà quali divinità, affinché tutto potesse venir cancellato.
All’inizio, capeggiati dagli intransigenti come Cassio, respinsero sdegnosamente la proposta di Antonio. Oramai disilluso e con le idee ben chiare, Bruto aveva sistematicamente demolito le opposizioni che questi li muovevano contro. Fu facile, perché erano le stesse che fino a poche ore prima erano state sue. Il mondo andava a rotoli.
Furono grida di rabbia, poi di disperazione. Crisi isteriche, insulti, perfino sputi. Infine pianti e rassegnazione. Ad uno ad uno, ognuno dei sessanta congiurati alzarono mestamente le mani in segno di resa, decretando l’accettazione di ogni punto imposto dal generale cesariano. Ad ultimo, livido in volto e furente, perfino Cassio, ormai solo, dovette capitolare. Era fatta. Bruto aveva vinto. O meglio, Antonio aveva trionfato.
Erano tutti lassù, sui rostri del Foro, al fianco dell’aula in ristrutturazione del Senato e sotto il tempio di Giove, a pochi passi dal sacro Tempio di Vesta e dalla casa del pontifex maximus, dimora del fu Caio Giulio Cesare. Toghe bianche a strisce purpuree dei senatori, acciaio, cuoio e crine di cavallo per i legionari di Lepido e Antonio, povera lana per i plebei, seta e tessuti pregiati per nobili e cavalieri, tutti uniti di fronte alla pira dove si sarebbe bruciato il corpo di un uomo che era stato divinizzato da vivo. Un alto onore mai concesso fino ad allora a nessun essere mortale.
La pioggerella batteva sul volto apatico di Bruto, sembrava un sogno. O forse era un incubo. Era tutto così irreale, così statico. I littori sembravano burattini animati con i loro fasci alla spalla. I veterani delle campagne di Gallia, coi volti pieni di cicatrici e lo sguardo di ghiaccio, dei demoni infernali. I senatori spauriti e intontiti dagli accadimenti, dei pagliacci senza potere. Era questa la Res Publica che avevano salvato?
La moltitudine che attorniava la pira era silente. Come se aspettasse qualcosa che tardava a comparire. Poi arrivò lui. Arrivò Marco Antonio.
Sembrava un dio sceso in terra. Abbandonata ogni segno di vita da civile, vestiva con una corazza nera sbalzata a rilievi gallici, di sicuro una preda di guerra. Teneva, portato sotto il braccio sinistro, un alto elmo dipinto dello stesso colore e con un’alta cresta di crini di cavallo rosse. L’altro braccio brandiva, inguainata, la spada. Alti schinieri e bracciali completavano le protezioni, ricoperte da un ampio mantello porpora e oro. L’alta figura sovrastava di una buona misura Lepido, che gli stava al fianco. Colui che aveva avuto il comando della guarnigione di Roma era stato già ridotto a semplice comprimario di quella farsa. Sempre con gli occhi bassi quando Antonio gli rivolgeva la parola, rimarcava costantemente come fosse ripartito il peso nel rapporto tra i due.
Dietro Antonio, sei ufficiali in alta uniforme trasportavano una lettiga d’oro, sopra la quale stava la figura esanime del duce, coperta da un drappo porpora con frange d’oro. Quest’ultimo rimandava subito, per disegno e colori, al mantello del generale che apriva il corteo funebre. Dietro il corpo veniva la moglie Calpurnia, dritta e altera, una fiera matrona romana, piena di dignità e dolore nelle sue vesti nere. Poi tutti i parenti, gli amici, i clientes, i liberti, gli schiavi. Ognuno gli doveva qualcosa. A modo di chiusura solenne, alla fine della lunga coda, stava una giovane vergine vestita di bianco, simboleggiante l’Urbe stessa di Roma, che portava fiori per colui che molti chiamavano oramai il Divo Giulio.
Bruto stesso, nonostante fosse stato tra i suoi assassini, si sentì commosso dalla solennità della cerimonia. Tra sentimenti contrastanti, diviso tra amicizia e affetto nel privato ma odio per il politico, sentì gli occhi inumidirsi. Poi la scena venne monopolizzata da Antonio.
Questi salì infatti sulla pira, dove venne deposta la lettiga. Posò l’elmo per potersi muovere al meglio e si erse sopra il cadavere coperto.
– Figli di Roma! – esordì con enfasi, mettendo un così vibrante ardore nel suo appello che la folla sottostante ne fu subito elettrizzata – Abbiamo perso il più grande uomo che l’Urbe abbia mai avuto dopo Romolo! – lasciò il tempo affinché quella prima frase fosse assorbita dalla massa silenziosa, poi continuò – Alcune mani si sono alzate contro di lui. Mani romane. Mani che appartengono al Senato della città che lui amava, proteggeva e aveva fatto grande! – ora dalla folla iniziò a salire un brusio, un brusio cattivo. Rabbioso. Pieno di violenza. Bruto sentì un brivido salirgli lungo la schiena, i volti dei suoi compagni erano bianchi come le loro toghe. Esangui.
– Sappiamo che gli dei sono misericordiosi. Inoltre Roma ha avuto innumerevoli lutti nei duri anni della guerra civile. Io non voglio scatenarne altri – questa parte chetò in parte la platea, che a parte qualche grido isolato e un leggero borbottio, smise di rumoreggiare. Bruto sospirò, leggermente rasserenato ma sempre teso. Antonio nel frattempo proseguiva – Cesare è stato un figlio degno di Roma. Un padre, un fratello, un esempio per moltissimi tra noi. Una delle sue qualità erano il perdono. La pietas è una virtù per il romano. Un elemento di coesione e di forza, un attributo che ci rende migliori. Verso i nemici sconfitti, verso gli amici che ci fanno torti, verso i figli che alcune volte ci deludono. Bisogna essere magnanimi affinché la pace regni. Cesare l’ha fatto spesso, perciò è stato amato e rispettato. Perciò io desidero attenermi a questa volontà e risparmiare, per il bene più alto, perfino coloro che hanno alzato le mani contro di lui. Il bene più alto è la pace, la pace tra romani! – ora la folla era letteralmente sottomessa alle sue parole. Silenziosa, affascinata, reverente, pendeva dalle sue labbra e guardava con timore mistico la salma nascosta dalle coltri vermiglie.
– Caio Giulio Cesare è stato buono e generoso con il popolo di Roma per tutta la sua vita. Non si congederà da voi senza lasciarvi qualcosa – a questo punto un tribuno militare porse un foglio di papiro arrotolato al generale, che lo schiuse con movimenti lenti e misurati, carichi di pàthos teatrale – Io, Caio Giulio Cesare, della gens Giulia, discendente degli stessi Numi Immortali e dei fondatori troiani della nostra gloriosa città, così stabilisco nel mio testamento pubblico. Che dal mio personale patrimonio vengano prese somme tali per dare trecento sesterzi ad ogni pater familias dell’Urbe; che vengano pagati tutti i debiti dei cittadini romani; che i giardini della mia villa in Roma vengano adibiti ad uso pubblico… – mentre Antonio leggeva i vari punti del testamento il nome di Cesare venne scandito sempre più forte da decine, centinaia, migliaia di gole. Grida isteriche, pianti, manifestazioni di giubilo e dolore. La massa informe ruggiva la sua adorazione per il duce divinizzato.
Per il martire di Roma.
Per il padre della grandezza della città.
I congiurati, che si erano ingenuamente aspettati manifestazioni simili per il loro gesto, vedendo tutto ciò si sentirono spauriti. Cassio strinse nervosamente il braccio a Bruto, artigli lacerarono gli avambracci del senatore. Rivoli leggeri di sangue insozzarono le candide vesti. Bruto non gli diede peso, non dava più peso a nulla. Era come se fosse morto dentro. Guardava ipnotizzato Antonio, il corpo senza vita di Cesare e la folla tumultuante. Le labbra socchiuse, ripeteva a bassissima voce ciò che diceva il generale, come se dovesse convincersi di ciò che il cervello si rifiutava di accettare. Il loro completo fallimento. Il suo completo fallimento.
Ma non era ancora finita. Antonio aveva in serbo ancora una freccia nel suo arco.
– Io dico che Cesare è stato generoso. Fin troppo generoso. Ha perdonato i suoi nemici. Li accolti a braccia aperte, ha concesso loro cariche pubbliche, prebende, incarichi, comandi militari. E loro come lo hanno ringraziato? Loro, che già una volta sono stati traditori della patria sotto Pompeo, che cosa hanno fatto al loro benefattore? – con una perfetta scelta di tempo e con un ampio volteggiare del braccio muscoloso Antonio scostò il drappo che copriva la salma di Cesare.
La scena era terrificante. Le carni esangui, le orrende ferite, i rivoli di sangue non lavati, il volto ancora congelato negli ultimi attimi di vita irradiavano verso lo spettatore una potente carica emotiva.
La folla ululò di rabbia. I pugni si alzarono in direzione dei senatori. Grida rauche, invasate. Un caleidoscopio di furia, dolore, risentimento. Braccia ossute da plebeo o ingioiellate da cavaliere, perfino alcune appartenenti ai patrizi, tutte volte come spade e lance in direzione dei traditori. Degli spergiuri. Degli assassini.
– I senatori avevano l’obbligo di proteggere il Dittatore e Pontefice Massimo Caio Giulio Cesare. Avevano solennemente giurato di farlo, a costo di usare il loro stesso corpo nella difesa del primo cittadino dell’Urbe. Per questo Cesare andò alla riunione del Senato senza scorta, perché si affidava all’onore di costoro – Antonio prese una pausa per caricare i polmoni per il colpo finale, si erse su tutto e tutti, splendido come un dio e onnipotente su quella folla informe – Ma questi uomini non hanno onore! Non l’hanno mai avuto e mai lo avranno! E io mi chiedo, fratelli miei, cosa si fa a bestie del genere? A serpenti che per loro natura sono infidi? –
La massa rispose con un boato. Non c’era più nulla di umano neanche in loro – Si taglia la testa! – le voci trafissero il cielo – Morte ai traditori! Agli spergiuri! Sia gloria a Cesare! – Antonio ora sorrideva soddisfatto, lasciò che la folla continuasse allucinata quel delirio da Tartaro – Gloria a Cesare! Gloria ad Antonio! –
Antonio!
Antonio!
Antonio!
Bruto era completamente apatico. Venne trascinato via a forza da Cassio e da due compagni prima che la plebe, superato il cordone di legionari che separava i rostri dal foro, si potesse lanciare con pietre, pugnali, pezzi di legno e torce contro il loro gruppo.
Antonio volse verso i fuggiaschi un ghigno da squalo mentre appiccava fuoco alla pira. I lampi di luce rossastra gli avevano tramutato il viso, dandogli una connotazione innaturale, demoniaca. In quel momento lui era il potere incarnato. Un dio tra gli uomini. E lo sapeva.
Bruto era un paria, un maledetto, un uomo rotto e disfatto.
Mentre le sue gambe strisciavano inerti sul selciato umido, continuava a fissare la pira e il suo avversario. Nessuno sentiva il flebile suono che usciva dalle sue labbra e se qualcuno l’avesse percepito non lo avrebbe compreso.
– La Res Publica è morta.. Morta.. Morta.. Nulla sarà più lo stesso.. Che gli dei siano misericordiosi con noi, perché gli uomini non lo saranno.. –
Alberto Massaiu
2 Comments
complimenti sono un amante della classicita veramente emozionante il vostro racconto struggenti le sensazione sprigionate nel leggere il testo
saluti luscia luciano
Grazie mille Luciano, mi fa molto piacere che ti sia piaciuto. Le tue parole sono una bella conferma al mio desiderio di rendere “vivo” un episodio avvenuto oltre due millenni fa. A breve usciranno altri articoli su questo tema, se poi sei interessato alla classicità puoi trovare nel mio blog un saggio sullo scontro tra la civiltà greca e quella persiana. Ecco il link: http://www.albertomassaiu.it/societa-della-lancia-e-societa-della-freccia-a-confronto/
A presto,
Alberto