Il terrorismo di matrice islamica sembrava ormai passato di moda. Dopo la catena di eventi partita con l’11 settembre, gli attacchi a Londra e Madrid e le due “controffensive del mondo libero, democratico e occidentale” in Afghanistan prima e in Iraq poi – i cui collegamenti logici non sono mai stati chiariti, visto che gli attentatori ufficiali del 2001 risultavano tutti sauditi e non afghani, come d’altro canto lo era il miliardario, figlio di papà sceicco, Osāma Bin Lāden. In più non è mai stato provato né il coinvolgimento di Saddām Hussein con Al-Qā’da, né il tanto temuto possesso di armi di distruzione di massa – che avevano infiammato gli animi e le opinioni dell’Occidente, si sono via via sgonfiate.
Si dice che il tempo tenda a curare tutto, a maggior ragione in una società globalizzata, piena di stimoli e frenetica come la nostra, che si annoia nel vedere sviscerato per troppo tempo lo stesso argomento e non vede l’ora di cibarsi di sempre nuove novità.
Allo stesso modo il conflitto afgano e iracheno, la lotta la terrore e al fondamentalismo hanno perso d’interesse, tranne per le famiglie dei soldati che venivano spediti a rotazione periodica in quei lontani lidi sabbiosi, tormentate dall’angoscia di ricevere la notizia di un’imboscata o di un attacco dinamitardo suicida contro una pattuglia militare.
Ora le luci della ribalta si sono nuovamente posate sul mondo musulmano, come un vecchio attore tornato alla fama dopo l’inatteso successo della sua ultima interpretazione. Nel nostro caso questo successo è stato la presa di Mossul, il 10 giugno del 2014, da parte della milizie dell’Isis, che ha risvegliato l’interesse dei media sulle vicende mediorientali.
Mossul è la seconda città dell’Iraq dopo Baghdad, da l’accesso a vaste risorse energetiche e idriche e permette il controllo di alcuni pozzi petroliferi strategici, minacciando inoltre le grandi linee di gasdotti e oleodotti che riforniscono di vitali materie prime il Primo Mondo Industrializzato.
Non dobbiamo infatti pensare che questo gruppo sia nato così di botto, sbucato come un fiore miracoloso nelle sabbie del deserto mesopotamico. L’Isis – Islamic State of Iraq and al-Shām – si sviluppa in seguito alle scissioni, lotte intestine, cambi della guardia che hanno caratterizzato il flusso, il riflusso e nuovamente la crescita della lotta contro l’invasore anglo-americano. Già nel 2004 nasce, come supposta costola irachena di Al-Qā’da (più famosa come Al Qaeda, definizione data dai media di lingua inglese) sotto la guida di Abū Mus’ab al-Zarqāwī, per combattere le forze della coalizione di volenterosi guidata da Bush che aveva pensato – con una superficialità e faciloneria che è costata migliaia di morti agli alleati, oltre mezzo milione agli iracheni, e otto anni di conflitto – di aver liquidato in sole tre settimane la questione Saddām.
Nel 2006 al-Zarqāwī viene ucciso da un raid americano e le fortune dell’Is – Islamic State – sembrarono declinare, con il successo di una serie di operazioni congiunte, pianificate dal generale David H. Petraeus, tra forze d’élite americane coadiuvate dai peshmerga curdi e dalla collaborazione di alcune tribù sunnite contrarie ai fondamentalisti.
Tra il 2010 e il 2012 ci fu la ripresa. I tre fattori che di seguito andremo ad illustrare hanno creato quelle condizioni di debolezza, rancore, spirito di rivalsa e, soprattutto, vuoto di potere, nel quale fin dalla notte dei tempi qualsiasi piccolo ma agguerrito gruppo minoritario ha sempre potuto rafforzare il suo potere.
- Punto primo, Nūrī al-Mālikī. Primo ministro iracheno dal 2005 al 2014, di fede scita, è riuscito a scontentare un po’ tutti durante il suo mandato. Ha perseguitato i sunniti, che sono una minoranza nell’Iraq ma andavano a comporre i vertici del paese – attraverso il partito Ba’th – ai tempi di Saddām Hussein. Vogliamo ricordare a chi non lo sa che l’Isis si professa di fede sunnita – corrente maggioritaria dell’Islam, con 1,35 miliardi di fedeli (90% dell’intero mondo musulmano) – e quindi ha un potenziale bacino di reclutamento molto ampio. Il paradosso è che i sunniti iracheni erano molto meno fanatici dei sunniti di altri paesi, in quanto il partito Ba’th professava, a suo modo, una forte laicizzazione, modernizzazione e nazionalizzazione del paese. Bene, Nūrī al-Mālikī è riuscito a spingerli, con la sua miope politica di discriminazione, sempre più verso le braccia dell’Isis. In più, come se non bastasse, il premier uscente ha stretto troppe volte l’occhio sia all’Iran – per la comune fede scita -, sia alla Russia – per avere un’alternativa strategica visto il disimpegno Usa -, alienandosi il sostegno occidentale che vede con il fumo negli occhi entrambi i paesi.
- Punto secondo, la guerra civile siriana. Baššar Hafiz al-Asad, presidente/dittatore della Siria nonché segretario del partito Ba’th siriano da oltre dieci anni, dal 2011 – dopo la velleitaria Primavera Araba, che più che risolvere ha solo aumentato il disordine nello scacchiere mediorientale – è alle prese con una sanguinosa guerra civile che ha indebolito di molto il suo controllo su di uno Stato che, nonostante fosse amministrato in maniera certamente dispotica e autoritaria, era per certo lontano da estremismi religiosi. Divertente notare il voltafaccia occidentale, che fino a pochi mesi fa avversava e condannava a parole Assad, visto come il cattivo della regione, ma che ora lo vede come l’ultimo baluardo contro la marea islamica montante. Ad ogni modo i siriani governativi hanno perso molto terreno e faticano a tenere le loro posizioni, tanto che una buona parte della Siria orientale risulta controllata dalle milizie dell’Isis.
- Punto terzo, il disimpegno statunitense. Come sempre gli Usa si dimostrano invincibili nelle offensive lampo, ma pessimi nella visione strategica a lungo periodo. Come col Vietnam, dopo un conflitto lungo otto anni hanno sbaraccato in fretta e furia lasciando un paese –l’Iraq – ormai in stato di vassallaggio ma allo sbando completo, senza un vero e proprio leader, senza aver creato alcun sistema democratico, con le infrastrutture e i servizi a pezzi e con forze armate che disertano ogni volta che affrontano un pugno di miliziani dell’Isis.
Dopo aver ottenuto quello che volevano – eliminare Saddām e rendere sicuri i giacimenti petroliferi della regione e i collegamenti con le materie prime che dal Kazakistan arrivano in Europa a sud del Mar Caspio – le forze americane se ne sono andate, infischiandosene altamente dell’equilibrio della regione. Ma dovevamo aspettarci un risultato simile, se guardiamo a come hanno ridotto negli ultimi sessant’anni il loro cortile di casa sudamericano – tra golpe di destra da loro finanziati e continue destabilizzazioni economiche – pur di mantenervi la loro supremazia.
Nel 2014, dopo due anni di rafforzamento e di piccole azioni passate sotto totale silenzio e disinteresse da parte nostra, i fondamentalisti fanno il colpo grosso con la presa di Mossul. Solo allora ci siamo accorti dell’esistenza dell’Isis. Come mai? Semplice, Mossul è un crocevia strategico per quelle vie sopracitate che portano materie prime ed energetiche dal Kazakistan fino a noi. In caso contrario, come con i genocidi in paesi africani senza risorse economiche per noi interessanti, avremo tranquillamente proseguito il placido percorso delle nostre vite senza sapere alcunché della rinascita del fantomatico Califfato islamico.
Come sempre, la combinazione di sovraesposizione mediatica fornita a reti unificate da tutti i paesi dell’Occidente, unita ad un uso agghiacciante dei social media da parte degli strateghi della comunicazione dell’Isis, ha creato il panico e l’isteria collettiva che anima attualmente i nostri Stati. Ma se ci fermiamo un attimo, ci turiamo le orecchie per non sentire tutte le grida e ragioniamo a mente fredda, tutta la faccenda riprenderà le giuste proporzioni.
Al di là della indubbia tragedia umana di vedere delle decapitazioni postate su twitter, oltre ad alcuni barbarici video di esecuzioni di prigionieri da parte di fanatici religiosi armati di AK-47, cosa rimane? L’Isis dispone, allo stato attuale, di circa 10.000 miliziani con armi leggere, qualche pezzo di artiglieria e dei mezzi semi-blindati rubati ai governativi siriani e iracheni. Questi numeri, uniti alla fede religiosa e ad una dura disciplina, permettono di creare molti problemi a due regimi traballanti come quello siriano ed iracheno, ma non sono di sicuro sufficienti a controllarne tutto il territorio, dove la maggior parte della popolazione è di altra fede o comunque abbastanza laicizzata da decenni di governo nazionalista-laico Ba’th. Dall’altra parte ci stanno il gendarme occidentale della regione Israele – 180.000 soldati regolari, 450.000 riservisti con aviazione, marina, mezzi corazzati, artiglieria pesante e armi nucleari –, gli Stati Uniti – quasi 3 milioni di uomini con 1.600 navi, oltre 22.000 aerei da guerra e 7.200 testate nucleari – oltre che tutte le altre forze della Nato. Quale sarebbe, quindi, il pericolo islamico?
Come diceva Napoleone Bonaparte “Ci sono due cose che uniscono gli uomini: la paura e l’interesse”. La paura è la più forte arma di controllo, con la paura si possono chiedere alle masse cose che nessuna società concederebbe ai suoi governanti. Cosa che, se ci pensiamo bene, è stato fatto con il Patriot Act negli Usa, dove sono state ridotte alcune garanzie costituzionali, e con misure simili prese in Europa e nei paesi Nato per affrontare il terrorismo post 11 settembre.
Per questa ragione ci troviamo di fronte alla situazione attuale, dove da Obama fino al Consiglio europeo tutti i leader del mondo democratico urlano a gran voce che bisogna arginare le barbarie dell’Isis (assolutamente ingiustificabili, s’intende), dimenticando – o più correttamente cercando di farlo dimenticare a noi! – che è a causa del loro operato che quest’organizzazione si è potuta sviluppare.
Le continue intrusioni delle potenze europee nelle faccende del Medio Oriente fin dall’epoca del Grande Gioco; la creazione – senza un’apposita preparazione che disinnescasse i motivi di conflitto con i palestinesi – dello Stato d’Israele nel 1948; la campagna pluridecennale di sanzioni economiche, sabotaggi e isolamento diplomatico che gli Stati Uniti conducono contro l’Iran fin dal 1979; infine le recenti invasioni dell’era Bush hanno esasperato sempre di più il mondo musulmano, che si è visto trattato come una sorta di scacchiera per giochi di potere altrui.
Detto questo, perché mai stiamo reagendo con una tale ed esagerata crisi di nervi dal parte dei nostri governanti? A mio parere la questione è più complessa e riguarda il cambio di equilibri del globo. Fin dal XVIII secolo i paesi europei – ai quali si aggiungeranno più tardi gli Stati Uniti e il Giappone e ancora più recentemente la Cina – hanno dominato il mondo, creando un sistema di potere che è stato consacrato dalle Nazioni Unite – ricordiamo che il Consiglio di Sicurezza ha come membri permanenti Usa, Regno Unito, Francia, Cina e Russia – e dalla divisione in blocchi della Guerra Fredda.
Dopo la sconfitta del nemico sovietico sembrava fatta per l’egemonia globale statunitense ma, come si è sempre verificato fin dalla notte dei tempi, quando un Impero diventa troppo forte tutti gli altri tendono a coalizzarsi per rosicchiare il suo potere. E’ stato così per gli assiri e i babilonesi, per Roma, per il vecchio Califfato abbasside, per i mongoli di Gengis Khan, per la Spagna di Filippo II e così via. Ora tocca agli States. E’ la natura delle cose tendere ad un riequilibrio e un calmieramento dei poteri quando uno solo punta alla completa supremazia.
Che soluzioni allora? Aldo Giannuli, nel suo blog ha espresso un’opinione che condivido appieno: “..Può l’Occidente, nelle condizioni attuali, pretendere il monopolio delle posizioni apicali nel Fmi, nella Bm, nel Wto? Un ordine mondiale, sia monetario che politico, fondato sull’egemonia di un gruppo di 7-8 grandi potenze (Usa, Giappone, Cina, Brasile, India, Russia, Sud Africa e, se riesce ad esistere, Ue), sarebbe sicuramente più equilibrato e, attraverso un efficiente sistema di regolazione dei conflitti internazionali, consentirebbe una riduzione bilanciata della spesa militare. Sarebbe il declino dell’egemonia occidentale, ma non per il passaggio ad un’altra egemonia monopolare, bensì ad una egemonia bilanciata e condivisa. Tutto questo non è ritenuto degno di considerazione da parte delle nostre classi dirigenti che, piuttosto che cedere il loro vacillante monopolio di potere, pensano di passare alle armi. Non è il mondo dei tiranni ad avere paura delle libertà occidentali. E’ l’Occidente ad avere paura della propria decadenza, che legge nello specchio della crisi”.
Fino a quando non comprenderemo bene questo aspetto continueremo ad avere questi scontri di civiltà i quali, che lo accettiamo o no, porteranno in ogni caso, ma di sicuro in maniera più drammatica, ai riequilibri che la storia impone ad ogni civiltà con i cicli umani di nascita, crescita di potenza, periodo d’oro e decadenza.
Alberto Massaiu
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[…] ho avuto già modo di dire nel mio articolo sull’Isis, quest’ultimo cresce per l’immenso vuoto strategico-politico dovuto all’esito disastroso […]