La figura del vampiro è forse la più famosa tra le creature maligne. Miti e leggende di tutto il mondo parlano da migliaia di anni di creature non-morte che, per una maledizione o magia, ritornano nel mondo dei viventi a succhiare loro la vita.
La cultura mesopotamica, ebraica, greca e romana vantava spiriti malvagi con caratteristiche similari a quello che oggi indicheremo come vampiro, ma la figura resa celebre da romanzi, film, serie tv, videogiochi e gadget di ogni sorta nacque relativamente di recente, negli ultimi tre secoli circa.
Nel XVIII secolo, all’alba dell’era dei lumi in Europa occidentale, la Mitteleuropa e i Balcani videro delle vere e proprie epidemie vampiriche, casi d’isteria di massa molto simili alle cacce alle streghe, che nei secoli precedenti avevano contraddistinto anche il resto del continente, con processi, torture e roghi purificatori.
Il termine vampiro è relativamente recente (il nome vampire appare per la prima volta nell’Oxford English Dictionary nel 1734), perché ogni popolo dell’Europa dell’est, dove questa tenebrosa figura ha avuto più fortuna, nominava queste creature in modo diverso.
Per i greci si chiamavano vrykolakas, per i romeni strigoi, per i bulgari vǎrkolak, wąpierz per i polacchi, ubir per i turchi, upyr per i russi e infine per i serbi vukodlak, ma anche vampyr (serbo-croato), da dove poi prese la lunga evoluzione nella cultura moderna.
La fama del vampiro crebbe nel XIX secolo, grazie alla letteratura: John Polidori, amico e medico del grande poeta George Byron, scrisse un romanzo di grande successo nel 1819 intitolato proprio “Il Vampiro”, spurgando la figura di tutti gli aspetti popolari che andremo a vedere assieme e dandole la prima pennellata di sofisticato carisma, adatto alla società aristocratica che divenne grande appassionata del genere in Età Vittoriana.
Su questa falsariga si innestò il celeberrimo romanzo di Stoker, che nel suo “Dracula”, datato 1897, assorbì tutte le suggestioni altolocate del personaggio, a cui aggiunse quel tanto di storicità raffazzonata che ho trattato nel mio articolo su Vlad Țepeș.
Il vampiro del folclore è molto meno elegante del distinto e pallido nobiluomo del romanzo di Stoker e ha men che meno a che fare con i personaggi più moderni, che vanno dagli action-horror movie sul tema Underworld o Blade alle serie tv di Buffy o True Blood. I non morti temuti nell’Europa dell’est erano creature più terra-terra, letteralmente.
Nelle cronache e nelle leggende d’epoca vengono descritti come gonfi, con una carnagione scura o sanguigna. Queste caratteristiche erano spesso attribuite alla nutrizione a base di sangue, difatti il vampiro, nella sua tomba, tendeva a perdere sangue dalla bocca e dal naso, il suo occhio sinistro rimaneva spesso aperto e i capelli e le unghie continuavano a crescere dopo la morte. Aggiungo una piccola nota ad effetto: i famosi canini non venivano menzionati tra le sue caratteristiche, facendo crollare completamente il suo più noto aspetto distintivo moderno.
Il vampiro diventava tale a causa di maledizioni, il mancato rispetto di determinate norme di sepoltura, una vita connotata da stranezze (immaginate quali potessero essere in paesi superstiziosi dove anche la troppa lettura, sempre che non si fosse un prete, destava sospetto) oppure una morte violenta o un suicidio.
Per questo motivo vi erano, nei villaggi di Slovenia, Slesia, Polonia, Ungheria, Transilvania, Serbia, Bosnia, Moldavia e Valacchia, dei peculiari usi nel seppellire i morti “a rischio”: i cadaveri venivano interrati a testa in giù, con alcuni oggetti o elementi come croci, iscrizioni sacre, falcetti, semi di papavero o miglio che, a seconda della tradizione, servivano a placare/bloccare il male. Nei casi peggiori si spezzava le caviglie al cadavere, si recideva la testa o si metteva un sasso in bocca.
Se poi si scopriva che qualche incauta (o meglio dire pietosa) famiglia non aveva ottemperato a questi rituali superstiziosi e quindi c’era il “concreto” rischio di un risveglio vampirico, si passava ai mezzi difensivi: aglio, rosa selvatica, biancospino e verbena servivano a tenere lontani i non-morti, mentre crocifissi, rosari e acqua santa potevano esorcizzarli. Anche gli specchi venivano usati per allontanare i vampiri, ad esempio posizionandone uno sulla porta d’ingresso (secondo alcune culture, i vampiri non possono riflettersi e talvolta non proiettano la propria ombra, forse per via della mancanza dell’anima).
Secondo altre leggende un vampiro non può entrare in un’abitazione se non invitato dal padrone di casa e infine (altro cliché da smantellare) non erano considerati vulnerabili alla luce del sole, per quanto preferissero la notte per agire.
Se infine bisognava ucciderlo il metodo più sicuro era l’impalamento, con un palo di frassino, biancospino o quercia (a seconda della tradizione locale) sul cuore, oppure nello stomaco (Serbia) o nella bocca (Russia e Germania). Questa pratica era dovuta alla totale ignoranza sui fattori della decomposizione. Il corpo del morto tende infatti a gonfiarsi con i gas creati dalla marcescenza degli organi interni ed è ormai risaputo che unghie, baffi e capelli continuano a crescere post mortem, dando alle genti dell’epoca la falsa impressione di una vita dopo il trapasso. Un palo infilato con forza nel petto non solo “sgonfiava” il presunto vampiro, ma spesso terrorizzava tutti facendo passare l’aria tra le corde vocali del cadavere, facendogli emettere dei suoni come d’agonia o d’odio.
Come già accennato prima un altro metodo spesso utilizzato era la decapitazione. A questo già macabro gesto si univa la pratica di seppellire la testa lontano dal corpo, oppure di inchiodare quest’ultima e il corpo al suolo con paletti di legno, ferro o acciaio, tutti elementi che “ancoravano” il cadavere alla terra, allontanando la possibilità che l’anima maligna vagasse in cerca dei vivi.
In casi eccezionali, dove null’altro era bastato, il cadavere veniva smembrato, i pezzi bruciati e infine mischiati ad acqua e somministrati ai parenti come cura contro il suo ritorno (e poi ci domandiamo come mai la gente morisse giovane all’epoca).
Prima di chiudere mi preme trattare le epidemie vampiriche che flagellarono l’Europa centrale e dell’est tra la fine del XVII e il XVIII secolo.
La prima testimonianza risale al 1672, nell’Istria. Le cronache del luogo ci riportano di Jure Grando, bracciante che morì nel villaggio di Khring nel 1656 ma che, a detta dei paesani, era tornato per bere sangue umano e per tormentare sessualmente le giovani donne. Il capo del villaggio ordinò quindi che venisse piantato un paletto nel cuore del cadavere, ma visto che la sua presenza maligna non pareva essersi dissolta, gli abitanti terrorizzati provvidero anche a decapitarlo.
Da quel momento, e per metà del secolo successivo, una vera e propria isteria di massa sembrò colpire l’Europa centro-orientale, non limitandosi ai superstiziosi contadini, ma coinvolgendo anche ufficiali dei governi austriaci, prussiani, ungheresi. Difatti in Prussia orientale sono citati attacchi di non-morti nel 1721, mentre nei domini asburgici ci furono i casi più eclatanti tra il 1725 e il 1734.
I primi ad essere perfino verbalizzati ufficialmente furono quelli dei serbi Peter Plogojowitz e Arnold Paole. Il primo era un uomo morto a 62 anni, che si credeva fosse tornato nel mondo dei vivi e avesse chiesto al figlio del cibo. Il figlio si rifiutò di sfamarlo e fu trovato morto il giorno seguente. Plogojowitz sarebbe poi tornato e avrebbe attaccato alcuni suoi vicini di casa che morirono per gravi perdite di sangue. Paole, invece, era un ex soldato che si diceva fosse stato attaccato da un vampiro anni prima. Dopo la sua morte delle persone morirono nei paraggi e si credette che Paole fosse tornato e avesse iniziato a cibarsi dei suoi vicini. I due incidenti furono ben documentati: ufficiali governativi esaminarono i cadaveri, fecero rapporto e pubblicarono libri in tutta Europa, alimentando quella che divenne nota come la “Controversia sui vampiri del XVIII secolo”.
Il problema fu aggravato dalle epidemie rurali di acclamati attacchi di vampiri, causati indubbiamente dalla superstizione presente nelle comunità dei villaggi, dove venivano disseppelliti cadaveri e trafitti con paletti di legno. Nonostante molti studiosi dichiarassero che i vampiri non esistevano, e attribuissero gli eventi a sepolture premature o alla malattia della rabbia.
Perfino Voltaire, nel suo Dizionario Filosofico, scrisse: “Questi vampiri erano cadaveri, che uscivano dalle loro tombe la notte per succhiare il sangue dei vivi, sia dalle loro gole che dai loro stomachi, e poi tornavano nei loro cimiteri. Le persone a cui succhiarono il sangue si indebolivano, divenivano pallide e iniziavano a consumarsi, mentre i cadaveri che succhiavano il sangue prendevano peso, la loro carnagione si faceva rosea e godevano di un grande appetito. Fu in Polonia, Ungheria, Slesia, Moravia, Austria e Lorena che i morti poterono così gioire”.
La grave questione, che stava creando non pochi problemi in tema di ordine pubblico, venne risolto alla radice dall’Imperatrice Maria Teresa d’Austria, che inviò il suo medico personale, Gerard van Swieten, ad investigare nei suoi domini orientali e meridionali. Questi, dopo un’indagine incentrata su ferrei caratteri illuministici, sentenziò che i vampiri non esistevano. Confortata dal responso la sovrana approvò una legge che proibiva l’apertura e la profanazione delle tombe e dei cadaveri, ponendo fine alla controversia. Nonostante ciò, i vampiri continuarono ad esistere nelle arti e in alcune superstizioni locali e più di un funzionario o sacerdote chiuse gli occhi quando i contadini decidevano che una legge emanata a Vienna non bastava a tener lontani i non-morti.
Ad ogni modo questo argomento affascinò anche gli uomini di scienza. Teologi e naturalisti italiani del XVIII secolo andarono a catalogare le specie vampiriche, trattandole come se fossero un animale raro da osservare e studiare. Giuseppe Davanzati stampò a Napoli nel 1774 il suo “Dissertazione sopra i vampiri”, che venne apprezzato anche da medici, uomini di religione e perfino dal Papa Benedetto XIV, che lo definì meritevole “Sì per la dottrina, che per la vasta erudizione”.
Insomma pare proprio che il vampiro moderno, quello che poi è stato ulteriormente reinterpretato, rivisto, modellato dalla cultura contemporanea, nasca nelle valli e nelle montagne slave dei Balcani. Le radici risalgono, come in tanti casi di miti e leggende, nelle credenze pre-cristiane di questi popoli venuti dal freddo nord.
Secondo le credenze slave vi era una netta distinzione tra corpo e anima. Questa era imperitura e alla morte del corpo avrebbe vagato per quarant’anni prima di trovare pace nell’oltretomba eterno. Per questo motivo, alla morte di un parente, veniva lasciata una finestra aperta, di modo che l’anima potesse entrare e uscire a suo piacimento. Si credeva che durante questo periodo l’anima avesse la capacità di poter rientrare nel corpo del defunto. Molti riti sepolcrali avevano lo scopo di assicurare la purezza dell’anima, ora che si era separata dal corpo. La morte di un bambino non battezzato, un morte violenta o prematura, la morte di un grave peccatore (come uno stregone, un assassino o un suicida) o una sepoltura non appropriata erano tutte cause di impurità dell’anima. Un’anima impura era molto temuta dagli slavi, poiché era potenzialmente vendicativa.
Da queste credenze riguardo alla morte e all’anima deriva il concetto slavo di vampyr. Un vampiro è la manifestazione di una spirito impuro che sta possedendo un corpo in decomposizione. Questa creatura non-morta è vendicativa e gelosa nei confronti dei vivi, da cui succhia sangue per sopravvivere.
Abbiamo infine il quadro completo se aggiungiamo a tutto questo la scarse conoscenze scientifiche riguardo ai processi di decomposizione, il propagarsi delle epidemie specialmente tra i parenti del morto (da lì le morti dei familiari, “tormentati” dal vampiro) o anche agli effetti di alcune malattie come la rabbia, che trasforma l’essere umano morso da un’animale infetto (lupi o pipistrelli, “stranamente” animali associati al vampirismo) andando ad intaccare parti del suo cervello causando disturbi del sonno, aggressività (perfino mordere altre persone), ipersessualità, perdita di sangue dalla bocca e morte.
Insomma il vampiro è un retaggio di miti ancestrali, ma come tutti i mostri mitologici alberga solo in quel lato della natura umana che teme l’irrazionale e che è spaventato dal grande tema per cui nascono tutte le religioni: la paura della morte e la presenza o meno di una vita nell’aldilà.
Alberto Massaiu
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