L’espansione coloniale europea in Africa, che si espresse in tutta la sua forza e arbitrio nella seconda parte del XIX secolo, prende appena poche righe nei libri di testo moderni, che spendono invece molto più inchiostro a parlare della decolonizzazione, senza affrontare le origini di questo fenomeno.
Di per sé questo processo non si discosta troppo, per metodi e atteggiamenti, alla condotta di tutti gli Stati, popoli e nazioni dei secoli precedenti, in ogni angolo della terra. La differenza risiede nel assoluto divario tecnologico tra le forze in campo e l’idea – da parte occidentale, perlomeno – che tale vantaggio mettesse i conquistatori ad un livello talmente superiore rispetto dalle popolazioni indigene da civilizzare che, se possibile, si sarebbe dovuto procedere in maniera quanto più indolore al loro asservimento.
Questo non vuol dire che non avvennero massacri di civili e battaglie violentissime – basti pensare alle Guerre Anglo-Zulù o a quello che fecero belgi e tedeschi in Congo e Namibia – ma, in linea generale, di norma il processo avvenne in maniera relativamente indolore, con un mix di corruzione e assimilazione delle élite locali ai nuovo “amici-padroni” bianchi.
Culmine di questo processo fu la celebre Conferenza di Berlino del 1884-5, dove, seppure non negli atti ufficiali, venne data la possibilità alle potenze europee di proclamare possedimenti all’interno delle zone costiere già occupate.
Un punto in particolare fu la molla che fece scattare la “Scramble for Africa”, traducibile con “Corsa per l’Africa”: il principio di effettività. Questo affermava che il primo che arrivava in un luogo, con i propri esploratori, pionieri, militari, missionari o compagnie commerciali, avrebbe potuto vantare su di questo i propri diritti sovrani. Questo principio scatenò la grande corsa finale degli ultimi due decenni del XIX secolo, che portò alla spartizione della torta africana in una manciata di anni.
Oltre che i classici motivi legati allo sfruttamento economico e il prestigio personale – degli esploratori – e internazionale – degli Stati europei -, l’avventura africana fu vista da molti come uno sfogo di quelle tensioni politiche e sociali che non si riusciva a sfogare in patria. Fu in tale contesto che la giovane nazione italiana, fresca fresca dalla sua ultima guerra d’indipendenza, decise di ottenere il suo posto al sole, che l’avrebbe posta nel novero delle grandi potenze mondiali.
Purtroppo per noi, il meglio era già stato accaparrato, e ci si dovette accontentare della piccola Eritrea, una striscia di terra sul Corno d’Africa, che venne acquisita con una serie di trattati e accordi con l’Impero Ottomano, l’Egitto e le élite locali tra il 1882 e il 1890, dove venne proclamata ufficialmente la nascita della nostra prima colonia.
Giusto l’anno prima, la diplomazia italiana sembrava aver compiuto un ulteriore buon passo avanti, grazie alla firma del Trattato di Uccialli con il negus Menelik II, Re dei Re d’Etiopia. Il 2 maggio 1899, infatti, l’ambasciatore Pietro Antonelli stipulò un accordo internazionale con il sovrano etiope, che doveva aprire agli scambi commerciali e alla pacifica convivenza di rapporto tra le due nazioni.
In verità, fu proprio tale trattato a portare alla futura guerra d’Abissinia (nome che assegnavamo all’Etiopia dell’epoca). Il pomo della discordia fu l’errata – non si sa se voluta o meno – doppia traduzione dell’articolo 17, di cui riporto qui la versione integrale:
Versione in italiano: «Sua Maestà il Re dei Re d’Etiopia consente di servirsi del Governo di Sua Maestà il Re d’Italia per tutte le trattazioni di affari che avesse con altre potenze o governi»
Versione in amarico: «Sua Maestà il Re dei Re d’Etiopia può trattare tutti gli affari che desidera con altre potenze o governi mediante l’aiuto del Governo di Sua Maestà il Re d’Italia»
Per le sottigliezze della lingua diplomatica dell’epoca, quel “consente di servirsi” al contrario di “può trattare” stabiliva un esclusiva, da parte dell’Etiopia, nel dover utilizzare solo i canali diplomatici italiani per i rapporti internazionali, cosa che la metteva in una condizione di sudditanza e protettorato rispetto all’Italia.
La poca chiarezza dell’articolo fu probabilmente un escamotage elaborato da Antonelli per soddisfare Roma (che puntava ad estendere la sua influenza alla più fertile e ricca Etiopia) e allo stesso tempo concludere l’accordo col negus (che non avrebbe mai accettato, come infatti si verificò, una sudditanza rispetto a chicchessia). Insomma un pastrocchio diplomatico che ci esplose in faccia già l’anno dopo, quando Menelik allacciò relazioni diplomatiche in completa autonomia con Russia, Francia e Gran Bretagna.
Le proteste di Crispi, allora capo del governo, furono ignorate prima e sdegnosamente respinte poi. Il sovrano amarico giunse perfino a richiedere una revisione immediata del trattato per modificare l’articolo 17, cosa che deteriorò rapidamente i rapporti tra i due paesi.
L’aspetto ironico è che, proprio per ingraziarsi quello che veniva considerato ormai un vassallo, quello stesso governo che ora faceva la voce grossa aveva prestato ben 4 milioni di lire ad Addis Abeba come aiuti economici, che stavano venendo utilizzati dagli etiopi per ammodernare le loro forze militari, riducendo in parte il gap con le truppe europee.
I principali fornitori di armi per l’esercito del negus furono la Russia – che parteggiava esplicitamente per l’Etiopia, in quanto legata dalla comune fede ortodossa – e la Francia, ancora in pessimi rapporti con l’Italia per la questione di Tunisi. Il colmo fu però la stessa condotta delle autorità coloniali e commerciali italiane, che fino all’ultimo sfruttarono la lucrativa possibilità di vendere migliaia di moderni fucili Carcano Mod.91 e milioni di cartucce, di vitale importanza per l’esercito etiope che non disponeva di fabbriche di polvere da sparo.
Una rivolta scoppiata nella regione Acchelè-Guzai nel 1894 mise gli italiani in contrasto con ras Mangascià, nobile locale in contrasto con Menelik, che aprì la strada ad una spedizione punitiva che, nei piani di Roma, avrebbe aperto la conquista della regione del Tigrè, garantendo all’Italia una posizione di forza in future trattative con il negus, di cui Mangascià era comunque suddito.
La campagna partì molto bene. Nella battaglia di Coatit, nel gennaio 1895, gli italiani sbaragliarono ben 12.000 guerrieri di Mangascià, che portò alla conquista di Macallè, Aksum e Adigrat.
Queste facili vittorie tattiche portarono tre effetti negativi di natura strategica:
- Mangascià dovette rifugiarsi dal negus, riconciliandosi con lui (e quindi sottraendo agli italiani un leader da contrapporre a Menelik per il governo del paese) e unendo quindi tutti gli etiopi sotto un’unica bandiera;
- Le grandi conquiste avevano disperso le già scarse forze italiane;
- I semplici successi ottenuti sulle male armate e disorganizzate milizie di Mangascià fecero erroneamente supporre che le forze del negus sarebbero state di entità e qualità simili, creando quel clima di faciloneria e vanagloria tipico di tutti i disastri militari nella storia (non solo italiana).
Il generale Oreste Baratieri dovette affrontare il potente urto delle forze abissine, che nel novembre del 1895 si radunarono presso Were Ilu per muovere guerra agli invasori italiani. Al contrario delle (disi)stime italiane, l’armata di Menelik contava ben 100.000 guerrieri tra fanti e cavalieri, di cui almeno la metà era dotata di armi da fuoco, ben rifornita di munizioni di qualità grazie ai poco previdenti prestiti concessi dallo stesso governo di Roma negli anni precedenti.
Contro questa poderosa e motivata armata stavano circa 36.000 soldati italiani tra “nazionali” e “locali”, detti ascari, divisi in tante guarnigione isolate nell’immenso territorio al confine tra Etiopia ed Eritrea.
Il primo impatto avvenne sull’Amba Alagi, dove il maggiore Toselli affrontò con appena 2.500 uomini i 30.000 guerrieri di ras Mekonnen. Un ordine di ritirarsi, inviato dal comando centrale, non giunse in tempo e il reparto fu circondato e sterminato il 7 dicembre.
Ben presto la maggior parte delle postazioni avanzate italiane dovettero essere abbandonate, ma il generale Arimondi lasciò il maggiore Galliano a presidiare Macallè con 1.300 soldati, arroccati nella fortezza strategica di Enda Jesus. La resistenza durò fino al 22 gennaio del 1896, quando senza più rifornimenti d’acqua Galliano dovette consegnare il forte, in cambio del diritto – guadagnato con la fiera resistenza condotta durante l’assedio – di lasciare la fortezza con le armi e le bandiere in pugno.
L’immensa armata etiope subiva un cronico problema di rifornimenti, perciò il negus scrisse direttamente al re d’Italia Umberto I per raggiungere un accordo. La sua sola richiesta era l’annullamento del trattato di Uccialli, ma venne respinta. Questa orgogliosa intransigenza, a cui non seguì un altrettanto risoluta azione militare, portò alla catastrofe finale.
Gli ufficiali superiori italiani, con a capo Baratieri, non avevano mappe che riproducevano fedelmente il teatro di operazioni. I perfetti documenti redatti dall’istituto cartografico reale segnalavano distanze e luoghi in maniera errata, creando caos e continue incomprensioni tra i comandanti.
Per questo motivo, cercando di attuare una manovra aggirante, gli italiani si trovarono con le loro forze – già inferiori di numero quasi 3 a 1 – sparpagliate e incapaci di supportarsi a vicenda. Gli etiopi, al contrario, erano perfettamente a conoscenza del terreno natio e si lanciarono compatti sulle singole brigate italiane, pappandosele una alla volta sfruttando la loro schiacciante superiorità numerica.
In tal modo, nell’arco di poche ore, in quella sanguinosa giornata del 1° marzo 1896 l’orgogliosa armata italiana venne annientata. Al tramonto si contavano ben 6.000 morti in combattimento, con 1.500 feriti e 3.000 prigionieri, di cui due generali (Arimondi e Dabormida) e il tenente colonnello Galliano, sopravvissuto all’assedio di Macallè per cadere ad Adua. Anche gli etiopi avevano subito ingenti perdite, con circa 15.000 morti e feriti, ma la giornata era loro. Avevano respinto e disfatto le potenti truppe europee, garantendosi una robusta posizione di forza nelle future trattative con il regno d’Italia.
Menelik sapeva, infatti, che la sua armata semifeudale aveva raggiunto i limiti della sua capacità offensiva e il suo stesso alto numero di effettivi ne rendeva inefficiente l’utilizzo per periodi prolungati, a maggior ragione lontano dal proprio territorio.
Il negus, d’altronde, era più che soddisfatto. Aveva battuto gli invasori in maniera netta, aveva riconquistato la sottomissione dei suoi recalcitranti vassalli e raggiunto un prestigio ineguagliato tra i potentati africani, avendo sconfitto militari europei in campo aperto, in una battaglia di linea.
Va detto che non fummo i soli a subire delle sconfitte da parte di eserciti africani. I britannici avevano perso a Insandlwana contro gli zulù nel 1879 e a Khartoum nel 1885 contro i sudanesi, ma alla fine avevano inviato nuove truppe per riscattarsi, sconfiggendo i nemici dopo aver preso loro le misure.
Agli italiani, soprattutto a Roma – il governo Crispi fu costretto a dimettersi per le proteste -, mancava la volontà di organizzare una riscossa per salvare l’onore e perseguire il risultato finale di sottomettere l’Etiopia. Ci si limitò a destituire e processare Baratieri, considerato il solo e unico responsabile della sconfitta, per sostituirlo con il più determinata Antonio Baldissera.
Questi sapeva bene che il tempo giocava a suo favore e che l’imponente armata etiope si sarebbe sgretolata per fame, malattie e diserzioni tipiche di forze non regolari. Con questa condotta riuscì ad ottenere diverse piccole vittorie locali, ma quando chiese l’autorizzazione per proseguire l’offensiva venne bloccato da Roma, ormai decisa a negoziare.
Nell’ottobre del 1896 si giunse alla firma del trattato di pace di Addis Abeba, stavolta scritto in amarico e francese – ennesima umiliazioni diplomatica per l’Italia – per evitare nuove traduzioni ambivalenti.
Il primo effetto fu l’abrogazione totale del precedente trattato di Uccialli, causa del conflitto, a cui il negus faceva seguire il proprio riconoscimento alla sovranità italiana sull’Eritrea, mentre l’Italia a sua volta dovette promettere di non avanzare alcuna intromissione nella politica interna abissina.
L’avventura del giovane Stato europeo si era conclusa in modo tragico, ristabilendo quello che si poteva rettificare senza sacrificare tutte quelle vite. Ma la memoria italiana covò sempre sotto le ceneri e, appena trent’anni dopo, Benito Mussolini fondò un effimero impero nel Corno d’Africa, prendendosi la rivincita contro i nipoti dei vincitori di Adua.
Alberto Massaiu
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