La presa di Vienna, definita dai turchi “la Mela d’Oro” dopo la conquista di Costantinopoli, era stato il sogno di molti sovrani della Sublime Porta. Nel 1526 le forze di Sulaymān, detto il Magnifico tra gli occidentali e Kanunî – il Legislatore – tra la sua gente, avevano spazzato via l’ultima resistenza ungherese nei Balcani, sconfiggendo l’armata del Re di Ungheria e Boemia Lajos II a Mohács.
Lo stesso sovrano morì in battaglia appena ventenne e il suo regno, diviso e indebolito, collassò completamente: oltre 2/3 finirono in mani ottomane, sia direttamente che indirettamente – venne creato lo Stato vassallo cristiano di Transilvania, retto da János Szapolyai, che divenne anche Re dell’Ungheria sotto il dominio turco –, mentre il resto passò agli Asburgo d’Austria, che da quel momento diventarono i nuovi nemici cristiani dei sultani di Costantinopoli.
Sulaymān provò a chiudere subito la questione, assediando Vienna nel 1529 con 120.000 uomini tra giannizzeri, cavalleria, artiglieria e ausiliari cristiani moldavi e serbi. Eppure la stagione troppo avanzata per la campagna – era la fine di settembre -, la stagione estiva particolarmente piovosa che rallentò il trasporto dei più grandi e potenti cannoni per i Balcani e la resistenza dei viennesi, portarono al disastro. La ritirata turca in ottobre, con la neve che scese inaspettatamente quell’anno, fu costellata da migliaia di morti.
Una seconda campagna fu organizzata nel 1532, ma il forte di Kőszeg nell’Ungheria occidentale bloccò la nuova forza d’invasione ottomana e non si giunse più a Vienna, per quanto le numerose campagne di Sulaymān avessero stabilito la supremazia della Sublime Porta nei Balcani meridionali e settentrionali, con il suo centro a Belgrado e il suo avamposto di confine a Buda, conquistata in via definitiva nel 1541.
Da quel momento e per i successivi 140 anni i rapporti tra Vienna e Costantinopoli furono caratterizzati da fragili paci e reciproche scorrerie annuali, che spesso premiavano i turchi, in genere più preparati a questi tipo di conflitto grazie ai reparti di ausiliari tartari della Crimea.
Tutto cambiò con il vezir-i âzam – tradotto in gran visir o primo ministro – Ḳara Muṣṭafā Paşa, membro adottivo della potente famiglia Köprülü, che deteneva un saldo potere alla corte imperiale. Dal 1663 salì al rango più alto nella gerarchia politico-militare turca e guidò alcune campagne in Polonia e Ucraina.
Mehmet IV venne spinto dal suo visir a riprendere i piani di conquista contro i cristiani, muovendo guerra ai veneziani nell’Egeo e, infine, agli Asburgo d’Austria. Ḳara Muṣṭafā fece le cose in grande, mobilitando quasi 140.000 uomini e stanziando immense risorse per armare una flotta fluviale per i rifornimenti e i pesanti cannoni d’assedio.
Questa volta la tempistica era giusta, visto che la città di Vienna venne circondata a luglio. L’Imperatore del Sacro Romano Impero Leopold era più un amministratore e un diplomatico che un uomo di guerra, perciò scappò dalla sua capitale lasciando i cittadini e i difensori da soli, cosa che non gli venne in seguito perdonata dai viennesi.
Leopold non stette però con le mani in mano, contattò il Papa Innocenzo XI e orchestrò insieme a lui una nuova Lega Santa che unisse i regni di Spagna, Portogallo e Polonia, le Repubbliche di Genova e Venezia, il Granducato di Toscana, il Ducato di Savoia e numerosi Stati tedeschi come la Baviera e la Sassonia.
Tutti risposero alla chiamata del Papa e dell’Imperatore in difesa della Cristianità minacciata dai musulmani tranne Luigi XIV di Francia, che era l’acerrimo nemico degli Asburgo per l’egemonia sull’Europa e che, adottando il principio del “Il nemico del mio nemico è mio amico”, era segretamente alleato dei turchi e sperava in un indebolimento dell’Austria.
Vi era persino il concreto rischio di subire un attacco da parte dei francesi ad occidente mentre le forze asburgiche si concentravano ad est, ma il Papa fu molto chiaro e minacciò Luigi di non ostacolare la Lega Santa, se non voleva mettere in dubbio la sua cattolicità davanti all’intero mondo cristiano.
Risolto quel problema, Leopold incamerò un altro grande successo diplomatico quando ottenne l’appoggio di Jan III Sobieski, sovrano di Polonia e Lituania, che risultò così politicamente lungimirante da vedere nella difesa di Vienna un modo di proteggere l’Europa e di rafforzare il suo regno.
Entro settembre la Lega aveva così radunato pressappoco 80.000 soldati tra polacchi, tedeschi e italiani, che mossero verso la capitale ormai allo stremo dopo due mesi d’assedio.
Ḳara Muṣṭafā aveva compiuto nel frattempo numerosi errori:
- si era messo contro molti alti ufficiali, alleati e vassalli, compresi i tartari della Crimea – che aveva insultato durante una cena – e i principi cristiani valacchi, transilvani e ungheresi – a cui non nascondeva la sfiducia in quanto “infedeli”;
- aveva sprecato le migliori truppe a sua disposizione nelle operazioni d’assedio, consumandole in assalti e lasciandole fino alla fine davanti a Vienna, non tenendole in riserva per contrastare eventuali minacce esterne;
- non aveva né fortificato il campo turco, né occupato le altura da dove potevano giungere i rinforzi cristiani;
- aveva preso tempo e rimandato più volta l’attacco finale perché voleva negoziare la resa della città, cosa che gli avrebbe permesso di impossessarsi della sue ricchezze invece che lasciarle nelle mani dei soldati, cosa che sarebbe accaduta in caso di saccheggio.
A questo punto i comandanti alleati, Karl di Lorena e Jan Sobieski, erano pronti a muoversi, per quanto nessuno di loro avesse mai avuto esperienza nella guida di grandi armate così articolate e poco omogenee, cosa che comportò un po’ di confusione negli scontri tra l’11 e il 12 settembre.
Ad ogni modo l’esercito della Lega si radunò sul monte Kahlenberg, dove si confrontò con le truppe che via via Muṣṭafā inviava nella mischia, nel disperato tentativo di respingere i rinforzi cristiani.
I turchi erano molto più numerosi numericamente ma molte unità non si unirono alla battaglia, come la formidabile cavalleria leggera tartara – facendo pagare così gli insulti del visir – o i vassalli cristiani della Porta, come i valacchi che “non ricevettero” i dispacci e via via si allontanarono dal campo senza combattere.
In pratica la situazione andò a deteriorarsi sempre di più per gli ottomani, che sferravano assalti possenti ma non coordinati con cavalleria e fanteria, ottenevano successi locali che non potevano sfruttare per il mancato arrivo di rincalzi e venivano circondati e massacrati dalle più disciplinate forze della Lega Santa.
A questo punto Jan Sobieski giocò la sua carta segreta, i 3.000 ussari alati della sua cavalleria d’élite. Armati di lunghe lance, pesanti corazze decorate con ampie ali d’aquila e possenti stalloni da guerra, quest’unità scelta scese dal monte Kahlenberg come un’orda di demoni assetati di sangue, sbaragliando la resistenza turca sotto la guida personale del sovrano polacco-lituano.
La rotta degli ottomani fu totale, con oltre 15.000 caduti sul campo e la perdita completa di tutti i tesori, le armi e gli stendardi del principesco campo del gran visir, che si diede alla fuga fino a Belgrado.
L’immensa armata assediante si sciolse come neve al sole e si disperse in tutte le direzioni, tanto che gli alleati cristiani, nonostante subissero la defezione dei bavaresi, poté proseguire l’avanzata fino alla capitale serba, dove il 25 dicembre venne strangolato lo stesso Ḳara Muṣṭafā per ordine del Sultano Mehmet IV, irato per la devastante sconfitta subita, che aveva sgretolato il predominio della Sublime Porta sui Balcani.
La battaglia rappresentò il punto di svolta, a favore degli europei, delle guerre austro-turche. Infatti non solo segnò l’arresto della spinta espansionistica ottomana in Europa, ma anche l’inizio della loro estromissione dai Balcani.
Grazie al nuovo condottiero che emerse in quel conflitto, Eugenio di Savoia, ben presto l’iniziativa strategica nella regione passò nella mani degli Asburgo, che nel 1699 ottennero l’Ungheria, la Croazia, la Slavonia e la Transilvania e aggiunsero la Serbia settentrionale e il Banato nel 1718.
Da quel momento il temuto e potente Stato turco iniziò la sua lunga decadenza che, alle soglie del XX secolo, lo identificava come “Il malato d’Europa”. I giannizzeri, vera anima militare dell’impero, divennero più un peso che una risorsa, carichi di privilegi e sempre pronti a rivoltarsi come un tempo i pretoriani lo furono a Roma. Il loro corpo venne infine sciolto nel 1826 dal Sultano Muṣṭafā IV, che soppresse nel sangue la loro ultima ribellione, con oltre 30.000 morti tra le loro fila.
Allo stesso tempo gli enormi sforzi finanziari che l’Impero Ottomano fu costretto a sostenere per difendersi dall’Austria iniziarono a danneggiare sempre più gravemente l’economia dei Balcani. L’alta fiscalità era stata talvolta accettata nel primo seicento perché il dominio turco voleva dire pace e commercio, ma adesso la guerra arrivava fino ai confini dell’Albania e della Bulgaria e le tasse continuavano a salire, perciò la cosa divenne insostenibile.
Si sviluppò in Europa – detta Rumelia dai turchi – e in Anatolia il brigantaggio, mentre le rivolte, e l’evasione fiscale raggiunsero livelli preoccupanti, mentre il governo civile si dimostrò poco efficiente e molto più corrotto rispetto a quello austriaco e russo, che divenne sempre più un polo d’attrazione per le popolazioni slave e greco ortodosse.
La situazione politica balcanica, sempre più esplosiva, vide i suoi nodi venire al pettine tra la fine del XIX e gli inizi del XX, quando i nazionalismi rumeni, bulgari, serbi, montenegrini, albanesi, macedoni e greci irruppero con un fiume di violenza xenofoba e religiosa che animò le Guerre Balcaniche e fece esplodere, nel 1914, la Prima Guerra Mondiale.
Alberto Massaiu
3 Comments
Bella e chiara lezione
bellissimo ed interessantissimo articolo
Grazie mille 🙂